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CAPITOLO SECONDO

LA GRANDE “ MOCHILA” DELLA SAGGEZZA ANCESTRALE

2.2 LA SCUOLA NELLA VITA

2.2.2 La Scuola Nella Vita: epistemologia “chakanistica”

Cerco ora di avvicinarmi alla struttura presentata da Frabboni e Pinto Minerva378, nell’intenzione di dare “organicità” a quelle “idee stellari379” della pedagogia del “Buen

Vivir” di cui la Scuola nella Vita si fa responsabile.

“L’alfabeto empirico” di questa pedagogia poggia sulla complessità di una dimensione accennata lungo queste pagine, la quale si nutre di due principi cardine di questo “ConoSCentire”: la reciprocità e la complementarità.

Riprendendo, quindi, il percorso per continuare a tessere la grande “mochila” della Saggezza Ancestrale, bisogna sottolineare che l’orizzonte ermeneutico di questa Scuola va cercato nelle interconnessioni di cui abbiamo parlato fin’ora.

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Morin, E. I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Raffaello Cortina, Milano 2001, pp. 52 a 55

378 Frabboni, F, Pinto Minerva, Manuale di Pedagogia generale, Laterza. Roma 1994 379

166 - Dimensione Comunità/Territorio

La Scuola nella Vita, fa riferimento ad una Comunità intesa come “Unità oltre il sociale”, come ci spiegano ancora le parole dello studioso Aymara Fernando Huanacuni.

“Dalla nostra Cosmovisione si concepisce che tutto è parte della Comunità e la Comunità viene concepita come un’unità oltre il sociale, per cui i processi di insegnamento non possono essere soltanto individuali o isolati dall’intorno ( il Territorio), perché la natura ci indica che tutto è interconnesso.

L’ educazione Comunitaria si fonda nei principi comunitari di “reciprocità e complementarità” …(…) questo implica, uscire dal processo di disconnessione dell’essere umano con la natura a cui ci hanno portato dall’epoca dalla colonia, per ritornare ai nostri origini: una Coscienza integrata, interconnessa con la natura. Uscire da un insegnamento orientato a produrre soltanto “forza di lavoro”, per passare ad un insegnamento che ci permetta di esprimere le nostre capacità naturali. Uscire dalla teoria portata soltanto alla ragione del “capire”, per arrivare ad un insegnamento che ci permetta di comprendere con sapienza. Un insegnamento che non alimenti lo spirito di “competitività” ma che nutra un processo di insegnamento/apprendimento per far sì ché tutti possiamo vivere pienamente (en plenitud) nel “Buen Vivir”.380

Una Comunità, in intima relazione con un “Altro” di cui la stessa creatura umana fa parte. Un “Altro” compreso in quell’insieme di quelle “Ecologie”: della Mente e dello Spirito, di cui mi sono occupata in questi capitoli. Un “Altro” che nella visione dei popoli delle Ande diventa un “Noi” , come ci spiega ancora Huanacuni.

“In aymara, per esempio, la prima parola che si insegna è Jiwasa, che significa “Noi”381 . La prima persona non è “io” ( come insegna occidente). Il primo è il “Noi” ( Jiwasa), e “Noi” sono anche le Montagne, le Piante, gli Insetti, le Pietre, i Fiumi. Tutto è “Noi”. “Jiwasa” letteralmente significa “Noi”, e in un significato più profondo significa “muoio io per unificarmi con l’intorno” .

E’ interessante vedere come della radice “jiwa” abbiano origine anche i termini come “jiwaña” che significa morte o trasformazione; jiwasa che significa “Noi” e jiwaqi che significa bello ( bonito y hermoso). Nel capire questi termini e altri simili in altri idiomi

380 Huanacuni, F, op. cit. p. 42 381

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ancestrali, vediamo che per riuscire ad essere un “Noi”, dobbiamo svegliare una Coscienza Comunitaria. Questo implica una trasformazione strutturale, un cambio di visione”382

In questa dimensione, considerando l’importanza di questo “Noi” a cui fa riferimento

Huanacuni, faccio collegamento anche alle parole di Teresa383, capendo ora quando nel

momento del nostro colloquio, ha voluto insistere sul fatto che per capire il significato della

cultura del Mais nella cultura Tseltal, era prima necessario capire la profonda relazione fra l’uomo e il Mais, quest’ultimo infatti viene addirittura considerato superiore all’uomo, per le origini degli uomini di Mais a cui ci rimanda di nuovo il Popol Vuh.

