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3.4. la problematica della contabilità separata.

La disciplina fiscale, come evidenziato già evidenziato in precedenza, prevede per gli enti non commerciali un obbligo in tal senso, solo nel caso in cui gli stessi svolgano in via accessoria un’attività commerciale. Conseguentemente gli enti non commerciali non sono obbligati alla tenuta dei libri contabili per quanto concerne l’attività istituzionale, a meno che tale obbligo non sia imposto da norme statutarie. Si pone il problema, quindi, della separazione contabile dei cosiddetti “costi promiscui”. Tale argomento sarà affrontato realizzando innanzitutto una sorta di raffronto tra la disciplina ante e post D. Lgs. 460/1997 (il quale modifica radicalmente la disciplina del sistema contabile degli enti non commerciali).

3.4.1.La Disciplina ante D. Lgs. 460/1997.

Prima dell’introduzione del D. Lgs. 460/1997 gli enti non commerciali avevano a disposizione due opportunità118:

- Predisporre una contabilità separata per l’attività commerciale svolta in via sussidiaria: questo approccio era funzionale alla deducibilità analitica dei costi relativi all’attività commerciale e alla detraibilità dell’IVA relativa agli acquisti commerciali;

- Tenere una contabilità unica, che comprendesse costi e ricavi relativi sia all’attività commerciale che quella istituzionale; ciò comportava però la deducibilità proporzionale dei costi e la indetraibilità dell’IVA sugli acquisti.

3.4.2. Disciplina attuale (post D.Lgs. 460/1997).

A partire dal 1° Gennaio 1998, l’art. 3 del D. Lgs. 460/1997 modifica sensibilmente il sistema contabile degli enti non commerciali residenti. L’art. 3 di tale decreto apporta una serie di modifiche all’attuale art. 144 del TUIR (ex art 109); in particolare, il comma 2 dell’art. 144 dispone che è obbligatorio 118

G.M. COLOMBO, M. SETTI, Contabilità e bilancio degli enti non profit, guida operativa, II edizione, IPSOA editore s.r.l., Milano, 2003, p. 28.

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predisporre una contabilità separata per l’attività commerciale svolta in via sussidiaria dagli enti non commerciali. Non esiste più, dunque, la possibilità di tenere una contabilità unica, sia pure con tutti i correttivi ad essa già apportati da altri atti normativi di data anteriore119

.

Dall’obbligo di tenere una contabilità separata per l’attività commerciale svolte dall’ente deriva l’esigenza di individuare quali sono i fattori produttivi utilizzati in tale attività. A tal proposito il comma 3 dell’art. 144 del TUIR dispone che, per l’individuazione dei beni inerenti l’attività commerciale dell’ente si deve far riferimento ai criteri indicati dall’art. 65 comma 1 e 3-bis TUIR rubricato “Beni relativi all’attività d’impresa”. Andando ad interpretare l’art 65, si possono individuare i beni da attribuire all’attività commerciale dell’ente, che sono, in estrema sintesi, i beni destinati alla rivendita, i beni strumentali, i crediti acquisiti nello svolgimento dell’attività, nonché i beni indicati nell’inventario di cui all’art. 2217 c.c.

3.4.3. La rilevazione degli acquisti promiscui.

La separazione contabile non genera particolari problemi nel caso dei costi direttamente riferibili all’attività commerciale svolta dall’ente. Si possono incontrare delle difficoltà nel caso in cui alcuni costi siano inerenti in parte all’attività commerciale e in parte all’attività istituzionale. Si tratta dei cosiddetti costi promiscui, come ad esempio le utenze (energia elettrica, telefono, acqua, gas…) e i materiali di consumo (cancelleria, materiali per pulizia e igiene…) utilizzati nello svolgimento dell’una e dell’altra attività. Lo stesso discorso potrebbe essere fatto per gli ammortamenti dei beni strumentali ad utilizzazione promiscua, per i costi di manutenzione, di riparazione, per i costi del personale impiegato, senza distinzione, sia nell’attività commerciale, sia nell’attività istituzionale.

