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LE E CELLULE CELLULE IMMIGRATE IMMIGRATE

LEE CELLULECELLULE IMMIGRATEIMMIGRATE

Sono quelle cellule che provengono da precursori presenti nel sangue e che si differenziano pienamente nel tessuto connettivo. Qui prenderemo in esame i macrofagi, i mastociti, le plasmacellule ed i melanofori.

Macrofagi

I macrofagi furono identificati per la prima volta in un organismo pluricellulare all’inizio dell’800 da un istologo russo che studiava le larve di stella di mare, organismi molto piccoli e trasparenti, facilmente studiabili anche con mezzi di indagine relativamente grossolani. L’istologo si accorse che all’interno di queste larve c’erano cellule capaci di camminare ed i inglobare particelle extracellulari e le chiamò macrofagi. Inizialmente ritenne che questa funzione di fagocitosi fosse devoluta a fini nutrizionali. Si capì che non era questo il fine della fagocitosi dei macrofagi soprattutto da quando si capì che queste cellule non erano caratteristiche delle larve della stella di mare ma erano pressoché ubiquitarie negli organismi pluricellulari.

In alcune sedi in particolare questi macrofagi erano facilmente evidenziabili a seguito di processi di colorazione naturale: per esempio, sono ben visibili nei polmoni. Negli alveoli sono molto numerosi i macrofagi che sono colorati naturalmente in nero perché fagocitano le particelle di smog inalate con l’aria.

In altri tessuti i macrofagi sono evidenziabili perché sono infarciti di pigmenti di usura detti lipofuscine, che sono anche il prodotto terminale dell’attività dei lisosomi: tutto il materiale, soprattutto lipidico, che non può essere ulteriormente digerito dalle lipasi lisosomiali rimane all’interno di un lisosoma terziario dove si ossida a seguito dei processi di respirazione cellulare assumendo una colorazione bruna. Le particelle fagocitate dai macrofagi possono essere detriti cellulari derivati, per esempio, da cellula degradate in seguito ad apoptosi; questi detriti vengono introitati nei macrofagi che, però, non riescono a digerire le membrane che sono di natura lipidica; queste, quindi, si accumulano nel citoplasma sottoforma di lipofuscine.

In virtù della loro attitudine a fagocitare i macrofagi possono essere messi in evidenza in tutti i tessuti di un animale da esperimento se si utilizza un accorgimento sperimentale che consta nell’inoculo di materiale particolato colorato. Esistono dei coloranti detti coloranti vitali che sono innocui da un punto di vista chimico per l’animale. Vengono inoculati nel sangue dell’animale e qui si coniugano con le proteine del plasma formando delle particelle colorate in blu che i macrofagi di tutti i distretti corporei percepiscono alla stregua delle particelle di carbone che penetrano nel polmone e che quindi inglobano per fagocitosi. Assumendo queste particelle azzurre all’interno del loro citoplasma, ma essendo incapaci di digerirle, i macrofagi vengono evidenziati.

L’attitudine di una cellula ad assumere i granuli di colorante vitale viene definita granulopessia. Le prime volte che furono condotti questi esperimenti furono utilizzate quantità eccessive di colorante vitale che evidenziarono non solo i macrofagi ma anche altre cellule come le cellule endoteliali, specializzate nel trasportare sostanze dal plasma al fluido tessutale. Le cellule endoteliali furono quindi indicate come macrofagi sulla base della loro granulopessia.

144 Sezione di istologia – 18. Il tessuto connettivo I primi sperimentatori coniarono il termine di sistema reticoloendoteliale in cui erano riunite tutte le cellule dotate di granulopessia, cioè:

I monociti, globuli bianchi precursori dei macrofagi dei connettivi.

I macrofagi, soprattutto quelli riscontrati a livello degli organi emopoietici e linfatici dove avviene la produzione di globuli bianche e rossi.

I macrofagi alveolari.

Le cellule di microglia presenti a livello del tessuto nervoso.

Le cellule di Kupfer localizzate a livello del fegato dove sono alternate alle cellule endoteliali.

Le cellule endoteliali, soprattutto quelle delle ghiandole endocrine che hanno una vivace attività di scambio.

