di Lara Fontanella e Simone Di Zio
5. Gli aspetti socio-anagrafic
5.3. Le morfologie familiar
Tuttavia, diversamente dalla figura della donna “apripista” che migra da sola, nel campione esaminato emerge un quadro familiare che presenta evi- denti caratteri di stabilità e di struttura. La forma familiare più rappresenta- tiva dell’insieme analizzato è, appunto, come si accennava, la coppia co- niugata con figli, che conferma – anche nelle zone oggetto della rilevazione – la tendenza della popolazione immigrata a qualificarsi in veste di presen- za anche “familiare”6. La quasi totalità delle donne intervistate vive, infatti,
con il proprio coniuge che, nella maggior parte dei casi, è un connazionale e dispone di un lavoro7.
Questi dati suggeriscono la tendenza del collettivo investigato all’endogamia, temperata solo in parte dalla cifra di chi ha un compagno autoctono (le coppie miste rappresentano il 28,3%). Non poche delle inter- vistate hanno, infatti, alle spalle un matrimonio contratto precocemente e, non di rado, con un parente8. In questo caso, la prospettiva di dividere con
un coetnico l’esperienza migratoria non è una scelta, ma un dato di fatto
6 Blangiardo G.C. (a cura di), L’immigrazione straniera in Lombardia. La quinta inda-
gine regionale, ISMU, Milano, 2006, p. 135.
7 Alla domanda direttamente posta sul lavoro del loro partner, le intervistate hanno dise-
gnato un ventaglio lavorativo decisamente ampio. Sebbene la maggioranza svolga un lavoro da operaio (60,7%), non mancano i lavoratori autonomi (16,8%), gli impiegati (9,2%), i li- beri professionisti (5,1%), gli imprenditori (4,1%), i lavoratori agricoli (1,5%). A questa domanda mancano le risposte del 2,6%.
che, comunque, tutela e ripara dai rischi di un ambiente sconosciuto come afferma, peraltro in modo molto suggestivo, questa testimone di Rabat: «Mio marito in Italia rappresentava per me la parete di sicurezza».
Le unioni inter-etniche disegnano, del resto, uno scenario spesso acci- dentato: rappresentano una scommessa fra se stessi, la società di accoglien- za e quella di provenienza9; definiscono un laboratorio in cui quotidiana-
mente si confrontano modi di vita, codici e abitudini differenti, e soprattutto non sono “un fatto privato”10. È illuminante al riguardo questa testimonian-
za rilasciata da Iulia proveniente da Bucarest, diplomata in odontoiatria e sposata con un vastese.
Sono venuta a Vasto nel 2004 e mi sono sposata con Nicola. Abbiamo deciso di sposarci dopo un anno che ci eravamo conosciuti perché costava troppo andare e venire dall’Italia a Bucarest per incontrarci. Lui è operaio in fabbrica. Abbiamo deciso di fare un mutuo e comprare una casa a Vasto. Un po’ la mamma era contra- ria per prendere una straniera, ma poi sono piaciuta. [...] All’inizio sono stata ac- colta bene, i parenti e gli amici mi trattavano bene, forse per rispetto a mio marito. [...] I guai però sono arrivati nel residence dove avevamo preso il mutuo. Erano vil- lette bi-familiari, noi stavamo al piano terra perché abbiamo il cane e i vicini prote- stavano per il cane che abbaiava, per le bambine che facevano chiasso, per il fumo quando facevo il barbecue, pure per la mia voce, che io parlo troppo forte [...]. Ab- biamo deciso di vendere quella casa e approfittare per andare dove costava meno [...]. Ora abbiamo una casetta in campagna con un po’ di terra. Non voglio più ave- re a che fare col condominio.
Dunque, anche le unioni miste che perseguono una strategia affettiva e poggiano su relazioni elettive, spesso sono debitrici della loro instabilità o dell’irrobustimento del loro impianto al contesto di approdo. Pur costituen- do il barometro più interessante della società plurale11, i matrimoni interet-
nici non sono, infatti, immuni da malintesi e fibrillazioni, che richiedono una notevole capacità negoziale. Tale impegno è esercitato, in genere, dal coniuge in posizione di svantaggio (che, per inciso, non di rado viene delu- so), come emerge dalle riflessioni di questa testimone albanese di Tirana, laureata, coniugata con un camionista di Vasto:
Mio marito purtroppo non si è impegnato molto a capire le mie abitudini, la mia cultura, il mio linguaggio. Io mi sforzo molto, ho imparato bene l’italiano, lui non cerca di venirmi incontro con la cultura. Faccio tutto io. Per quanto riguarda i miei figli vorrei educarli secondo il mio modello, ma non posso: sono sposata con un
9 Camplone T. (a cura di), Io vivo nell’ombra. L’immigrazione in Abruzzo e le sue voci,
Regione Abruzzo. Assessorato alla Promozione Culturale, Edigrafital, Teramo, 1997, p. 71.
