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La sapienza ritrovata

Nel documento DOTTORATO DI RICERCA TITOLO TESI (pagine 155-161)

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3. La sapienza ritrovata

Il Discorso Sacro in prosa dorica e l’Inno al Numero furono oggetto di studio e commento nei circoli neoplatonici a partire da Giamblico:1 i programmi di letture delle scuole neoplatoniche tarde, che necessitavano di integrare Platone e Aristotele con lo studio dei testi degli antichi teologi (primi fra tutti proprio Pitagora e Orfeo), assorbirono questi testi, le cui tracce superstiti si devono esclusivamente ai commentari a Platone e Aristotele prodotti al loro interno. Questi “nuovi” apocrifi andarono ad aggiungersi ai trattati dorici che costituivano un punto di riferimento già agli occhi di Nicomaco, e che erano ugualmente importanti nelle scuole neoplatoniche, come dimostra il richiamo alla loro autorità in ogni ambito della filosofia dei testi neoplatonici.

Gli pseudopythagorica furono un punto di riferimento fondamentale per l’opera di ricostruzione del pensiero pitagorico di Giamblico,2 che individuò nel corpus il più imponente precedente della sua Summa Pitagorica, e che menzionava e commentava questi testi in ogni parte del suo lavoro, nella protrettica,3 in psicologia,4 in teologia,5 in medicina6 e naturalmente in ogni ambito delle matematiche: egli ricorda diversi apocrifi in riferimento alla scoperta della proporzione musicale7 e delle dieci medietà,8 e alla natura del numero.9 Nel suo perduto Commento alle Categorie egli dedicava un ampio

1 Sulla ricezione neoplatonica di questi testi, specialmente in Giamblico, Proclo e Siriano, rimando al recentissimo lavoro di A. Lecerf, “Jamblique source des néoplatoniciens tardifs: le cas du Discours sacré dorien et de l’Hymne au nombre”, in: C. Macris, T. Dorandi, L. Brisson (eds.), Pythagoras Redivivus… pp.

401-446.

2 In generale, sull’impiego degli pseudopythagorica nell’opera di Giamblico, rimando al completo dossier di C. Macris, “Jamblique et la littérature pseudo-pythagoricienne”, … pp. 77-129.

3 Si pensi in particolare al largo impiego del trattato di Archita Sulla Sapienza nell’Esortazione alla Filosofia, di cui Giamblico fornisce un ampio commentario (pp. 16-24 Pist.): sull’esegesi giamblichea di questo trattato si veda P. S. Horky, “Pseudo-Archytas’ Protreptrics? On Wisdom in its Contexts”, … pp.

21-39.

4 Ad esempio, sappiamo che egli citava Ippaso tra coloro che si erano espressi sulla struttura numerica dell’anima nel suo trattato perduto Sull’Anima, ap. Stob. 1.49 pr. 32, p. 364 Wa. = Iambl. De An. fr. 4 Dillon.

5 Sulla sua conoscenza di ben due differenti Discorsi Sacri in prosa di Pitagora, tra cui uno indirizzato ai Latini (in VP 152-156), si veda L. Brisson, “The Making of Pythagoreanism: Orpheus, Aglaophamus, Pythagoras, Plato”, … pp. 45-60.

6 Si veda la citazione giamblichea di Metrodoro in VP 241-243 (vedi Metrodoro, pp. 280 sgg.).

7 Ιambl. In Nicom. Arithm. p. 118 Pist.; vedi Aristeo, p. 223.

8 Iambl. In Nicom. Arithm. p. 116 Pist.; vedi Eufranore e Mionide, pp. 247 sg.

9 Iambl. In Nicom. Arithm. pp. 10-11 Pist.; cf. Filolao (p. 257), Ippaso (p. 273), Pitagora (p. 304). Più complessa è la valutazione delle testimonianze sul Discorso ad Abari, (Iambl. VP 91-93 e 147), su cui rimando a Pitagora, pp. 319 sgg.

