• Non ci sono risultati.

La Direttiva rimpatri .1 L'approccio sicuritario

Dal 2004 la retorica politica europea ha continuato ad utilizzare l'argomento migratorio in chiave sicuritaria. Oltre al contesto italiano, dove l'allora ministro degli Interni Roberto Maroni lanciò una cosiddetta “caccia agli indocumentati”, è stato quello francese quello che più si è mosso in chiave repressiva.

Il governo di Nicolas Sarkozy62 ha fatto della lotta all'immigrazione illegale il tratto distintivo della propria presidenza europea, nel secondo semestre del 2008. A livello nazionale sono stati tre i punti principali della sua politica: la creazione del Ministero dell'Immigrazione e dell'Identità Nazionale,63 la scelta della linea dell' “immigration

choisie” ed infine la valutazione quantitativa del “rendimento”, secondo cui il numero

di “trasferimenti” alla frontiera costituisce un indicatore positivo.64 A livello europeo, il Presidente francese ha chiesto riforme in cinque settori: rafforzamento del controllo delle frontiere, meccanismi efficaci di espulsione degli irregolari, rigido adeguamento alle necessità del mercato, armonizzazione della politica di asilo e delle politiche di aiuto allo sviluppo.

L'obiettivo prioritario è stato tuttavia la “lotta all'immigrazione illegale” ed è in tale quadro che va situata l'adozione della “Direttiva sui rimpatri”.65 La sua implementazione obbliga a riflettere su quali sfide supponga una “politica migratoria che non cessi di riconfigurarsi in una logica progressivamente riduttiva e strumentale e centrata ossessivamente nell'identificazione di frontiere come muri invalicabili”,66 un obiettivo che prevale su qualsiasi altra considerazione e che comporta conseguenze negative per i diritti umani e per lo Stato di Diritto.

62 Il quale come Ministro dell'Interno ha imposto la sua visione sicuritaria dell'immigrazione, sotto il dogma “migration choisie, pas subie”.

63 Per la prima volta si affida ad un ministero il pieno esercizio della responsabilità di gestire la totalità del periplo di uno “straniero candidato all'immigrazione”.

64 Nel primo anno di presidenza sono stati accompagnati al Paese d'origine 29.729 immigrati clandestini. Come sottolineato dal Ministro degli Esteri francese Brice Hortefeux, l'incremento del 31% rispetto al periodo antecedente è senza precedenti. Lahlou M., “La fortaleza Europa se construye hacia el Sur”, Afkar/Ideas, 19, 6, pp. 22.

65 Gazzetta ufficiale dell'Unione Europea “Direttiva 2008/115/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 16 dicembre 2008 recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare”, L 348/98, 24 dicembre 2008. http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2008:348:0098:0107:IT:PDF .

66 De Lucas, J. (2008), “Directiva de riesgo: Europa frente a los inmigrantes”, Afkar/Ideas, 19, 6, pp. 25-27.

La Direttiva sui procedimenti e le norme comuni negli Stati membri, riguardanti il rimpatrio dei nazionali di Paesi terzi che si trovino illegalmente nel loro territorio, è stata presentata dalla Commissione Europea nel settembre 2005. Dal punto di vista procedurale la sua adozione ha rappresentato un momento inedito, in quanto per la prima volta si è seguito il procedimento di codecisione in materia d'immigrazione.67

L'obiettivo e la funzione manifesta della nuova norma è stata l'armonizzazione dei procedimenti seguiti dagli Stati membri per il rimpatrio degli immigrati irregolari. I punti principali contenuti nella Direttiva sono:

− Il rimpatrio, previsto dall'art. 3, al Paese d'origine del migrante, ad uno di transito con cui l'UE abbia un accordo di rimpatrio o ad un altro Stato in cui l'immigrato decida di andare, sempre che questi venga ammesso.

− Una volta emesso l'ordine d'espulsione, è fissato un periodo per il rimpatrio volontario dell'immigrante di una durata variabile tra i 7 ed i 30 giorni.