10 Idem, p. 72.
italiano e sono un po’ costretta a fare quello che fa lui, sono tutti italiani intorno a lui e quindi non posso fare altrimenti [...].
Dunque, c’è chi si adatta, perché non può fare diversamente. Ma c’è an- che chi sperimenta la concretezza di legami affettivi risolutori di situazioni senza prospettive, come si evince dalle parole di questa testimone brasiliana che, incoraggiata a raggiungere l’Italia con un “contratto di ballerina”, si è trovata intrappolata in un giro di prostituzione, dal quale è uscita provvi- denzialmente con l’aiuto di un italiano.
Ho conosciuto un uomo italiano bravo, che praticamente mi ha rimessa al mon- do. Questo uomo che per me è come un angelo mi ha tolta dalla situazione in cui stavo, non è il caso di dire come, la cosa è delicata. Ora sto meglio, lui mi rispetta e mi ha aiutato e non giudicata. Ora ho anche degli amici e lavoro al bar del fratello del mio uomo che mi ha fatto un contratto part-time per il momento mi metto a po- sto con il permesso di soggiorno. All’inizio non mi fidavo di lui, perché avevo l’impressione che tutti gli uomini italiani vedessero le donne straniere, o nel mio caso brasiliane, solo con la malizia, come se fossimo sempre pronte a fare sesso e non avessimo sentimenti, spesso mi sono sentita ferita per questo. Secondo me questa è una forma di razzismo. (A. brasiliana)
C’è poi anche chi, dopo una breve, sventurata parentesi matrimoniale, rimane senza aiuto economico e familiare a conciliare famiglia e lavoro, e incorre – in aggiunta ad uno scenario che l’aggettivo “drammatico” defini- sce in modo insufficiente – nelle maglie della burocrazia che viene percepi- ta in veste ostile, punitiva e del tutto aliena da qualsiasi espressione empati- ca nei confronti del vivere quotidiano di molte immigrate, che – come que- sto brano precisa – sono tanto sole quanto vulnerabili.
Io facevo tre lavori per mantenere mio figlio, che rimaneva per un po’ di tempo solo. E mi hanno denunciato per abbandono di minore. Aveva sei anni. Ma io non sapevo come fare. Me lo volevano portare via. (C. argentina)
A proposito delle unioni miste, le ancora scarse ricerche sul tema segna- lano un ventaglio di motivazioni che qui vale richiamare alla memoria. Per esempio, per lo straniero proveniente da Paesi a forte pressione emigratoria, giocano un ruolo forte esigenze di tipo pragmatico (come ottenere attraver- so il matrimonio la cittadinanza italiana), oppure forme di orgoglio etnico (il riscatto da una storia di sfruttamento coloniale attraverso la conquista di un partner occidentale). Per il partner italiano possono, invece, rinvenirsi ragioni ideologiche che inducono ad attribuire «particolare valore a chi proviene da un mondo sfruttato ed oppresso da forme vecchie e nuove di
colonialismo»12, oppure situazioni di svantaggio nel mercato matrimoniale
( per chi è avanti con l’età, per chi è uscito da una esperienza matrimoniale negativa, per chi possiede un basso livello di istruzione e di status sociale). In tal caso si verificherebbe uno scambio reciproco compensatorio, un ma- trimonio di convenienza da entrambe le parti13 che, peraltro, il tempo può
compromettere nella sua stabilità.
A testimoniare questa evenienza è B. cubana, trentaseienne, sposata ad un uomo di sessantadue anni che, a quanto riferisce, non vive oggi una vita particolarmente serena, quantunque il matrimonio l’abbia sottratta ad una vita stenti, perché lo stile culturale della famiglia acquisita le è tanto estra- neo quanto incomprensibile.
Ho conosciuto mio marito italiano a Cuba, era venuto in vacanza. Lui mi ha fat- to un invito per vacanza di tre mesi perché io volevo provare se mi trovavo bene a vivere con lui in Italia. Poi siamo tornati insieme a Cuba, ci siamo sposati e siamo ripartiti per l’Italia, dove ci siamo sposati anche in chiesa. Sono partita perché vo- levo una vita migliore e aiutare la mia famiglia perché c’è necessità. Io e mia ma- dre avevamo solo un paio di scarpe, tra l’altro io porto 37 e lei 36 quindi quando le mettevo avevo un dolore ai piedi, ne avevo anche un paio fatte a mano da una si- gnora, però si bucavano sotto e mi bruciavo i piedi perché il sole è forte. Mi dove- vo fare i vestiti e le mutande usando cose vecchie che finché si poteva si rigiravano in modo che sembravano nuove. I miei erano felici, speravano che si migliorava, mi dicevano “buona fortuna” che sarebbe andata bene anche per loro, infatti perché mio padre mi avrebbe permesso di sposare uno che ha 26 anni più di me? [...] Però se mi dicevano che l’Italia era così non sarei partita. La gente è fredda, mi sento sola, mi manca la mia famiglia [...]. Speravo che la famiglia di mio marito mi vo- lesse bene. [...] Non mi piace il modo di vita italiano c’è troppa privacy, problemi, si vedono i parenti solo per le feste o si vanno a trovare se stanno male. Se vai a trovare uno zio e non chiami prima, ti tiene il muso, qui si usa avvisare. E non si cerca tutta la famiglia, solo alcuni, mentre da noi anche i cugini di quinto e sesto grado sono cugini. Se torno a casa mi aspetta tutto il quartiere, non si fanno inviti, si passa e si ferma a festeggiare.
