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di Vittorio Lannutt

2.6. Il lavoro di cura

Il contesto nel quale si colloca la donna immigrata impiegata nell’assistenza domiciliare è quello dell’area mediterranea, nella quale la famiglia occupa un ruolo centrale. La cultura latina in ambito familiare è assolutamente protettiva e i legami tendono ad essere il principale punto di riferimento per tutta la vita. Tuttavia, in Italia questo retaggio culturale ha perso la sua efficacia, a seguito del processo di emancipazione femminile e all’ingresso della donna nel mercato del lavoro. Questi elementi hanno con- tribuito a rompere l’assetto sociale tradizionale del compromesso di metà secolo17, nel quale gli uomini lavoravano fuori casa, assumendo il ruolo di

breadwinner, e le donne svolgevano le attività inerenti l’ambito domestico. Il welfare italiano, dal canto suo, non è stato in grado di fronteggiare la ca- renza che si è creata nelle famiglie italiane, quando è venuto a mancare chi

16 Caritas , op. cit.

svolgeva la funzione di assistenza soprattutto agli anziani e non ha saputo fornire risposte efficaci, immediate e di lungo respiro, data la dicotomia tra l’allungamento della vita e la diminuzione di posti disponibili in strutture di ricovero e/o di lungo degenza. In questo contesto la donna immigrata si è inserita nel processo di defamilizzazione18 delle attività di cura e di accu-

dimento. Quest’ultima è stata, dunque, l’unica reale risorsa per le famiglie in cui entrambi i coniugi lavorano. Questo settore lavorativo si è tradotto, pertanto, nel luogo d’incontro preferenziale tra una domanda spinta dal de- siderio di garantire l’assistenza sociosanitaria agli anziani nell’ambiente familiare, evitando le strutture geriatriche intramurarie, e un’offerta in cre- scita, a buon mercato, flessibile e in grado di fornire assistenza e accudi- mento a domicilio19.

Con il trasferimento di risorse economiche alla famiglia, lo Stato italia- no si disimpegna dalla gestione di anziani e disabili, delegando alla fami- glia questo gravoso onere, che comporta anche la ricerca del personale di assistenza. A seguito di questa impostazione del welfare, in Italia la donna immigrata ha assunto un ruolo da protagonista ed è, pertanto, decisamente funzionale al sistema di assistenza.

18 Esping-Andersen in I fondamenti sociali delle economie postindustriali (il Mulino,

Bologna, 2000) ha definito “familistico” il modello di welfare italiano, perché caratterizzato tendenzialmente più che dalla disponibilità di servizi per anziani e disabili, come avviene nel Nord Europa, dai trasferimenti di reddito, soprattutto sotto forma di pensioni, alle famiglie. Più recentemente Pugliese e Ponzini in Un sistema di welfare mediterraneo (Donzelli, Ro- ma, 2008) hanno sostenuto che il welfare italiano si connota come welfare mix, in quanto si ha una miscelazione tra il ruolo dello stato, quello del mercato e quello della famiglia, anche se è molto sbilanciato a carico di quest’ultima, che ha spesso l’onere della cura. La spesa sociale è sbilanciata soprattutto a favore delle pensioni (in Italia nel 2004 la spesa pensioni- stica era pari al 56,3% della spesa sociale; ovvero è sovradimensionata, avendo valori ben al di sopra della media europea: + 25%), oltre che degli occupati stabili, mentre si fa ben poco a favore della riduzione della povertà (nel modello mediterraneo di welfare il livello di spesa sociale è basso, in Italia l’incidenza sul Pil è del 26,1%). Secondo Pugliese poi il nostro wel- fare è assimilabile a quello degli altri tre Paesi dell’Europa meridionale (Spagna, Portogallo e Grecia) e lo definisce welfare mediterraneo, perché corrisponde al modello mediterraneo delle migrazioni internazionali, sia per la consistenza dei flussi, sia per le politiche in mate- ria di immigrazione.

19 Infatti «quando le donne arrivano nell’Europa meridionale si trovano in un mercato del

lavoro fortemente segregato in base al genere e in una società ancora per molti versi patriarca- le, che le costringe a svolgere lavori “femminili” come cameriera, infermiera, addetta alle cure, entraîneuse. Ma le donne migranti non si rassegnano passivamente a questa situazione e hanno reagito alle varie forme di discriminazione e di abuso di cui sono vittime grazie innanzitutto alle loro reti di solidarietà basate generalmente sul gruppo etnico. In tutte le regioni dell’Eu- ropa del Sud le associazioni delle donne migranti stanno sviluppando la loro presa di coscienza dei problemi che le riguardano sia a livello locale, sia a livello nazionale». King R., Zontini E., The role of the gender in the South European immigration model, University of Sussex – School of European Studies Falmer, Papers n. 60, Brighton, 2000, p. 44.

