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Le matematiche rubate: storie di furto sacrilego

Nel documento DOTTORATO DI RICERCA TITOLO TESI (pagine 34-51)

Coloro che raccolsero l’eredità di Pitagora hanno narrato la propria storia, dopo la fine della scuola, come una serie di furti e ruberie a danno della proprietà intellettuale del loro maestro. La nota leggenda di Ippaso di Metaponto è soltanto il più famoso di questi episodi di furto sacrilego: ecco come Giamblico, nella sua Vita Pitagorica, narra la vicenda: 1

Colui (Ippaso?)2 che aveva divulgato per primo la natura della commensurabilità e dell’incommensurabilità presso gli indegni di prender parte ai ragionamenti, venne loro in odio, dicono, a tal punto che non solo lo bandirono dall’associazione e dalla vita comune, ma gli fecero persino una tomba, come se colui che un tempo era stato loro compagno si fosse ormai congedato dalla vita insieme agli altri uomini. Altri, poi, affermano che anche gli dèi si sarebbero vendicati di coloro che avevano divulgato all’esterno le dottrine di Pitagora: sarebbe infatti perito in mare in quanto empio colui che rese pubblica la prova che la figura con venti spigoli, vale a dire il dodecaedro, uno dei cosiddetti “cinque solidi”, è inscrivibile nella sfera.

Alcuni, invece, hanno detto che ebbe a patire queste cose colui che divulgò la teoria degli irrazionali e degli incommensurabili.

La vicenda di Ippaso è stata variamente interpretata: è plausibile che egli avesse fatto una qualche scoperta in campo matematico, e che fosse accusato dai Pitagorici successivi di essersene impadronito con l’inganno; alcuni, accettando come buona la tradizione, non unica né maggioritaria, secondo cui la scoperta in questione sarebbe quella delle grandezze incommensurabili, hanno voluto vedere nell’aneddoto la testimonianza della profonda crisi in cui l’aritmo-geometria pitagorica, fondata sulla commensurabilità e sulla proporzione, sarebbe piombata a seguito della scoperta degli incommensurabili.3 Tuttavia, nelle testimonianze antiche sull’episodio il contenuto delle dottrine divulgate in genere non appare come qualcosa di intrinsecamente empio o sacrilego: l’empietà di Ippaso, piuttosto, consiste nella violazione del silenzio che circondava l’insegnamento

1 VP 246-247=DK 18 A 4.

2 Egli non è nominato esplicitamente in questa testimonianza. Il nome di Ippaso ricorre invece in VP 88.

3 Su questa ricostruzione, peraltro molto contestata negli studi degli ultimi decenni, rimando a Ippaso, pp.

260 sg.

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nella scuola pitagorica, di natura analoga a quello che vincolava gli iniziati ai culti misterici,4 e nell’aver rubato una scoperta la cui legittima paternità spettava a Pitagora stesso. Solo in una versione più tarda, testimoniata dal matematico Pappo di Alessandria, in cui è ormai consolidata l’idea che la dottrina rubata fosse quella degli irrazionali, si suggerisce che il vero significato della condanna di Ippaso consistesse nella volontà, da parte della setta, di celare l’assurdo e l’irrazionale che l’esistenza delle grandezze incommensurabili introduceva nel cosmo.5