Un copione per molti versi analogo a questo appena descritto, sembra recitare un’altra intervistata. Una quarantatreenne musulmana, che vissuta a Mogadiscio e approdata a Vasto a seguito della guerra nel suo Paese, pare ormai rassegnata ad una situazione familiare che, sebbene non sia precaria dal versante economico, è comunque segnata da un clima di diffidenza e di ostilità che le provoca forte malessere.
Io vengo dalla Somalia, siamo undici figli [...]. Sono partita per l’Italia perché nel mio Paese c’era una brutta situazione, c’era la guerra [...]. La maggior parte
12 Zanatta A.L., Le nuove famiglie, il Mulino, Bologna, 2003, p. 128. 13 Ibidem.
della mia famiglia è andata via [...]. Nel 1995 sono venuta a Vasto con mia sorella e mia cugina, avevo un’amica nigeriana che abitava a Vasto Marina [...] che ci ha ospitato e aiutato a sistemarci [...]. Ho conosciuto mio marito che era un amico del mio istruttore di scuola guida. [...]. Ci siamo conosciuti e piaciuti, ora sono dieci anni che siamo sposati e ho due bambini [...]. Però gli italiani fanno finta di volerti e di accettarti [...] ma la diversità c’è. Accettato vuol dire quando c’è fiducia e loro non ce l’hanno. Anche la famiglia di mio marito, non ho rapporti con loro, non mi hanno mai potuto vedere. Penso che gli italiani sono così verso tutti, è una caratte- ristica degli italiani, non pensano agli altri, sono così verso tutti, egoisti. [...] Forse è meglio non essere buoni, ma il nostro Profeta dice di rispettare gli altri [...].
Dunque, le difficoltà nel matrimonio tra persone con passaporti diversi non sono da minimizzare. Per esempio, queste unioni possono costituire un problema per l’identità culturale dell’eventuale prole, che può oscillare dal- la marginalizzazione del genitore straniero, alla conflittualità, alla valoriz- zazione delle radici culturali di entrambi i genitori, all’educazione alla scel- ta del proprio stile di vita14.
Al proposito, la letteratura sull’argomento individua tre prevalenti mo- dalità di gestione dell’educazione dei figli da parte delle coppie miste: la scelta biculturale, l’assimilazione, la negoziazione conflittuale. La prima individua una situazione ottimale, vuoi perchè educa al rispetto delle radici culturali di entrambi i genitori, vuoi perché segnala che – a proposito dell’educazione dei figli – i partner hanno già raggiunto un accordo. La modalità assimilativa segnala, all’opposto, che la cultura del coniuge stra- niero è sottostimata, perché ritenuta di ostacolo all’inserimento e alla pro- mozione della prole. È, questa, una situazione che sovente si rinviene fra quelle coppie in cui il coniuge straniero (per lo più, la donna) percepisce se stesso e la propria cultura come più deboli e inferiori rispetto all’ambiente in cui si trova a vivere. Ne discende che una parte della storia familiare si perde e che figli vengono privati di una conoscenza e di un sapere che po- trebbero disegnarne un profilo più ricco e interessante. Infine, il terzo tipo disegna quelle realtà familiari che vivono in modo conflittuale le scelte sull’educazione e sulla identità della prole. Va da sé che il conflitto si de- termina allorché la relazione fra i coniugi è asimmetrica e squilibrata e poggia su atteggiamenti impositivi di uno sull’altro.
Nel campione esaminato si rinvengono tutte e tre le modalità segnalate. Ci si imbatte in chi – come ha dichiarato un’intervistata marocchina sposata ad un italiano – intende con suo marito «crescere i figli» secondo le abitu- dini del suo Paese, senza tuttavia chiuderli alle istanze del contesto di ap- prodo, perché devono «frequentare gli italiani, andare alle feste dei compa- gni di classe ed essere sereni per crescere in libertà»; o in chi lamenta – come ha precisato una testimone argentina – il mimetismo del proprio figlio
che si sta allontanando sempre più dalle consuetudini della cultura materna e «non vuole più parlare lo spagnolo per non distinguersi dai suoi compa- gni»; o in chi – come ha precisato un’intervistata del Kosovo – vorrebbe educare la propria figlia «come fanno nel mio Paese, perché qui non mi piace», ma ha difficoltà nel raggiungimento di questo suo obiettivo che contrasta con gli orientamenti del proprio coniuge.