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5. I TIPI DI FRASE SUBORDINATA

5.3. LA SUBORDINAZIONE CIRCOSTANZIALE

5.3.7. La frase avversativa

La frase subordinata avversativa, come la coordinata corrispondente, esprime opposizione rispetto al contenuto proposizionale della sovraordinata. Nella Commedia è attestata molto raramente, in due casi nei discorsi diretti qui in esame:

Vedrassi al Ciotto di Ierusalemme segnata con un i la sua bontate, quando 'l contrario segnerà un emme. (Pd XIX 129-131)

Le vostre cose tutte hanno lor morte, sì come voi; ma celasi in alcuna che dura molto, e le vite son corte. (Pd XVI 79-81)

Conclusioni

Attraverso l’analisi delle strutture sintattiche della lingua delle anime della Commedia, spero di aver risposto, almeno in parte, a quella esigenza di precisione di cui si è parlato all’inizio di questo lavoro.

Sintetizzo in questo paragrafo conclusivo le risposte più interessanti che l’interrogazione del corpus di discorsi ha dato riguardo alle tre caratteristiche che nell'introduzione ho individuato come identificative di un particolare modo di esprimersi dei personaggi che Dante incontra durante il suo viaggio ultraterreno.

1) Per quanto riguarda il nesso tra sintassi della lingua parlata e individualità storica del parlante credo che questa analisi sistematica della semantica e della sintassi dei singoli tipi frastici possa essere utile soprattutto per individuare una norma rispetto alla quale misurare eventuali scarti. Solo individuando gli usi normali, infatti, è possibile stabilire con oggettività quali sono quelli particolari.

Su questo punto mi sembra di poter trarre due conclusioni:

a) La maggior parte delle particolarità sintattiche e delle deviazioni rispetto alla norma che possono essere attribuite ad un intento di caratterizzazione storica del personaggio sono collocate nei discorsi dei dannati.371 Un esempio tra i più significativi è

l'eccezionale concentrazione di subordinate causali nel discorso del fraudolento Guido da Montefeltro, che riflette la personalità di un uomo calcolatore, che in vita ha seguito esclusivamente la logica della convenienza, fino a considerare la morale cristiana come un mezzo e non come un fine. Un altro discorso in cui la sintassi utilizzata sembra avere un marcato intento di caratterizzazione storica, come si è avuto modo di notare in più punti, è quello di Brunetto Latini, che parla sia con gli stilemi solenni tipici del retore, che con quelli paterni dell'antico maestro.

I discorsi dei beati e dei penitenti mostrano invece una maggiore uniformità. Talvolta emergono nei loro discorsi dei tratti mimetici del loro parlare storico: si ricordino, a questo proposito, gli accorati e colloquiali toni di Casella e di Forese nel momento dell'incontro con l'amico Dante, oppure l'eco dell'antica superbia nell'esordio di Uberto Aldobrandesco:

Io fui latino e nato d'un gran Tosco: Guiglielmo Aldobrandesco fu mio padre;

371Del resto, anche i casi esemplari discussi nell'introduzione a questo lavoro riguardavano,

non so se 'l nome suo già mai fu vosco. (Pg XI)

Ma, appunto, questi tratti sono solo un'eco del parlare storico e individuale dei personaggi, come dimostra in modo esemplare, la terzina riportata, in cui, al tono solenne e autocelebrativo dei primi due versi, segue una professione di modestia che probabilmente Umberto mai avrebbe pronunciato in vita.

Questo dato è a mio avviso da connettere al fatto che chi è destinato alla salvezza o chi l'ha già conquistata è sulla via di comprendere o ha compreso la piccolezza e la caducità delle passioni e delle vicende storiche di fronte all'eternità372 e la sostanziale

uguaglianza degli uomini di fronte al giudizio divino. Questa consapevolezza non porta le anime del secondo e del terzo regno a disinteressarsi delle vicende terrene, ma certamente alla tendenza ad abbandonare una prospettiva umana nell'osservazione di esse. Le passioni e le inclinazioni che i personaggi ebbero in vita, perciò, sebbene talvolta emergano attraverso le loro parole, sono solo un residuo del lingua parlata in vita, immerso in un parlare del tutto nuovo, assai condizionato dalla nuova vita che l'anima vive dopo aver abbandonato il corpo.

b) Più che veri e propri tratti mimetici del parlare storico e terreno del singolo, nella sintassi periodale dei discorsi diretti sono frequenti tratti che accomunano delle categorie di personaggi, specialmente in relazione al grado di familiarità che in vita ebbero con Dante e in relazione alla loro statura intellettuale. Si sono già citati i casi di Forese Donati, Casella, Brunetto Latini ai quali Dante mette in bocca una lingua che sembra ricalcare quella dei dialoghi (da intendere nell'accezione più ampia del termine) che essi intrattennero con lui in vita; le strategie linguistiche per indicare questa familiarità sono le stesse nei tre episodi: l'alta concentrazione di esclamative, interrogative e iussive, l'uso di altri strumenti di enfasi espressiva, come ripetizioni, antitesi, parallelismi, l'uso di moduli colloquiali.