Quando si raffinarono i metodi di studio con i coloranti vitali ci si accorse che il sistema reticolo endoteliale non aveva ragione di essere in quanto, dosando in modo più fine la somministrazione di questi coloranti, si notò che l’endotelio non li assumeva minimamente.

Fu definito quindi il sistema reticolo - istiocitario dove, con il termine di istiocita, intendiamo il macrofago tipico dei tessuti connettivi.

In questo nuovo sistema sono inclusi molto degli elementi che facevano parte del sistema reticolo -endoteliale ma compaiono la categoria degli istiociti, cioè dei macrofagi localizzati a livello dei diversi tessuti connettivi, e quella dei macrofagi liberi delle sierose che si trovano a livello delle membrane sierose (pericardio, peritoneo, ecc.) su cui si spostano rimuovendo tutto ciò che non deve trovarsi lì: cellule morte, batteri, cristalli di proteine che si formano a seguito di fenomeni infiammatori, ecc.

Il sistema reticolo - istiocitario ha retto fino a quando non si è conosciuta la struttura molecolare delle cellule. Si sa, infatti, che ogni cellula è identificata in modo molto preciso da un cluster of

differentiation, cioè da molecole di superficie che identificano la cellula in modo specifico e che spesso

sono coinvolte nell’attività funzionale di quella determinata cellula. Così è per il macrofago, che possiede due marker di membrana strettamente connessi con la funzione fagocitaria: il primo è il recettore per il

frammento costante delle immunoglobuline (le immunoglobuline sono gli anticorpi: hanno la forma di

una Y il cui “piede”, capace di legare l’antigene, è detto frammento costante); l’altro marker è il recettore

per il frammento 3b del complemento. Il complemento è rappresentato da una serie di proteine del

plasma che si attiva in numerose circostanze correlate con i fenomeni di difesa; in particolare, uno dei frammenti delle varie proteine del complemento si chiama C3b ed ha la capacità di ingranare con questo

recettore del macrofago.

Sulla base di questo moderno metodo di classificazione, il vecchio sistema reticolo istiocitario, che teneva conto essenzialmente dell’attitudine a fagocitare coloranti vitali, è stato ridotto ed è stato stilata una lista di cellule che compongono il sistema del fagocita mononucleato: il termine “mononucleato” viene

Sezione di istologia – 18. Il tessuto connettivo 145 impiegato per distinguere questo fagociti, che sono della famiglia dei macrofagi, da altri fagociti presenti

nel sangue e che presentano un nucleo con delle caratteristiche particolari. I fagociti di cui stiamo trattando hanno un unico nucleo sferico o ovale.

In questa grossa categoria si riuniscono non solo le cellule pienamente differenziate così come le troviamo nei tessuti connettivi ed in altri tipi di tessuti, ma anche tutta la linea differenziativa a partire dai più lontani precursori situati a livello del midollo osseo emopoietico dove avviene la genesi delle cellule del sangue.

I primi membri della nostra lista, monoblasti e promonociti, sono, infatti, i precursori midollari dell’elemento sanguigno che origina il macrofago del tessuto connettivo: questo elemento sanguigno è il

monocita, che troviamo al secondo posto nella lista.

Ricorrono poi alcune voci che avevamo già incontrato nelle vecchie classificazioni: macrofagi degli

organi emopoietici e linfatici, che già erano stati identificati sulla base della capacità granulopessica; macrofagi tessutali, nome moderno di quelli che nelle precedenti classificazioni venivano detti istiociti; macrofagi liberi delle sierose; macrofagi alveolari del polmone; microglia del sistema nervoso

centrale, cellule di Kupfer.

Troviamo poi una nuova voce: i periciti. Sono una categoria eterogenea di cellule che si trovano attorno all’endotelio dei vasi sanguigni di piccolo calibro (capillari e venule); alcune sembra abbiano funzione contrattile, altre appartengono al sistema del fagocita monucleato ed hanno, quindi, una funzione fagocitaria deputata al controllo del microambiente tessutale, perché “sorvegliano” ciò che passa dal sangue verso i tessuti.