− Trascorso tale lasso di tempo, l'art. 14 prevede l'internamento degli immigrati irregolari fino a sei mesi, estendibili per altri 12 (per un totale di 18 mesi) in caso di mancata cooperazione della persona al suo rimpatrio o di problemi procedurali (come l'ottenimento del permesso del Paese implicato).

− La reclusione è possibile non in base ad un ordine giudiziario, bensì mediante una semplice ordinanza amministrativa, anche se esige un “controllo giudiziario il più rapidamente possibile”.

− L'art. 15 permette la detenzione di minori non accompagnati, sebbene questa misura venga presa “solo come ultima risorsa e per il minor tempo possibile”. Ciononostante gli articoli 3 ed 8 permettono l'espulsione di tali soggetti in Paesi dove non abbiano un tutore od una famiglia, sempre che vi siano strutture adeguate di accoglienza.

− Sebbene non si garantisca l'assistenza giuridica gratuita,68 i ministri degli Interni hanno introdotto la possibilità della difesa gratuita degli immigrati detenuti, anche se in maniera non obbligatoria.

− Infine l'art. 9 stabilisce che una persona, in situazione irregolare e sottoposta ad espulsione, avrà proibita l'entrata nel territorio comunitario per un periodo di cinque anni.

67 Per la quale la decisione del Parlamento, al pari di quella del Consiglio, è vincolante. 68 Conditio sine qua non per un processo equo.

Tale direttiva è stata fortemente criticata e ribattezzata “direttiva della vergogna” da buona parte delle ONG europee che si occupano di diritti umani e degli immigrati. In essa viene creata una categoria di soggetti per cui in luogo dello Stato di Diritto vige lo stato d'eccezionalità, rendendo vulnerabile ed insicuro lo status di coloro che vengono ritenuti delinquenti solo perché privi di documenti. Ciò comporta una precarietà nella titolarità dei diritti e nella garanzia degli stessi, oltreché un'arbitrarietà amministrativa dinanzi al controllo giudiziario. Le persone soggette al procedimento di rimpatrio si ritrovano in un limbo giuridico, palese per ciò che concerne i CIE (Centri d'Internamento ed Espulsione), che non sono prigioni, ma neppure centri d'accoglienza od integrazione, giacché suppongono un regime di privazione della libertà e con deboli garanzie.69 E' inoltre da evidenziare il potenziale criminalizzante, giacché dalla Direttiva traspare una visione semplificata e parziale del fenomeno migratorio, in una connessione tra immigrazione e delinquenza, che giustifica l'adozione di misure che violano i principi dello Stato di Diritto con il pretesto della pericolosità di una minoranza. La direttiva inoltre innesca procedimenti di privazione della libertà come risposta ad un illecito amministrativo. Tali procedimenti sono potenzialmente arbitrari, giacché possono essere adottati da autorità amministrative senza controllo giurisdizionale. Una detenzione che si pretende giustificare per ragioni amministrative, ossia quelle di rendere più agevole un procedimento d'espulsione, sebbene contraddittoriamente autorizzi tempi di detenzione sproporzionati. Inoltre essa abilita la detenzione dei minori non accompagnati introdotti nei centri e la loro espulsione, senza garanzia del ricongiungimento familiare, in contravvenzione ai diritti riconosciuti nella convenzione ONU sui diritti del fanciullo del 1989.

Le condizioni dell'internamento sono assimilabili a quelle di una prigione70 e non viene garantito in maniera sufficiente il diritto alla comunicazione.71 Inoltre vengono colpite la tutela giuridica effettiva, il diritto alla difesa, il principio di presunzione d'innocenza ed altre garanzie giuridiche imprescindibili nei procedimenti sanzionatori amministrativi.