Parallelamente, soprattutto nell'Inferno, Dante utilizza delle strategie per distinguere la voce dei personaggi nobili o magnanimi da quella dei personaggi più rozzi e gretti: si ricordi, ad esempio, come l'opposizione tra iussive al congiuntivo e iussive all'imperativo in incipit di discorso sia funzionale a connotare la cortesia degli uni e la villania degli altri.

372Si possono qui richiamare alla mente le parole di Oderisi da Gubbio: Che voce avrai tu più,

se vecchia scindi // da te la carne, che se fossi morto // anzi che tu lasciassi il 'pappo' e 'l 'dindi', // pria che passin mill' anni? ch'è più corto // spazio a l'etterno, ch'un muover di ciglia // al cerchio che più tardi in cielo è torto. (Pg XI 103-108)

2) Rispetto al secondo fattore che si era ipotizzato come tratto distintivo della lingua delle anime dell'aldilà, questa analisi ha dato i risultati più corposi e, credo, più interessanti: sono infatti molteplici le caratteristiche della sintassi periodale dei dialoghi esaminati che, a mio avviso, sono specchio della condizione ultraterrena dei parlanti.

Sono abbastanza numerosi gli usi sintattici che accomunano i parlanti dei tre regni e che sembrano essere espressione della particolare dimensione di intemporalità e di immutabilità che caratterizza lo status animarum post mortem: tra questi, uno dei più significativi mi sembra l'assenza di incertezza, rilevata a proposito degli usi del condizionale, del periodo ipotetico e delle interrogative indirette.373

Rispetto agli elementi comuni, tuttavia, appaiono più rilevanti le differenze sintattiche tra i discorsi nelle tre cantiche. Riporto qui schematicamente i risultati che questa analisi mi sembra fornire:

a) La sintassi dei discorsi riflette le diverse capacità cognitive e le diverse attitudini morali dei parlanti. Il primo aspetto è ben evidente già a partire dai dati relativi all'ampiezza e alla complessità dei periodi, che hanno un andamento ascendente nell'opera: a una maggiore complessità degli argomenti trattati e a una maggiore estensione delle singole battute mimetiche, sia associano dunque anche una sintassi più complessa e una strutturazione logica del discorso più consapevole.

Inoltre i parlanti dei tre regni dimostrano di avere una differente capacità di istituire nessi logici tra gli eventi, come diversi aspetti sintattici dei loro discorsi sembrano indicare. Tra questi, i più significativi sono la frequenza ascendente del numero di subordinate del gruppo causale (161 nell'Inferno, 205 nel Purgatorio, 253 nel Paradiso)374 e la prevalenza di un tipo di subordinazione forte375 e di introduttori

semanticamente più precisi nei discorsi della seconda e della terza cantica.376 I discorsi

dei beati, poi, hanno una sintassi del discorso particolarmente strutturata: si è visto che soprattutto nel loro parlare ricorrono ripetizioni, parallelismi, strategie coesive come il frequente uso della coordinazione conclusiva e della coordinazione testuale. L’estrema coerenza semantica e la sintassi armoniosa sono i tratti caratteristici di quello che si potrebbe definire un linguaggio dell'equalità,377 tipico solo di chi gode della percezione

della divina unità.

373Cfr. §§ 2.1.2; 5.1.5.; 5.3.1.4.1.

374Si ricordi che questi dati sono confrontabili in assoluto poiché l'estensione del dialogo nelle

tre cantiche è pressoché identica.

375v. ad. es. l'alta frequenza del tipo consecutivo forte nei discorsi dei beati e dei penitenti. 376v. ad es. le numerose occorrenze di perché come introduttore di subordinata causale.

377Equalità è un termine che Dante usa in Pd XV 74 per indicare Dio come espressione della

A diverse capacità cognitive, ma anche a fattori di ordine morale, sembra poi da attribuirsi la diversa capacità che gli abitanti dei tre regni hanno di formulare sentenze dei carattere generale. Se nell'Inferno questa capacità è prerogativa solo dei magnanimi, nel Purgatorio e nel Paradiso essa si estende, come dimostrano le frequenze, ascendenti all'interno dell'opera, dell'uso del presente gnomico, delle subordinate causali indicanti la ragione di un fatto, dei costrutti causali che mettono in relazione non eventi contingenti, ma eventi necessari. Dunque, più l'anima parlante è vicina a Dio, più è in grado di comprendere, in una prospettiva extrastorica, le ragioni del suo disegno.