Un’altra voce che non compariva nelle precedenti classificazioni, è quella delle cellule accessorie (dei

linfociti): sono cellule di ceppo macrofagico che compartecipano ai processi di risposta immunitaria

insieme ai linfociti. I linfociti sono i principali attori della risposta immunitaria, sono loro che agiscono contro tutto ciò che non fa parte del nostro organismo, ma, perché questa reazione possa innescarsi, necessitano dell’attività funzionale di questi particolari macrofagi che sono le cellule accessorie. In realtà le cellule accessorie non costituiscono un unico tipo cellulare, ma sono una categoria di fagociti capaci di svolgere la funzione di aiuto ai linfociti nell’ambito della risposta immunitaria; questa categoria comprende le cosiddette cellule interdigitate, dotate di prolungamenti che si incastrano fisicamente con i linfociti e che ritroviamo nelle aree T - dipendenti degli organi linfoidi secondari. Questa categoria comprende anche le cellule di Langerhans dell’epidermide. Ci sono poi le cellule reticolari dendritiche che ritroviamo a livello delle aree B - dipendenti degli organi linfoidi secondari. Per tutte le cellule accessorie la funzione fagocitaria è piuttosto scarsa e questo si manifesta anche con il fatto che non sono cellule dotate di capacità granulopessica; la fagocitosi si compie soprattutto a livello macromolecolare, nei confronti di antigeni not - self che vengono introitati, elaborati e successivamente adeguati a stimolare i linfociti.

Infine, si tendeva ad includere in questa lista gli osteoclasti. Si tratta di una forzatura perché questi non hanno né il recettore per il frammento costante delle immunoglobuline, né quello per il frammento 3b del complemento. Si includevano in questa lista per via del fatto che sembrava derivassero dai monociti. Oggi

146 Sezione di istologia – 18. Il tessuto connettivo sappiamo che derivano da un precursore sanguigno che ha lo stesso aspetto morfologico dei monociti ma che è già differenziato verso la linea osteoclastica e non verso quella del fagocita mononucleato.

Da un punto di vista morfologico il macrofago si caratterizza per saper compiere la fagocitosi e la digestione intracellulare del materiale fagocitato: di conseguenza è una cellula che, quando è funzionalmente attiva, è dotata di numerosi lisosomi. Quindi, mettere in evidenza il corredo lisosomiale di un macrofago è un modo molto valido per identificare il macrofago stesso che può essere attuato grazie alla reazione istoenzimologica per la fosfatasi acida. Tutti i lisosomi, infatti, contengono elevate quantità di questa idrolasi che si attiva a pH acido per scindere raggruppamenti fosfato da substrati organici. Esiste la possibilità di metterla in evidenza tramite una specifica reazione che fornisce all’enzima della cellula un substrato artificiale che l’enzima sa riconoscere e convertire in un prodotto di reazione insolubile che, quindi, precipita sopra la sede cellulare dove è presente l’enzima, e che è possibile rendere colorato in nero.

Da un punto di vista ultrastrutturale il macrofago appare come una cellula ricca di organuli (è una cellula voluminosa, che può raggiungere i 30 m di diametro), il nucleo, generalmente di forma ovale, tende ad avere una posizione centrale nella cellula ed ha cromatina dispersa in quanto sono numerosi i geni attivi. Ha, inoltre, un evidente nucleolo. Il citoplasma appare tenuemente basofilo in virtù dei numerosi elementi di reticolo endoplasmatico ruvido sulla cui superficie, a livello dei ribosomi, avviene la sintesi delle idrolasi acide. Sempre in relazione alla sua funzione, nel macrofago vediamo un ampio apparato di Golgi. La forma del macrofago attivato è variabile in relazione al fatto che la cellula è dotata di capacità motoria di tipo ameboide: può essere allungata quando sta emettendo lo pseudopodio, può essere poliedrica nel momento in cui si muove di meno o, ancora, può apparire stellata. In linea di massima, per muoversi la cellula si dota di protrusioni citoplasmatiche, definite lamellopodi, con cui aderisce al substrato tramite integrine e fibronectina.