Nella ricostruzione di Burkert,6 la figura di Ippaso è da collocare nella frattura tra due differenti indirizzi della scuola pitagorica, quello acusmatico, basato, sempre secondo Burkert, sull’apprendimento degli akousmata e sul più antico nucleo dottrinale del pitagorismo, e quello matematico, che ricorre all’espediente di appellarsi alla segretezza e al silenzio che vigono sulle dottrine della setta per celare la “rottura” con l’indirizzo acusmatico e rivendicare il proprio diritto di nascita nel più autentico insegnamento di Pitagora. Ippaso, che fu, secondo questa ricostruzione, un capofila dell’indirizzo matematico, divenne però una sorta di capro espiatorio, sacrificato e additato come ladro dai matematici stessi per poter rivendicare a Pitagora in persona il nucleo della dottrina dei matematici. La divisione nella setta pitagorica tra acusmatici e matematici è attestata solamente in fonti tarde,7 e l’ipotesi che essa rifletta in realtà una sorta di scisma interno alla scuola, tra un indirizzo “dogmatico” e uno “scientifico”, sembra in realtà piuttosto improbabile e risponde forse alla nostra esigenza di porre una rottura tra pensiero dogmatico e scientifico, più che al reale ordinamento della scuola pitagorica. Il fascino e il valore della ricostruzione di Burkert, tuttavia, consistono nel cogliere come, screditando Ippaso, i Pitagorici di una nuova “epoca” costruiscano la loro stessa identità pitagorica,

4 Lysis Ep. p. 112, 1-4. Cf. Ippaso, p. 267.

5 La testimonianza di Pappo si trova nel suo Commentario al decimo libro degli Elementi di Euclide, pervenutoci solo in versione araba (I, 2 Junge-Thomson): si rimanda alla traduzione inglese presentata da Burkert (Lore and Science … pp. 457-458); essa è preservata in parte, in greco, negli scolii a Euclide (Schol.

Eucl. 417, 12 sgg.). A questa versione tarda sembra far capo anche la notizia dell’esistenza di uno scritto di Ippaso sugli irrazionali, per la quale si rimanda al commentario a Ippaso, pp. 267 sg.

6 W. Burkert, Lore and Science in Ancient Pythagoreanism, … pp. 206-208.

7 Ciò vale, naturalmente, se si esclude che le testimonianze di Giamblico risalgano all’opera Sui Pitagorici di Aristotele, come sostenuto da P. S. Horky, Plato and Pythagoreanism, Oxford University Press, Oxford, 2013, pp. 5-18, della qual cosa non mi pare vi siano indizi convincenti. Cf. Iambl. De Comm. Math. Sc. pp.

76-77 Klein; e inoltre Iambl. VP 81, che contiene peraltro alcune contraddizioni rispetto alla testimonianza del De communi mathematica Scientia: si veda in proposito B. Centrone, Introduzione a i Pitagorici, … pp. 81-85.

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iniziando il processo di creazione di quell’immagine del pitagorismo come setta granitica, chiusa e unita da solidarietà e segretezza, in cui le matematiche costituivano il più alto oggetto di studio, che trionferà nei secoli successivi.

Le poche notizie di sicura antichità su Ippaso, indipendenti dalla storia del suo tradimento, ci presentano una figura di filosofo “presocratico”, che poneva l’arché nel fuoco, e di un pensatore interessato alle matematiche, che si occupò delle proporzioni e degli intervalli musicali;8 le testimonianze sulla leggenda del furto degli incommensurabili, al contrario, almeno nella sua versione più nota, sono tutte piuttosto tarde, e suggeriscono una bipartizione della tradizione, come osserva già Giamblico: la versione secondo cui la scoperta matematica rubata da Ippaso sarebbe stata quella del “quinto solido” platonico, il dodecaedro, appare più certa e legata al nome del pitagorico, mentre l’altra, in cui la dottrina in questione sarebbe quella degli incommensurabili, è quasi sempre riferita a “un tale dei Pitagorici”, forse per una reticenza nel ricordo del “traditore” che ha il sapore di una damnatio memoriae.9 Eppure, non è impossibile tentare un’indagine sulle origini della leggenda, grazie a un documento relativamente antico, che probabilmente fotografa una versione precedente della vicenda: si tratta della lettera apocrifa di Liside10 a Ipparco, un documento di notevole interesse, datato da Burkert11 al III sec. a. C.:12 questo testo circolava in varie versioni nell’Antichità, ed è citato anche da Giamblico nella Vita di Pitagora, in una versione piuttosto diversa da quella edita da Hercher13 nella sua raccolta, che è presumibilmente la più antica, come ha mostrato sempre Burkert. Questo testo dev’essere annoverato tra gli apocrifi pitagorici più antichi per diverse ragioni: ad esempio, essa è citata anche da Diogene Laerzio,14 che si basa su fonti ellenistiche e non