b) La sintassi dei discorsi riflette la diversa percezione del tempo dei parlanti. A questo proposito mi sembrano particolarmente significative le differenze rilevate nell'uso delle subordinate temporali, che oppongono la percezione del tempo dei penitenti, per i quali il tempo oltremondano è più simile a quello terreno, rispetto a quella dei beati e dei dannati, che vivono in un eterno presente, dove tutto si ripete sempre uguale a se stesso. Si è visto tuttavia che, se beati e dannati hanno una percezione (e dunque una rappresentazione) simile del tempo ultraterreno, lo stesso non si può dire rispetto al tempo storico del mondo terreno. La miopia dei dannati rispetto al presente, di cui parla Farinata, si riflette nel loro diffuso domandare notizie al pellegrino che viene dal mondo dei mortali; inoltre anche rispetto al futuro i dannati sembrano avere solo qualche approssimativa nozione, mentre i beati, come si è visto, pronunciano delle profezie articolate e chiare.

c) La sintassi riflette la diversità degli atteggiamenti dei parlanti e i diversi gradi di interazione che hanno con il pellegrino. Le diverse condizioni in cui si trovano gli abitanti dei tre regni, infatti, condizionano anche il loro atteggiamento nei confronti di Dante. Ciò risulta ben evidente, ad esempio, dai differenti atteggiamenti interroganti che caratterizzano dannati, penitenti e beati: mentre, come si è visto, nei discorsi dei dannati le interrogative sono espressione, oltre che di un atteggiamento richiestivo, anche di fastidio, ostilità o addirittura minaccia nei confronti dell'interlocutore, nel Purgatorio l'atteggiamento è sempre di sorpresa e curiosità. Ma il dato più significativo è che nei discorsi dei beati le occorrenze del tipo interrogativo sono assai inferiori a quelle riscontrate nei discorsi delle prime due cantiche: infatti, perché ci sia una domanda, è necessario che via sia una differenza di informazione tra gli interlocutori, condizione che non si dà in Paradiso, dove il pensiero di Dante è del tutto trasparente per le anime. La scarsa presenza di interrogative nei discorsi dei beati è una delle tante spie del loro atteggiamento didascalico nei confronti del pellegrino e del conseguente

ridotto tasso di dialogicità della terza cantica, dato dal minor livello di interazione tra i parlanti.

Per quanto riguarda le interrogative retoriche, la loro funzione principale è di esprimere lamento o biasimo, ma, mentre nei discorsi dei dannati, il rimprovero si rivolge, in modo individualistico, a chi è responsabile della sorte del parlante, nei discorsi dei penitenti e dei beati questo stilema reca quasi sempre un'impronta moraleggiante, esprimendo biasimo nei confronti della condotta di tutti gli esseri umani. Questo dato è un'ulteriore espressione delle maggiori capacità cognitive e della supremazia morale dei beati e dei penitenti.

Anche per quanto riguarda l'atteggiamento di volizione ho riscontrato delle significative differenze tra gli abitanti dei tre regni, sia, come è facile immaginare, a proposito del contenuto della richiesta, sia, cosa meno scontata, a proposito dei modi in cui questa viene espressa: se tra i dannati si alternano formule cortesi a formulazioni rozze e aggressive, le richieste dei penitenti sono sempre attenuate da formule di cortesia. Quelle dei beati, prevalentemente all'imperativo, hanno sempre un tono autorevole, ma non perentorio: come dei maestri con un discepolo, i beati esplicitano sempre la convenienza della loro richiesta.

3) Per quanto riguarda la presenza di tratti mimetici della comunicazione orale, bisognerà innanzitutto fare alcune premesse: in primo luogo, in base all'analisi svolta, si può dire che nei discorsi diretti delle anime dell'aldilà Dante camuffi una lingua eminentemente letteraria con una patina di parlato, incastonando modi tipici dell’oralità in architetture sintattiche talvolta molto complesse. Inoltre, sembra che in alcuni casi Dante non utilizzi tratti del parlato con un intento mimetico: infatti, come si è notato, ad esempio, a proposito del che polivalente, elementi dell'oralità possono comparire anche in contesti linguistici lontani dalla mimesi del parlato. In questi casi credo che l'uso di stilemi tipici dell'oralità sia semplicemente un modo per sfruttare tutto il repertorio delle possibilità offerte da un quadro linguistico ancora molto aperto e non normalizzato. Infine è necessario ricordare che un tratto marcato diamesicamente non è necessariamente appartenente ad una varietà bassa e colloquiale, perciò credo di possa parlare di mimesi del parlato anche per quei passi che imitano le strutture di un parlato diafasicamente alto, come quello delle conversazioni tra un maestro e un allievo o quello della disputa teologica. Ricordo, ad esempio, un passo già citato del dialogo tra Dante e Carlo Martello:

Vuo' tu che questo ver più ti s'imbianchi?». E io: «Non già; ché impossibil veggio che la natura, in quel ch'è uopo, stanchi». Ond' elli ancora: «Or dì: sarebbe il peggio per l'omo in terra, se non fosse cive?». «Sì», rispuos' io; «e qui ragion non cheggio». «E puot' elli esser, se giù non si vive

diversamente per diversi offici?