Come dicevamo, il macrofago elimina tutto ciò che è not – self. La fagocitosi aspecifica è un tipo di fagocitosi meno efficiente che si ha a carico di particelle inerti ed è attuata, per esempio, dai macrofagi alveolari dei polmoni che fagocitano le particelle di carbone sospese nell’aria che inaliamo. Una volta avvenuta l’interazione elettrostatica80 fra il plasmalemma del macrofago e la particella inerte, inizia il processo di fagocitosi che, nel caso della fagocitosi aspecifica, richiede un certo tempo, così come la digestione intracellulare. La fagocitosi specifica è mirata, invece, alla distruzione di particelle che siano state in grado di evocare una reazione immunitaria e che pertanto siano state oggetto dell’attenzione da parte di anticorpi.

Immaginiamo un batterio che entri in un organismo: questo ha caratteristiche di antigenicità not - self, in quanto possiede molecole di superficie che l’organismo percepisce come estranee e contro cui l’organismo stesso comincia a produrre anticorpi che riconoscono gli antigeni alla superficie batterica e vi si legano. In dipendenza di questo fatto, e per certi batteri anche a prescindere dalla presenza di anticorpi, le proteine plasmatiche del complemento si attivano e divengono degli enzimi ciascuno dei quali è capace 80 Il carbone, in realtà, essendo costituito da grafite, non è una sostanza not - self ma, probabilmente, viene riconosciuta come tale per la presenza sulla superficie di una particolare distribuzione di cariche elettriche con cui il macrofago è in grado di interagire.

Sezione di istologia – 18. Il tessuto connettivo 147 di agire sull’anello più a valle della catena del complemento scindendolo e generando così un nuovo

enzima ed un altro frammento. Uno di questi frammenti del complemento è il C3b, che ha un’estremità idrofoba che tende ad infilarsi nella membrana del batterio andando a “decorare”, insieme alle immunoglobuline, la superficie batterica. Gli anticorpi, specialmente quelli della classe IgG, ed il frammento 3b del complemento possiedono recettori sul macrofago: l’adesione del macrofago ad un batterio o a qualsiasi altra particella che possieda alla sua superficie le IgG, le C3b o addirittura entrambi, è molto più veloce. Inoltre, alla formazione del legame tra il recettore specifico ed il proprio ligando, consegue, nel macrofago, l’invio di un messaggio che attiva il metabolismo della cellula. Queste molecole, 3b ed immunoglobuline, sono anche dette opsonine e, quindi, il processo che porta al legame delle opsonine sulla particella da fagocitare è detto opsonizzazione. In seguito all’adesione con il macrofago la particella not – self viene inglobata in un vacuolo eterofagico il cui contenuto, in seguito alla connessione con gli endosomi, viene acidificato. Sul vacuolo eterofagico convergono quindi delle vescicole contenenti le idrolasi che, trovando un ambiente acido, si attivano ed incominciano a digerire il contenuto del vacuolo eterofagico. Questa digestione può essere totale o parziale, specie se la particella inglobata contiene porzioni lipidiche; in questo caso l’esito della fagocitosi sarà la formazione di un corpo residuo ripieno di pigmenti lipofuscinici.

In determinati tessuti la funzione del macrofago è adattata a determinate esigenze fisiologiche: negli organi emocateretici, quali la milza, i macrofagi sono implicati nella rimozione dei globuli rossi vecchi. I globuli rossi, tuttavia, possiedono materiali, quali il ferro, che essendo difficilmente assimilabili con l’alimentazione, devono essere riciclati. All’interno del vacuolo eterofagico c’è una proteina, la ferritina, che via via che il ferro viene liberato a seguito della digestione dell’emoglobina, vi si lega e lo mantiene all’interno del macrofago da dove viene ceduto alle cellule della linea produttiva dei globuli rossi. Una cellula accessoria ha un aspetto un po’ diverso da quello di un macrofago: i lisosomi, per esempio, sono piuttosto rari e piccoli. Quello che caratterizza questo tipo di cellule è la coabitazione con un certo numero di linfociti che gli fanno corona e che, a seguito dell’interazione di membrana molto stretta ed estesa fra linfocita e macrofago, risentono di una serie di segnali che porteranno alla loro successiva attivazione, proliferazione ed adeguamento alle esigenze della risposta immunitaria.