“Relazione Uomo-Mais: L’uomo e la donna sanno che sono stati creati tre volte, secondo il Popol Vuh, il libro dei consigli: prima di fango, poi di legno e per ultimo di Mais. Questo ci dice che la perfezione è riuscita grazie al Mais. Questo spiega la relazione del corpo con le parti della natura, dell’Universo e della cultura in generale. Quando si parla per esempio degli alberi, anche loro hanno gli stessi nomi per quanto riguarda le parti che lo conformano, uguali alle parte fisiche umane, esempio : occhi, naso, piedi. È per questo che molti nomi di luoghi o spazi dove ha origine la vita, i tseltali li denominano con parole che indicano anche qualche parte del corpo umano. Per esempio dove nasce l’acqua si riconosce come “sit ja”, cioè (ojo de Agua) o anche “ jol ja’ (testa)384

Mi piace lasciarmi sedurre dal pensiero che queste righe siano in perfetta sintonia di nuovo con Bateson attraverso una delle sue metafore preferite, ripresa anche da Mariagrazia Contini385:

“ Si consideri un individuo che stia abbattendo un albero con un’ascia; ogni colpo di ascia è modificato e corretto secondo la forza dell’intaccatura lasciata nell’albero dal colpo precedente. Questo procedimento auto correttivo è attuato da un sistema totale, albero- occhi-cervello-muscoli-ascia-corpo-albero; ed è questo sistema totale che ha caratteristiche di mente immanente386”

In merito, è opportuno presentare anche quanto riportato da Manghi nel suo libro387,

specificamente nelle sue riflessioni riguardanti il “Penso dunque siamo.

382

Huanacuini, op. cit. p. 43

383

Donna Tseltal, neolaureata alla Facoltà di Lingua e Cultura all’UNICH.

384 Ibidem 385

Contini Mariagrazia, Sconfinamenti, in Demozzi Silvia, La struttura che connette, op, cit, p.11

386 Bateson, G, Verso un’ecologia della Mente, op, cit, , p.366 387

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“Ma non è questo il modo in cui l’occidentale medio vede la sequenza degli eventi che caratterizzano l’abbattimento dell’albero; egli dice: “Io taglio l’albero”, e addirittura crede che esista un agente delimitato, l’ “Io”, che ha compiuto un’azione “finalistica” ben delimitata su un oggetto ben delimitato.”388

…(…) “Nel rapporto tra individuo e relazione postulato da queste immagini dell’ “io”, è evidente che è la prima di queste due categorie, l’ “individuo”, a mantenere il primato epistemologico. Un primato ribadito anche, fra l’altro dall’uso corrente della parola “soggettivo””. Ma nel momento in cui ci siamo lasciati alle spalle la superstizione oggettivista, anche la superstizione gemella del soggettivismo dev’essere riveduta: riveduta nel suo automatico confinare “me” nella mia pelle”.389

“la parola “oggettivo” si dilegua in silenzio; allo stesso tempo anche la parola “soggettivo”, che di solito confina “me” nella mia pelle, scompare. Credo che il cambiamento importante sia la riduzione dell’oggettivo. Il mondon non è più “la fuori”, come sembrava essere prima.”390

“Né “io”, né “tu”, né qualunque altra creatura vivente, in chiave relazionale, rimane confinata nella pelle dell’individuo, auto contornata da un cartesiano “penso dunque sono” o da una qualche sua inversione “romantica”, dove il “penso” universale e oggettivante lasci il posto a un ineffabile “penso” soggettivo. La riflessione batesoniana sui “filtri creativi” appare piuttosto coerente con il relazionale “penso dunque siamo di Heinz Von Foerster (1981). Dove ogni mio pensiero, senza cessare di essere “mio”, scaturisce dal mio essere parte di un processo mentale più ampio.”391 ..(…)