Dunque, le politiche pubbliche italiane si muovono all’interno di un triangolo i cui fattori di riferimento sono il bisogno di cura e assistenza del- la fascia senile; la necessità degli assistenti familiari di regolarizzarsi, poi- ché molto spesso sono assunti in nero; l’elevata percentuale di migranti20.

Non si può tralasciare che molte regioni stanno gestendo la situazione at- traverso lo stanziamento di finanziamenti alle famiglie, che per la cura e la gestione dei propri anziani assumono personale straniero. Si tenga anche presente che un assistente familiare viene pagato mediamente 700 euro al mese, mentre il costo medio di un ricovero in una casa di cura per un an- ziano è più del doppio, 1.500 euro. La scelta di cambiare radicalmente le politiche del welfare21 per questi utenti ha comportato la disincentivazione

della istituzionalizzazione, ha favorito il più possibile la permanenza nei contesti familiari e sociali, ha dato luogo ad una rete di servizi che permette la personalizzazione del servizio stesso sulla base delle esigenze del singolo anziano non autosufficiente, oltre all’integrazione socio-sanitaria. Questa è la conseguenza del fatto che l’allungamento della vita nel nostro Paese sta generando situazioni di forte cronicità. Gli anziani, insomma, necessitano di un sostengo di tipo socio-sanitario, piuttosto che esclusivamente sanita- rio. Tuttavia, secondo l’Istat, negli ultimi anni, c’è stato un generale miglio- ramento delle condizioni di salute di questa fascia di popolazione. Tra il 1994 e il 2005, sebbene la popolazione sia ulteriormente invecchiata, è di- minuita l’incidenza della disabilità, dal 47,6% al 42,8%. Nonostante ciò, il welfare italiano, come gli altri Paesi dell’Europa mediterranea, non ha atti- vato politiche sociali in grado di soddisfare tutte le esigenze di accudimento degli anziani in ambito domiciliare e residenziale.

Secondo i più recenti dati dell’Inps, alla fine del 2006 nel nostro Paese erano presenti circa 745.000 colf e badanti. Il boom c’è stato nel 2003, in seguito alla regolarizzazione concessa con l’introduzione della Bossi-Fini22.

Le donne rappresentano l’85% della forza lavoro di questo settore e, per quanto riguarda le provenienze, il 60% di loro è giunta dall’Europa dell’Est; il 16% invece è latino-americana e l’11% proviene dalle Filippine, dalle quali sono arrivati, come è noto, i primi lavoratori domestici stranieri in Italia.

Il lavoro di cura, affidato alle straniere, comporta spesso anche la “stra- na” pretesa delle famiglie di chiedere alle assistenti familiari di essere affet- tuose con coloro che accudiscono. In questa inedita relazione lavorativa, si

20 Pavolini E., Il mercato privato dell’assistenza nelle Marche: caratteristiche e ruolo

regolativi dell’attore pubblico, Armal, Ancona, 2005.

21 Il mutamento delle politiche di welfare vanno considerate alla luce del progressivo

aumento della popolazione ultrasessantacinquenne, che dal 1971 al 2001 è passata dall’ 11,3% al 18,7%, mentre gli over 75 nello stesso periodo sono passati dal 3,9% all’8,4%.

chiede, perciò, anche affettività in affitto, parallelamente alla co-residenza e all’accudimento durante tutto l’arco della giornata. Le assistenti familiari, così, vengono incastonate23 nella dinamica della famiglia allargata. È curio-

so, dunque, come il mondo occidentale e capitalista si stia rendendo sempre più dipendente dai Paesi in via di sviluppo, non solo per la manodopera in- dustriale e agricola, ma anche per quelle occupazioni per le quali è inevita- bile mettere in gioco i propri sentimenti e la propria sfera affettiva. Si è, co- sì, di fronte ad un evidente paradosso: da un lato si sbandierano i valori fa- miliari del nostro Paese (che, per inciso, mostra un tasso di fertilità tra i più bassi del mondo) e, dall’altro, si delega la cura dei propri cari a persone e- stranee.