Una varietà morfologicamente particolare di macrofago è la cosiddetta microglia che si trova a livello del SNC. Quando è quiescente presenta un piccolo corpo cellulare in cui è presente il nucleo e gran parte degli organuli e numerosi prolungamenti che si insinuano tra le altre cellule del sistema nervoso che la circondano. Quando si attiva, invece, assume una morfologia assolutamente indistinguibile da quella dei macrofagi degli altri tessuti.

Mastociti

Il termine “mastocita” è la traslitterazione in italiano di una parola tedesca (mastzellen) la cui radice indica “sostanze nutrienti”: i mastociti, infatti, possiedono numerosi granuli che, in un primo momento, si riteneva contenessero materiale di riserva nutritizia. In realtà i mastociti non hanno alcuna funzione trofica ma hanno conservato questo nome.

I mastociti hanno una localizzazione particolare nei tessuti connettivi: li ritroviamo attorno ai vasi sanguigni, soprattutto a quelli di scambio come arteriole, capillari e venule.

148 Sezione di istologia – 18. Il tessuto connettivo Al microscopio ottico i mastociti appaiono come cellule piuttosto grandi (30 micron) con una forma ovale, un grosso nucleo rotondo eucromatico localizzato centralmente nella cellula, pochi organuli fra cui alcuni elementi di reticolo endoplasmatico granulare ed un apparato di Golgi piuttosto sviluppato. Tutto il citoplasma è occupato da numerosissimi granuli sferici di circa 0,5 m di diametro che appaiono colorabili metacromaticamente quando si usa, ad esempio, il blu di toluidina: questo ci indica la presenza di glicosamminoglicani acidi altamente solforati con cariche anioniche ravvicinate a meno di 5 Å, rappresentati, in questo caso, dall’eparina.

Nei granuli del mastocita, accanto all’eparina, ci sono anche altre molecole, prima tra tutte una piccola ammina biogena, l’istamina, che si forma per decarbossilazione dell’istidina ad opera dello stesso mastocita grazie all’enzima istidindecarbossilasi. Questo enzima, in quanto tipico del mastocita, è un marker di questo tipo cellulare. L’istamina è una molecola basica e si ritiene che, all’interno del granulo, sia legata all’eparina tramite un legame salino che le impedirebbe, date le sue piccole dimensioni, di sfuggire dal granulo. Inoltre, nei granuli del mastocita c’è anche una proteina di supporto, la

cromogranina (presente anche nelle cellule del sistema endocrino diffuso e delle cellule endocrine che

producono ormoni amminici) che ha la funzione, anch’essa, di legarsi all’istamina per mantenerla all’interno del granulo.

Nei mastociti di certe specie, come i roditori, i granuli contengono anche una seconda ammina biogena che è la serotonina, ma quelli dell’uomo non ne possiedono.

La funzione del mastocita è quella di presiedere agli scambi ematotessutali regolando il calibro e la permeabilità dei vasi sanguigni. Infatti, sotto stimoli meccanici, nervosi o endocrini, il mastocita si attiva e libera per esocitosi un certo numero dei propri granuli. Le sostanze in essi contenuti, quindi, si diffondono nei dintorni e vanno ad interagire con gli elementi della parete dei vasi sanguigni: l’istamina, il più potente mediatore vasoattivo che producono i mastociti, interagisce con le cellule endoteliali e provoca il loro rilasciamento, cioè la vasodilatazione e, quindi, aumenta la portata del sangue in un dato distretto. L’istamina, inoltre, interagisce con le molecole del glicocalice dell’endotelio, provocando il distacco delle cellule endoteliali l’una dall’altra; in questo modo si creano delle soluzioni di continuità fra le varie cellule endoteliali attraverso le quali ciò che è contenuto nel plasma riesce a passare agevolmente nel tessuto connettivo.

Per quel che riguarda l’eparina, che è una potentissima sostanza anticoagulante, si ritiene che sia implicata nell’impedire che i vari fattori della coagulazione si attivino nel tessuto dove sono giunti in seguito ai fenomeni appena descritti, ostacolando il processo di scambio.