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La proposta di Pennisi: buona fede in senso oggettivo. Profili di

La varietà delle soluzioni adottate dalla giurisprudenza si poneva in contrasto con la definizione di buona fede unanimemente sostenuta dalla dottrina; Pennisi tentò di trovare un principio a cui ricondurre le varie opinioni giurisprudenziali, che si sono brevemente citate nel paragrafo precedente, tenendo anche in considerazione la direttiva marchi 89/104, che nel frattempo era stata emanata e si apprestava ad essere attuata all’interno dell’ordinamento italiano82.

Il comportamento del secondo imprenditore, il quale adotti un marchio confondibile ad uno precedente, può, a prescindere dal fatto che egli sia o meno a conoscenza dell’esistenza del primo marchio, essere ricondotto a due differenti schemi comportamentali. Il primo è quello che si può definire di tipo

81 Si veda in proposito Trib. Firenze, 20 aprile 1962, in Riv. Prop. Int. Ind., 1962, 287 ss., in cui si ritiene che la buona fede sia “una semplice credenza soggettiva di non ledere il diritto altrui, stato psicologico che prescinde da qualsiasi elemento di carattere obiettivo e che si concreta in una situazione di errore in cui versa il soggetto, errore che può cadere sia su elementi di fatto che su elementi di diritto”.

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“indipendente”: anche se questo soggetto adotta un segno confondibile, i suoi sforzi imprenditoriali sono rivolti ad accreditare il proprio prodotto sul mercato, in quanto proveniente dalla sua impresa, ed il suo comportamento sarà volto ad evidenziare le caratteristiche qualitative del prodotto stesso, senza alcun riferimento a quello contrassegnato dal marchio confondibile precedente, tanto che il suo modo di agire è assimilabile a quello dell’imprenditore che ignori la presenza del primo marchio sul mercato.

Il secondo tipo di comportamento è quello di tipo “parassitario”: in questo caso il secondo adottante intende inserirsi nella scia di notorietà del primo marchio, cercando addirittura di creare una situazione di confondibilità, senza alcun interesse per l’autonomo accreditamento del proprio prodotto secondo le sue particolari caratteristiche, affinché il pubblico creda che i prodotti da lui immessi sul mercato provengano dall’impresa del titolare del segno precedente. In questo caso non è detto che già al momento della registrazione il titolare del secondo marchio conosca il marchio precedente, egli potrebbe aver scelto quel segno casualmente, essersi solo successivamente reso conto del fatto che poteva sfruttare la somiglianza col primo marchio e solo in quel momento aver iniziato a comportarsi in maniera scorretta. Per Pennisi la buona fede sussisterebbe ovviamente solo nel primo caso e non nel secondo, a prescindere dallo stato di ignoranza o di conoscenza dell’altrui segno; a questo punto della riflessione risulta evidente che l’aspetto che il giudice deve esaminare, nell’indagine sull’elemento soggettivo, è il comportamento tenuto nei cinque anni anteriori rispetto al momento della proposizione della domanda giudiziale di nullità: accertata la sussistenza dei presupposti per tale periodo, l’indagine deve fermarsi ed il marchio deve considerarsi convalidato. La soluzione opposta, che richiede un’analisi di tipo soggettivo, riportata al momento dell’adozione del marchio, sarebbe antieconomica dal punto di vista processuale e comporterebbe la facilitazione di manovre ricattatorie da parte del titolare del primo marchio. Inoltre la soluzione di segno inverso comporterebbe anche la considerazione della convalida come metodo per dirimere una controversia di tipo statico tra

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due soli soggetti, mentre perderebbe di importanza la prospettiva dinamica, che considera la prolungata coesistenza sul mercato dei due segni.

Per Pennisi la buona fede, a cui faceva riferimento l’art. 48 l.m., doveva essere intesa come buona fede in segno oggettivo, nel significato di correttezza di comportamento.

Il vantaggio di questa interpretazione è ravvisabile anche nel fatto che la buona fede in senso oggettivo ha, rispetto a quella di tipo soggettivo, la caratteristica della bilateralità e può quindi costituire un’occasione di contemperamento di interessi contrapposti.

L’interesse del titolare del marchio anteriore è quello di avere una concreta possibilità di reazione e risulta maggiormente tutelato dal fatto che al secondo titolare sia richiesto un comportamento di tipo trasparente, mentre la buona fede in senso soggettivo consente piuttosto che il primo titolare possa “mettere in difficoltà” il secondo, se inizia a diventare un concorrente scomodo.