69 Associazione Studi Giuridici sull'Immigrazione (2011)“Grave preoccupazione per le ripetute violazioni del diritto nei riguardi degli stranieri respinti, espulsi o trattenuti nei CIE, dei richiedenti asilo e dei lavoratori stranieri”, ASGI, 12 agosto 2011. http://www.asgi.it/public/parser_download/save/1_asgicomunicati.12811.pdf .

70 Del Grande G. (2011) "Cie: se la parola 'lager' finisce in parlamento", FortressEurope, 5 luglio 2011. http://fortresseurope.blogspot.it/2011/07/cie-se-la-parola-lager-finisce-in.html .

71 Del Grande, G. (2011) “Lasciateci entrare nei Cie! L'appello dei giornalisti”, FortressEurope, 26 maggio 2011. http://fortresseurope.blogspot.it/2011/05/lasciateci-entrare-lappello-dei.html .

1.5.2 Il rimpatrio come misura sanzionatrice di carattere generale

La direttiva porta ad estremi poco giustificabili il carattere generale della sanzione di rimpatrio. Anche nei casi in cui esista un procedimento di rinnovamento del permesso di soggiorno ancora pendente, l'art. 6.5 suggerisce solamente che “lo Stato membro considererà la possibilità d'astenersi dall'emettere una decisione di rimpatrio” finché non si sarà concluso il processo di rinnovo. Nel caso in cui la richiesta sia infondata, la Direttiva permette agli Stati di non concedere un tempo di uscita volontaria (art. 7.4), implicando un vincolo tra rimpatrio e proibizione d'entrata. C'è da evidenziare anche il permesso per gli Stati, optativo anch'esso, di regolarizzare la situazione della persona incorsa in irregolarità per ragioni umanitarie o d'altro tipo (art. 6.4). Inoltre è prevista, in forma obbligatoria, la posposizione dell'espulsione quando sia applicabile il principio di non refoulement (art. 9.1)72 e per effetto di una decisione con effetti sospensivi.

L'orientamento restrittivo viene confermato dall'art. 9 quando, nei casi che potrebbero portare alla sospensione sia per ragioni fisiche che mentali (vincolate al trasporto o alla difficoltà d'identificazione della persona), si stabilisce solo che “si potrà ritardare” l'espulsione, lasciando nelle mani degli Stati la decisione al rispetto, senza alcun obbligo.

1.5.3 La proibizione d'entrata come sanzione addizionale

Sebbene nella direttiva venga stabilito che la proibizione non possa superare i cinque anni, è concesso agli Stati d'imporre periodi più prolungati73 quando ritengano che la

72 Il principio di non-refoulement è enunciato nell’art. 33 della Convenzione sui Rifugiati del 1951, vincolante anche gli Stati parte del Protocollo del 1967. L'art. 33(1) della Convenzione del 1951 dispone che: “Nessuno Stato contraente potrà espellere o respingere (“refouler”) - in nessun modo - un rifugiato verso le frontiere dei luoghi ove la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a causa della sua razza, religione, nazionalità, appartenenza ad una determinata categoria sociale o delle sue opinioni politiche”.

La protezione dal refoulement così espressa dall’art. 33(1) si applica a chiunque soddisfi i criteri enunciati nella definizione di rifugiato contenuta nell’art. 1A(2) della Convenzione del 1951 e non rientri nell’ambito di una delle disposizioni di esclusione. "Convenzione sullo statuto dei rifugiati", Ginevra, 28 luglio 1951. http://www.unhcr.it/cms/attach/editor/PDF/Convenzione%20Ginevra %201951.pdf .

persona rappresenti una minaccia grave per l'ordine pubblico, la sicurezza pubblica o quella nazionale (art. 11.2).