8 DK 18A 7-9, 12-14.

9 Si veda la breve sintesi dei problemi relativi alla tradizione della storia in B. Centrone, Introduzione a i Pitagorici, … pp. 84-85. Alle testimonianze di Giamblico e Pappo già ricordato sul furto della dottrina degli incommensurabili da parte di un pitagorico anonimo si possono aggiungere anche quelle di Clemente Alessandrino,Strom. V 58, e di Plutarco, Numa 22, entrambe esaminate brevemente nel commentario a Ippaso, pp. 267 sg.

10 Sulla figura e la biografia di Liside, uno degli ultimi Pitagorici, che si trasferì a Tebe dopo la fine dell’associazione, rimando al commentario, p. 271.

11 W. Burkert, “Hellenistische Pseudopythagorica”, … pp. 17-28.

12 Si veda, inoltre, A. Städele,Die Briefe des Pythagoras und der Pythagoreer, … pp. 206-212, che ritiene che la seconda redazione della lettera non possa essere molto più antica dell’epoca di Nicomaco (vedi anche pp. 144 sg.).

13 R. Hercher, Epistolographi Graeci, Firmin Didot, Parigi, 1873, pp. 601-603; cf. nota critica, ibid. p.

LXVII.

14 DL VIII 42. Si noti che Diogene chiama il destinatario Ippaso, e non Ipparco.

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cita gli apocrifi più recenti, e soprattutto era probabilmente scritta al fine di accompagnare alcuni hypomnemata attribuiti a Pitagora stesso al fine di certificarne l’autenticità, secondo un uso comune nella letteratura apocrifa pitagorica,15 che però sarebbero rimasti, secondo quanto riferisce l’autore della lettera stessa, celati per molto tempo, grazie alla fedeltà delle donne della casa alle ultime volontà del Maestro:

Molti dicono persino che fai filosofia in pubblico, cosa che Pitagora ha proibito: egli, lasciati i propri appunti alla figlia Damo, le impose di non divulgarli con nessuno che non fosse della famiglia. Ella, pur potendo vendere quei discorsi in cambio di molte ricchezze, non volle, ma ritenne che la povertà e le volontà paterne valessero più dell’oro. Dicono anche che, alla morte di Damo, sua figlia Bistala abbia assolto lo stesso compito; e noi, che pure siamo uomini, e per giunta discepoli di Pitagora, non ci comportiamo da figli legittimi, ma ci spingiamo a trasgredire i nostri voti.16

L’accusa che Liside rivolge a “Ipparco” è di filosofare pubblicamente, mentre Pitagora ha espressamente proibito di condividere la propria sapienza con i profani, come dimostra la vicenda dei suoi appunti. Come si può notare, il resoconto della vicenda degli hypomnemata di Pitagora presuppone che non esistano suoi scritti circolanti, convinzione presente solamente in età ellenistica, e priva di senso in un contesto in cui gli apocrifi sono ormai diffusi. Un altro particolare degno di nota è l’allusione di Liside al notevole valore monetario degli appunti in questione: il motivo del guadagno economico nella compravendita dei segreti pitagorici ritorna con insistenza nella tradizione ellenistica, e coinvolgerà nel suo scandalo persino Platone. I duri ammonimenti del falsario contro coloro che osano accostarsi, da profani, alla sapienza pitagorica17 servono da avvertimento per il lettore che si appresta ad accedere allo scritto segreto, con un tono che ricorda quello degli apocrifi pitagorici più antichi, come il prologo del Tripartitum.18 La vicenda di Ipparco è additata a esempio della vanità della sapienza non accompagnata dalla virtù e dall’obbedienza incondizionata ai precetti del Maestro; alcuni punti della storia trovano notevoli corrispondenze con quella che diventerà la leggenda di Ippaso:

15 Piuttosto emblematico, a questo proposito, è il caso della corrispondenza tra Platone e Archita tramandata da Diogene Laerzio (VIII 80-81 = p. 46, 1-15 Thesleff), in cui i due appaiono intenti a scambiarsi testi e appunti pitagorici, e in particolare le opere di Ocello Lucano, nonché certi hypomnemata di Platone stesso;

si veda H. Thesleff, “Okkelos, Archytas and Plato”, … pp. 8-36. Che la lettera di Liside accompagnasse un apocrifo pitagorico sembra confermato anche da un’affermazione di Diogene Laerzio, il quale osserva che un certo testo attribuito a Pitagora, diverso dal Tripartitum, era in realtà da attribuirsi a Liside (DL VIII 7).

16 Lysis, Ep. p. 114, 4-12.

17 Ibid. p. 112, 17-114, 1.

18 Si veda l’introduzione, p. 9.

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Liside, ad esempio, avverte Ipparco dell’empietà della sua attività divulgativa, ricorrendo a un paragone con la profanazione dei Misteri eleusini:

Non è lecito offrire a chiunque ciò che si è conquistato in così grandi lotte, né spiegare ai profani i misteri delle due dee di Eleusi: coloro che commettono tali azioni sono ingiusti ed empi nello stesso modo.19

Ma l’analogia che colpisce di più è senza dubbio la morte simbolica a cui Ipparco/Ippaso è condannato dai suoi sodali, come testimoniato da Giamblico, che parla della tomba con il suo nome e delle esequie che essi avrebbero celebrato per lui mentre era ancora in vita:

questa condanna riecheggia nel lapidario finale della lettera:

Se mai cambiassi, me ne rallegrerò, ma altrimenti per me sei morto.20

Inoltre, tutti i capi d’accusa contro Ipparco sono suggeriti da Liside, in modo sottile, quando egli elenca i mali a cui l’arroganza conduce l’uomo:

I figli dell’arroganza sono rapine, ladronerie, parricidi, furti sacrileghi (…) e tutte le azioni sorelle di queste.

Le allusioni alla condotta di Ipparco sono evidenti, in particolare nell’allusione al parricidio di Pitagora e soprattutto alla hierosylia, che indica propriamente la sottrazione di offerte da un luogo sacro: è chiaro che la profanazione di Ipparco assume tutte le caratteristiche di un furto sacrilego della proprietà intellettuale di Pitagora, oltre che una violazione del silenzio iniziatico. 21

La vicenda di Ipparco viene collocata in seguito alla fine dell’associazione pitagorica, tratteggiata con grande partecipazione emotiva, che Liside afferma essere avvenuta dopo la morte di Pitagora, a causa di un non meglio precisato evento traumatico che egli paragona all’affondamento di una nave, il cui carico finisce per disperdersi, così come avviene per i Pitagorici della diaspora. L’autore attribuisce a Liside la consapevolezza che la responsabilità di custodire e difendere quello che resta dei precetti e delle dottrine della setta ricade ormai sulle sue spalle:

19 Lysis Ep. 112, 1-4.

20 Ibid. p. 114, 12.

21 Restano un punto di riferimento, sulla questione del segreto pitagorico nella lettera e in generale per l’analisi del contenuto e della sua elevata qualità letteraria, inusuale in questa letteratura, le osservazioni di A. Delatte, Études sur la littérature pythagoricienne, … pp. 83-106.

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Dopo la dipartita di Pitagora dal mondo degli uomini, mi ero fissato nell’animo il proposito che la fratellanza dei suoi seguaci non avesse mai a disperdersi; ma dal momento che, contro ogni mia speranza, ci siamo sparpagliati, sballottati di qua e di là come avviene per il carico di un bastimento che affonda nella solitudine del mare, era mio pio dovere richiamare alla tua memoria quei tuoi precetti divini e venerandi, di non condividere i beni della sapienza con gente che neppure in sogno ha mai purificato la propria anima.22