In questo panorama lavorativo non mancano purtroppo casi sia di viola- zione degli obblighi contrattuali, sia di abusi e prepotenze perpetrati ai dan- ni delle lavoratici, dovuti o consequenziali alla pretesa di presenza conti- nuativa (diurna/notturna), durante la quale all’assistente familiare viene chiesto anche di tenere in ordine la casa. La dinamica relazionale che spes- so si sviluppa, nel tempo, tra datore di lavoro e lavoratrice si basa, dunque, più sul registro dei doveri che non su quello dei diritti, evidenziabili soprat- tutto dal monte ore di accudimento effettivo che la lavoratrice svolge nell’arco delle ventiquattro ore24. D’altra parte, si può anche verificare che

la stessa lavoratrice accetti questo rapporto di familiarità, che compensa al- cune sue carenze di carattere affettivo, quando ovviamente l’ambiente in cui vive è accogliente nei suoi confronti. Sono frequenti i casi in cui la stes- sa assistente familiare soffre per la morte della persona che assisteva.

Nell’ambito del lavoro di cura sono presenti diverse sfaccettature a par- tire da quella riguardante lo status giuridico, determinato dall’essere o no cittadine comunitarie. Romene e polacche, infatti, hanno maggiori possibi- lità di transitare tra i propri Paesi e l’Italia, determinando quindi un alto tas- so di turnover nelle famiglie, e hanno più opportunità di accedere alle strut- ture pubbliche di assistenza, oltre che alle famiglie stesse. A moldave ed ucraine, invece, per il momento resta esclusivamente la possibilità di lavo- rare nel mercato privato delle famiglie, dove in molti casi sono costrette ad accettare orari e stipendi che denotano un elevato livello di sfruttamento a causa della loro condizione di irregolari.

Tendendo sempre in considerazione l’etnia di provenienza, le filippine sono le immigrate che godono di uno status e di un riconoscimento partico- larmente elevati, essendo le più ricercate nel mercato del lavoro domestico, grazie alla loro alta compatibilità con le famiglie italiane: ovvero l’essere di religione cattolica, mediamente ben istruite e di lingua inglese.

23 In questo caso sembra più che mai pertinente l’uso del termine embeddedness. 24 Ambrosini M., Un’altra globalizzazione, il Mulino, Bologna, 2008.

La figura dell’assistente familiare negli ultimi anni sta, comunque, su- bendo un significativo cambiamento, dato che le nuove leve di questa pro- fessione sono meno propense a lavorare full time, preferendo il lavoro ad ore. Ambrosini e Cominelli, in seguito ai risultati di una ricerca svolta nel 2005 su questa categoria di lavoratrici, hanno disegnato quattro tipologie differenti al riguardo:

1. il tipo esplorativo: si tratta di donne molto giovani, senza carichi fami- liari, impegnate nel settore in modo casuale, che sondano le opportunità che il contesto d’arrivo può offrire loro e tendono a socializzare con i lo- ro coetanei italiani;

2. il tipo utilitarista: sono donne di mezza età dell’Europa dell’Est con figli adulti rimasti in patria e dipendenti dalle loro rimesse. Non hanno inten- zione di restare in Italia: infatti, appena raggiungono l’obiettivo econo- mico prefissato tornano nel proprio Paese;

3. il tipo familista: a questa tipologia appartengono donne giovani-adulte, primo-migranti, provenienti dall’America Latina, che hanno lasciato i figli nel loro Paese e tendono a passare dal lavoro full time a quello ad ore, per trovare un’abitazione autonoma in modo da poter ricongiungere la famiglia;

4. il tipo promozionale: riguarda donne, anche in questo caso, giovani- adulte, di varia provenienza, dotate di un elevato livello d’istruzione e con importanti esperienza professionali nel loro Paese. Sono intenziona- te a migliorare il loro status, ma vivono la frustrazione a causa della col- locazione lavorativa; e, se hanno figli, l’invio di rimesse impedisce loro di cercare una professione consona alle loro aspirazioni.

Spanò e Zaccaria25, invece, ritengono che ad emigrare dall’Europa

dell’Est siano le donne per i seguenti motivi:

− perché sono tradizionalmente propense ad avere sia un ruolo produtti- vo che riproduttivo; molte di queste, infatti, hanno avuto altre espe- rienze lavorative sia in patria che in altri Paesi, i loro mariti, inoltre, sono spesso occupati nella cura della casa e dei figli;

− perché la domanda di lavoro riguarda principalmente il settore dome- stico-assistenziale.