Anche l'eccezione al divieto, prevista nel caso in cui la persona dimostri d'aver lasciato volontariamente il Paese nel periodo imposto dall'autorità (tra i 7 ed i 30 giorni), non ha carattere assoluto. L'uscita volontaria non è sempre attuabile, la Direttiva infatti permette agli Stati di non concedere un tempo per partire in caso di rischio di fuga, d'esistenza di una richiesta di permesso infondata o quando la persona rappresenti un “rischio per la sicurezza”. Anche l'art. 7.1 prevede che gli Stati dispongano che l'uscita volontaria si possa realizzare solamente in caso di espressa richiesta da parte della persona implicata.74 L'essenza restrittiva della Direttiva risalta anche nel fatto che la partenza volontaria, effettuata e dimostrata dalla persona in questione, implica solo che lo Stato “potrà considerare la possibilità di ritirare o sospendere la proibizione d'entrata”.

La misura di proibizione d'entrata comporta l'adozione di strumenti che possono vulnerare i diritti fondamentali. La Direttiva prevede il principio di non refoulement (art. 4.4 e 5) ma non si esprime chiaramente sulla sospensione od il ritiro dell'interdizione d'entrata in tali situazioni, lasciando alla discrezionalità statale la decisione sulla presenza di motivi umanitari (art. 11.3).

Infine, la Direttiva esplicita la possibilità che la misura di rimpatrio sia eseguita portando la persona in un Paese di transito. Tale opzione è presente nelle “definizioni” (art. 3), in cui si indica che per rimpatrio si intende “il processo di rientro” nello Stato d'origine o “verso un Paese di transito in base ad accordi comunitari o bilaterali di riammissione”. Nulla viene precisato riguardo le garanzie che dovrebbero offrire gli Stati di transito né il modo di verifica da parte dei membri comunitari delle condizioni d'accoglienza.

L'idea è che non solo si possano effettuare i rimpatri degli immigrati irregolari che si trovino nell'UE, ma condizionare i Paesi terzi a controllare l'uscita e l'entrata nel proprio territorio di nuovi migranti.75

74 Se la persona non fa richiesta, e ciò può essere dovuto in molte occasioni al timore ed alla disinformazione, viene meno la possibilità di uscita volontaria ed in tal caso la proibizione d'entrata viene applicata senza eccezioni.

75 Aparicio Wilhelmi, M.(2009) “La Directiva de Retorno como pieza en la construcción de una Europa privilegiada”, in Aparicio Wilhelmi, M. Illamola Musà, M. Moya Malpeira, D. Rodera Ranz, S. “Las fronteras de la ciudadanía en España y en la Unión Europea”, Edicions A Petició, Girona.

1.5.4 La privazione di libertà come misura cautelare

Sebbene l'internamento venga considerato una ultima ratio (adottabile “per il minor tempo possibile”), non viene indicata chiaramente la lista di casi in cui è possibile la privazione della libertà, avendo solo un generico riferimento al rischio di fuga ed al caso in cui la persona “renda difficile la preparazione del processo di rimpatrio o di espulsione” (art. 15.1).

La misura d'internamento potrà essere dettata sia dalle autorità amministrative che da quelle giudiziarie. Quando all'art. 15.2 si prevede un “controllo giudiziario rapido” che “dovrà decidersi il più rapidamente possibile”, si utilizzano termini giuridici indeterminati in luogo di indicare i tempi massimi per l'azione giudiziaria. Inoltre, la revisione della decisione d'internamento avviene solamente su richiesta della persona internata e nel caso di detenzioni “prolungate” vengono previsti riesami ad “intervalli ragionevoli”(art. 15.3). Infine l'art. 18 prevede che, in caso di internamenti di massa, gli Stati possano stabilire periodi più lunghi di revisione giudiziaria.

La privazione di libertà è una delle più gravi restrizioni ai diritti previsti da un ordinamento. Per tale ragione uno dei tratti distintivi dello sviluppo dello Stato democratico è stata la costruzione di un sistema punitivo garantista, legato alla necessità di una decisione giudiziaria soggetta a norme processuali penali ed a principi d'interpretazione che assicurino l'applicazione restrittiva della sanzione. Nel caso dell'internamento nei CIE la privazione della libertà non è neppure prevista come sanzione, bensì come mera misura cautelare per assicurare l'esecuzione di una sanzione di tipo amministrativo (!).