La lettera, inoltre, aggiunge particolari della storia di Ipparco/Ippaso che non emergeranno più dalle versioni successive: la causa iniziale della sua corruzione morale, che lo avrebbe portato a tradire gli ideali dell’associazione, sarebbe stato un viaggio in Sicilia, dove egli sarebbe stato conquistato dal raffinato stile di vita locale.23 Sebbene non vi sia alcun cenno al contenuto delle dottrine che egli insegnava, il falsario sembra riprendere la distinzione tra acusmatici e matematici, tratteggiando un contrasto tra la figura di Liside, pensatore fedele al verbo di Pitagora e depositario dell’indirizzo più autentico del pitagorismo, e Ipparco, icona negativa dell’intellettuale “nuovo”, i cui metodi e principi non differiscono in nulla da quelli dei peggiori sofisti, secondo la contrapposizione sofista-filosofo tipica dell’opera di Platone. Molti altri motivi platonici sono presenti nella lettera, inclusa l’immagine della “tintura preliminare”, necessaria a predisporre le anime ad accogliere la sapienza, chiaramente ripresa dalla Repubblica platonica.24 È interessante osservare che la versione della lettera riportata da Giamblico,25 certamente più tarda, tenta di introdurre alcune allusioni al contenuto degli insegnamenti che Pitagora avrebbe riservato agli iniziati: ad esempio, laddove la prima versione della lettera ammonisce sui danni per l’anima di una prematura iniziazione alle dottrine pitagoriche:

E appunto questo è il metodo di coloro che insegnano e apprendono in questo modo: dense e folte siepi crescono attorno alla mente e al cuore di chi sia stato iniziato in modo impuro, gettando un’ombra su tutto quanto è civile, mite e razionale in esso.

La versione di Giamblico ha invece:

22 Lysis Ep. pp. 111, 16-112, 1.

23 L’opulenza della vita in Sicilia e il suo effetto negativo sulla moralità costituiscono un luogo comune nella letteratura antica. In particolare, nella Lettera VII di Platone questo tema ricorre in riferimento al filosofo; l’autore della lettera racconta di aver ricevuto una pessima impressione al suo primo arrivo sull’isola: infatti, uno stile di vita come quello di chi passa sempre la giornata a banchettare e la notte in compagnia non consentirà mai il raggiungimento della virtù. Si veda Pl. Ep. VII 326 b-c.

24 Lysis Ep. p. 112, 8-12; cf. Rep. 429 d-e.

25 Iambl. VP 75-78. Cf.C. Macris, “Jamblique et la littérature pseudo-pythagoricienne”, … p. 94, n. 68.

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… dense e folte siepi crescono attorno alla mente e al cuore di chi sia stato iniziato alle matematiche in modo impuro …

Più avanti, si trova un riferimento ancora più esplicito al valore catartico delle matematiche: mentre la prima versione del testo afferma:

Occorre pertanto, dopo avere purificato, in primo luogo, le selve in cui si annidano queste passioni, con il ferro e il fuoco e ogni mezzo a disposizione,26 (…) piantare in quel luogo qualcosa che sia eccellente per l’anima, e insegnarglielo.

Nella versione di Giamblico, il ruolo di estirpare le passioni e trasformare la selva incolta dell’anima in terreno fertile e coltivabile è attribuito ai mathemata:

… dopo avere purificato, in primo luogo, le selve in cui si annidano queste passioni, con il ferro e il fuoco e ogni mezzo messo a disposizione dalle matematiche…

È difficile decidere se queste aggiunte siano dovute a qualcuno che voleva sottolineare la connessione tra la vicenda narrata nella lettera e la storia di Ippaso, o se piuttosto non siano frutto di una rilettura neopitagorica, in cui le matematiche non rappresentano tanto il contenuto della dottrina iniziatica, quanto l’iniziazione stessa alla filosofia intesa all’unione con il divino, coerentemente con il pensiero dei Neopitagorici;27 si può ipotizzare che dietro questi ritocchi si celi un critico attento della lettera a Liside interessato a metterla in relazione ad apocrifi più tardi, probabilmente Nicomaco di Gerasa.28 In ogni caso, Giamblico non sembra collegare la storia di Ipparco con la vicenda di Ippaso; ciò suggerisce che egli fosse al corrente di diverse storie analoghe di tradimento e furto di dottrine nell’associazione.