Non, se 'l maestro vostro ben vi scrive». (Pd VIII 115-120)

Fatte queste premesse, credo che tra gli elementi volti ad una mimesi della comunicazione orale si possa istituire una gerarchia fra tratti più e meno parlati, immaginando di inserirli in un continuum che va dallo scritto-scritto al parlato-parlato.

I tratti più decisamente vicini a questo secondo polo mi sembrano:

a) le strutture sintattiche, come le esclamative, le interrogative retoriche, le comparative che esprimono un commento al discorso, il ma fraseologico, il vocativo, che hanno la funzione di segnali discorsivi, di indicatori fatici o di cessione del turno conversazionale;

b) i dimostrativi ostensivi, i pronomi personali deittici, il presente immediato, che alludono al contesto dell'enunciazione;

c) il periodo ipotetico con doppio imperfetto invece che con congiuntivo e condizionale; d) la pseudocoordinazione;

e) le frasi pseudo-relative.

Vi sono poi dei tratti sintattici che, pur non essendo elementi da associare univocamente ad una volontà di mimesi dell'oralità, contribuiscono, credo, a rendere più parlata la lingua dei discorsi delle anime dell'aldilà. In particolare:

a) la preferenza, per quanto riguarda gli introduttori di subordinata, delle forme più brevi e ambigue, come il subordinante sincretico che, rispetto alle congiunzioni semanticamente più precise (si ricordi, ad esempio, lo scarso uso della congiunzione concessiva avvegna che, prevalente invece nella prosa del Convivio);

b) il largo uso delle forme verbali implicite, in particolare del gerundio, che ha un valore subordinante generico e rende meno espliciti i rapporti logici tra le proposizioni

c) varie strategie sintattiche (come l'uso dei modi e dei tempi verbali, l'esclamazione, le interrogative retoriche) che pongono in evidenza l'atteggiamento del parlante e che, nella pagina scritta, veicolano quelle informazioni che nella comunicazione in presenza sono assolte anche dall'intonazione, dalla gestualità, dalla mimica facciale.

Vi sono infine degli elementi che è più difficile collocare nel continuum scritto-parlato, nel senso che la loro eventuale marcatezza diamesica è desumibile solo dal contesto. Tra questi collocherei alcuni espedienti retorici e sintattici che assolvono la funzione di enfasi espressiva, come le figure di ripetizione e la prolessi della subordinata. Per quanto riguarda le figure di ripetizione, infatti, alcune, come l'epanalessi, sono decisamente affini ai modi dell'oralità; altre, invece, come l'anafora, se indubbiamente producono un effetto di enfasi espressiva, esse spesso si collocano all'interno di architetture sintattiche altamente formalizzate, che difficilmente potrebbero dirsi mimetiche dell'oralità. Anche a proposito della prolessi delle subordinate si può individuare la medesima duplicità: la prolessi risponde certamente ad un'esigenza di enfasi espressiva ed è affine ai procedimenti di tematizzazione tipici dell'oralità; d'altra parte in più punti si è notato che essa comporta un'inversione dell'ordine logico normale ed è dunque espressione di una consapevolezza nella strutturazione del discorso del tutto estranea al parlato.

Analoghe osservazioni possono essere effettuate a proposito dell'ampio uso delle strutture coordinate. Dall'analisi svolta sembra emergere che l’uso della paratassi sia dominato, da un lato, da un principio di economia, ossia dalla tendenza (evidente soprattutto nei numerosi casi di coordinazione copulativa e asindetica) a non esplicitare i rapporti logici tra le frasi qualora una semplice giustapposizione (sindetica o asindetica) li renda comunque intuibili. Dal punto di vista stilistico questo procedimento sembra influire molto anche sull’espressività, poiché attraverso la coordinazione si pongono in primo piano contenuti che, se espressi mediante subordinazione, avrebbero meno rilievo. Tuttavia le strutture coordinate assolvono l’importante funzione di assicurare coesione sia tra le singole frasi all’interno del periodo, che tra i periodi all’interno del discorso. Soprattutto nei discorsi dei beati, un ampio ricorso alla coordinazione produce periodi ampi e complessi, che rivelano un alto grado di pianificazione formale e, su un’immaginaria linea che congiunge lo scritto-scritto al parlato-parlato, spostano i discorsi di questi personaggi verso il primo polo.

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