L’interesse del titolare del marchio convalidabile risulta allo stesso modo maggiormente tutelato dalla concezione oggettiva della buona fede, che consente all’imprenditore indipendente di maturare un affidamento meritevole di tutela, giacché quella soggettiva mette semplicemente “sul suo capo, senza ragione, una spada di Damocle”.

Inoltre questa considerazione è vantaggiosa anche dal punto di vista dei consumatori, a quali non interessa se il secondo registrante fosse o meno a conoscenza dell’esistenza del primo marchio al momento della registrazione; piuttosto hanno l’interesse a che il secondo titolare non adotti un comportamento confusorio.

La soluzione oggettiva risulta inoltre maggiormente compatibile con l’espressione utilizzata dall’art. 48 del 1942, che richiede la sussistenza della buona fede per tutto l’arco del quinquennio. Si sono già esaminati i problemi che derivavano dalla concezione della buona fede come ignoranza dell’esistenza dell’altrui segno, in particolare nel caso in cui questa fosse sussistente al momento della registrazione, ma successivamente venisse meno. L’interpretazione del requisito della buona fede in senso oggettivo risolve anche

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questo problema, dal momento che è completamente coerente con la ratio dell’istituto il fatto che il comportamento del secondo titolare debba essere secondo correttezza per tutta la durata del quinquennio.

Ad abundantiam Pennisi aggiunge, tra i punti a favore della interpretazione della

buona fede in senso oggettivo, che questa concezione è conforme alla disciplina dell’elemento soggettivo in materia di concorrenza sleale, vista l’opinione prevalente della dottrina, secondo cui l’atto concorrenziale è sleale per le modalità con cui è commesso, a prescindere dall’intenzione o dalla coscienza di nuocere del suo autore.

Pennisi esamina inoltre la disciplina che la direttiva 89/104 ha predisposto per uniformare la tutela dei marchi negli Stati membri dell’UE, rilevando che le novità in materia di convalida riguardano: la tolleranza cosciente richiesta da parte del preutente ed il fatto che sia escluso dalla convalida il marchio “domandato in mala fede”. Il testo della direttiva prevede che il secondo titolare debba non essere a conoscenza dell’esistenza del primo marchio al momento della registrazione, ma richiede che il primo titolare sia a conoscenza dell’uso da parte del secondo. Dal momento in cui il primo titolare è cosciente dell’esistenza del secondo marchio inizia la decorrenza del termine quinquennale; in questo sistema è irrilevante la sopravvenuta conoscenza dell’esistenza del marchio anteriore in capo al secondo titolare. La prima difficoltà che si pone per Pennisi sta nel conciliare, soprattutto dal punto di vista pratico, lo stato di ignoranza del secondo imprenditore con lo stato di conoscenza del primo, per l’Autore è chiaro che, se il primo imprenditore è a conoscenza dell’uso che sta facendo il secondo, i due marchi devono condividere l’ambito territoriale di utilizzazione e “se lo condividono, è piuttosto difficile che il secondo imprenditore non conosca l’esistenza del primo marchio. Senonché nel testo della direttiva, mentre la conoscenza da parte del primo imprenditore si riferisce all’uso del secondo marchio, la malafede è riferita al momento della registrazione”.

La prova della malafede, visto il testo della Direttiva, sembra gravare sul titolare del marchio anteriore; trattandosi di uno status soggettivo, il titolare dell’anteriorità sembra poterne fornire la prova tramite presunzioni, basandosi

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sulla diffusione del marchio anteriore; l’Autore osserva che così però il secondo imprenditore sarà quasi sempre in mala fede.

In conclusione, sulla preclusione per tolleranza, disciplinata dalla Direttiva, Pennisi osserva che l’introduzione del presupposto della conoscenza, da parte del primo imprenditore, avrebbe reso più coerente la norma con la ricostruzione della buona fede in termini oggettivi, mentre lo sganciamento della buona fede dall’uso, dato dal solo riferimento al momento della registrazione, avrebbe costituito una causa di contraddittorietà interna alla disposizione.

In conformità con la configurazione della buona fede in senso oggettivo, nel senso di correttezza, si sarebbe dovuto prevedere questo status soggettivo, in capo al secondo registrante, per tutta la durata del quinquennio e non solo al momento della registrazione. Pennisi auspicava in proposito che il legislatore italiano, nell’attuazione della direttiva, potesse ovviare a questa incongruenza; a partire dalla riforma avvenuta con il d.lgs. 480/1992, invece, anche la disposizione italiana fa salva dalla convalida l’ipotesi del marchio posteriore “domandato in malafede”, nel paragrafo successivo sarà esaminato il significato di questa espressione.

3.5 La riforma del 1992 ed il diritto comunitario: il marchio posteriore