L’importanza storica della lettera di Liside è notevole: si tratta del principale testimone diretto dell’esistenza, nei primi secoli dell’età ellenistica, di gruppi di intellettuali intenti a definire e a rivendicare un’identità pitagorica, che non disdegnavano il ricorso alla creazione di apocrifi a nome di Pitagora, della sua famiglia e degli ultimi rappresentanti dell’associazione. Dalla versione originale della lettera, che non conteneva allusioni alle

26 L’espressione, come ha osservato W. Burkert, “Hellenistische Pseudopythagorica”, … p. 22, è una ripresa quasi letterale di Aristosseno (fr. 17 Wehrli).

27 Cf. e. g. Iambl. De Comm. Math. Sc., p.10 Klein; Procl. In Eucl., p. 22 Friedl.; Su questo motivo del pensiero neoplatonico rimando al classico studio di D. J. O’Meara, Pythagoras revived: Mathematics and philosophy in Late Antiquity, … pp. 79-85.

28 Vedi sopra, p.30 n. 12, e inoltre pp. 144 sgg. Ricordo anche la posizione di Delatte, che pensava che la citazione della lettera in Giamblico fosse parte di un estratto dell’opera di Apollonio di Tiana (A. Delatte.

Études sur la littérature pythagoricienne, … pp. 85-86).

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matematiche, traspare la nostalgia per un sapere puro che è stato ormai profanato ed espropriato, al fine di suscitare riverenza e timore nel lettore degli appunti pitagorici.

La vicenda di Ippaso non è, tuttavia, la sola a cui questi primi “falsari” si richiamano: una sibillina testimonianza dello storico Duride di Samo, vissuto a cavallo tra il IV e il III sec.

a. C., riportata nella Vita di Pitagora di Porfirio, racconta una strana storia che richiama, per molti aspetti, quella di Ippaso:

Duride di Samo, nel secondo libro degli Annali, ricorda un suo figlio (sc. di Pitagora), Arimnesto, e dice che divenne maestro di Democrito. Arimnesto, tornato dall’esilio, avrebbe dedicato al tempio di Era un’offerta votiva in bronzo di quasi due cubiti di diametro, su cui era inciso questo epigramma:

Il caro figlio di Pitagora, Arimnesto mi dedicò Poiché molte sapienze trovò nei rapporti.

L’esperto di armonica Simos, che la distrusse e si appropriò del canone, lo divulgò come una sua idea. Erano sette le “sapienze” incise; a causa di quell’unica, tuttavia, che Simos sottrasse, andarono perdute anche le altre che erano incise sull’offerta.29

Gli Annali di Duride si presentavano come una storia locale di Samo, isola della quale lo stesso storico fu tiranno. La vicenda narrata riguarda un figlio di Pitagora, chiamato Arimnesto, di cui non si hanno altre notizie. È intrigante, anche se implausibile, la notizia dei suoi rapporti con Democrito, indizio della precoce tendenza dei Pitagorici a reclutare tra le loro fila molti dei maggiori filosofi.30 L’accenno all’esilio suggerisce che egli poté tornare in patria, a Samo, dopo la fine dell’esilio scelto dalla famiglia di Pitagora ai tempi

Gli Annali di Duride si presentavano come una storia locale di Samo, isola della quale lo stesso storico fu tiranno. La vicenda narrata riguarda un figlio di Pitagora, chiamato Arimnesto, di cui non si hanno altre notizie. È intrigante, anche se implausibile, la notizia dei suoi rapporti con Democrito, indizio della precoce tendenza dei Pitagorici a reclutare tra le loro fila molti dei maggiori filosofi.30 L’accenno all’esilio suggerisce che egli poté tornare in patria, a Samo, dopo la fine dell’esilio scelto dalla famiglia di Pitagora ai tempi

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