Data la particolare tipologia di costi è necessario individuare, soprattutto per esigenze tributarie, quale entità del costo promiscuo sia da attribuire all’attività istituzionale e quale parte dello stesso sia da imputare a quella commerciale. In

passato il Ministero delle finanze ha suggerito un generico criterio di ripartizione specifica120: in mancanza di previsioni normative si riteneva possibile suddividere

i costi in base a elementi specifici. Per esempio si individuavano basi di riparto nel rapporto tra varie grandezze come la superficie radiante e i costi di riscaldamento; la superficie dei locali puliti e i costi dei materiali necessari per la pulizia; i metri quadrati illuminati e i costi dell’energia elettrica, ecc..

Con l’emanazione del D. Lgs. 460/1997, è stato introdotto, ai fini delle imposte sui redditi, un criterio “legale” di ripartizione dei costi promiscui, detto proporzionale. Tale criterio comporta una quota di deducibilità delle spese e dei costi relativi a beni e servizi utilizzati promiscuamente, pari alla percentuale scaturente dal prodotto tra il totale dei costi sostenuti moltiplicato per il risultato del seguente rapporto121

:

Ricavi e proventi che costituiscono il reddito commerciale Ricavi e proventi totali dell’ente

Alcuni componenti positivi del reddito potrebbero creare problemi in merito al calcolo del quoziente di indeducibilità, come, ad esempio, i contributi pubblici o privati. Per tali contributi è innanzitutto necessario stabilire se si riferiscono all’attività commerciale, all’attività istituzionale o a entrambe. In base alle vigenti disposizioni normative in campo tributario, sono considerate sopravvenienze attive «i proventi in denaro o in natura conseguiti a titolo di contributo o di liberalità esclusi i contributi di cui alle lettere e) ed f) del comma 1, dell’art. 85 e quelli per l’acquisto di beni ammortizzabili, indipendentemente dal tipo di finanziamento adottato»122. Da questa disposizione si desume che

anche i contributi erogati da Stato o privati possano essere considerati nella determinazione del rapporto di cui all’art. 144, comma 4 del D.P.R. 917/1986, sia che siano relativi all’attività istituzionale che a quella commerciale123.

120

G.M. COLOMBO, M. SETTI, Contabilità e bilancio... op. cit. p. 29.

121Quoziente di indeducibilità. Cfr. art. 144 TUIR, comma 4. 122Cfr. Art. 88, comma 3, lett. b) TUIR.

123

Cfr. C. CARAMIELLO, Ragioneria generale e applicata, a cura di Alessandro Musaio, Mursia editore S.p.A., Milano, 1996, pp. 163-164.

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Queste considerazioni possono essere fatte anche per altri proventi tipici nell’ambito degli enti non profit quali, ad esempio, le donazioni, i legati e le eredità, che a seconda dell’attribuzione possono essere relativi all’attività commerciale o istituzionale (si pensi ad esempio ad un ente ecclesiastico che gestisce una scuola e riceve una donazione in quanto scuola e non in quanto ente con finalità religiose, quindi una donazione per l’attività commerciale sussidiaria anziché per l’attività istituzionale).

Le esigenze sopra descritte comportano l’esigenza di procedere ad una imputazione di alcuni beni e servizi esclusivamente all’attività commerciale o all’attività istituzionale, anziché andare a determinare il coefficiente di indeducibilità. Tali operazioni risultano abbastanza gravose e impegnative, ciò potrebbe evidenziare la convenienza per l’ente ecclesiastico che si ritrovi con un considerevole ammontare di costi promiscui di ridurne, dove possibile, l’entità, cercando di realizzare un piano dei conti che consenta una corretta individuazione delle poste sulle quali operare al fine di addivenire alla determinazione della su indicata percentuale, in modo da poter più semplicemente adempiere agli obblighi previsti in materia di contabilità separata.

3.5. I bilanci negli enti ecclesiastici.