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spazio alla definizione del tempo come numero del movimento contenuta nelle Categorie di Archita,10 di cui tentava di ridurre la portata polemica verso la dottrina della sostanzialità del tempo. Soprattutto, nel De Communi Mathematica Scientia egli citava e commentava ampiamente gli scritti dedicati alla linea divisa di Archita e Brotino, a sostegno della sua tesi del fondamento degli oggetti matematici nel mondo ideale.11 La posizione di Giamblico nei confronti degli apocrifi influenzò in modo decisivo gli scolarchi neoplatonici successivi, e Proclo,12 Siriano,13 Simplicio14 avevano questi testi ben presenti; si produssero persino alcuni commenti dedicati, come nel caso del commentario ai Versi Aurei pseudopitagorici di Ierocle.15 Alcuni pseudopythagorica, proprio in ragione della loro relazione speciale con testi centrali nei curricula neoplatonici come il Timeo o le Categorie, non solo si conservarono, laddove altri andarono perduti, ma furono innalzati a vere autorità.16

Gli apocrifi pitagorici non furono avvertiti come una fonte primaria della sapienza degli Antichi solamente nei circoli neoplatonici pagani: anche gli intellettuali cristiani, sin dai primi secoli, ne furono attratti. In generale, l’apologetica cristiana, spesso severamente critica rispetto alla filosofia dei pagani, sembra giudicare in modo molto positivo l’esperienza di Pitagora, e non esita a collocare lui e i suoi discepoli tra i casi di

10 Ap. Simpl. In Categ. pp. 350-352 Kalbfleisch. Si veda Archita, pp. 178 sgg.; e inoltre P. Hoffman,

“Jamblique exégète du pythagoricien Archytas; trois originalités d’une doctrine du temps”, Les études Philosophiques, 1980, pp. 307-323.

11 De Comm. Math. Sc. pp. 34-40 Klein.

12 Le citazioni procliane di Timeo di Locri, che occupa un posto d’onore nel suo Commento al Timeo, sono raccolte e commentate in W. Marg, Timaeus Locrus, De natura mundi et animae, … pp. 91-99; nella stessa opera, del resto, egli ricordava il Discorso ad Abari di Pitagora (Procl. In Tim. 31b, 2 p. 8 D.), e anche Ocello Lucano (In Tim. II p. 73 Diehl).

13 Egli ricorda due volte Timeo di Locri: si veda W. Marg, Timaeus Locrus, De natura mundi et animae,

… pp. 99-102; riporta inoltre i frammenti di Archita e Clinia sulla monade (CAG 6.1 p. 151; p. 168 Kroll), cita Filolao e Ippaso sul numero (pp. 123, 142 Kroll), esprime ammirazione per l’opera di Proro (p. 192 Kroll), e cita copiosamente il Discorso Sacro e l’Inno al Numero. In generale, egli fa degli apocrifi pitagorici un sistematico impiego per confutare, anche da un punto di vista storico-filosofico, la posizione di Aristotele sul pitagorismo.

14 Si vedano, sul rapporto tra Simplicio e gli apocrifi, due studi di M. A. Gavray: “Archytas lu par Simplicius: un art de la conciliation”, The International Journal of the Platonic Tradition 5 (1), 2011, pp.

85-158; e più di recente “De l’usage d’une autorité: Timée de Locres et Simplicius”, in: C. Macris, T.

Dorandi, L. Brisson (eds.), Pythagoras Redivivus, … pp. 447-474.

15 Penso in particolare a Hierocles In Carm. Aur. vv. 47-48, in cui il Discorso Sacro, interpretato in termini neoplatonici, era richiamato per l’esegesi del Giuramento pitagorico. Si veda Pitagora, pp. 312 sg.

16 Particolarmente significativo è il caso di Timeo di Locri, sulla cui importanza per i commentatori neoplatonici del Timeo rimando alle osservazioni di A. Ulacco, “The Creation of Authority in Pseudo-Pythagorean Texts and Their Reception in Late Ancient Philosophy”, … pp. 183-214.

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prefigurazione pagana delle dottrine cristiane, come nel caso di Atenagora,17 o piuttosto tra i casi di dipendenza del sapere dei Greci dalle Scritture, come negli scritti erroneamente attribuiti a Giustino martire:in entrambi i casi, gli elogi della monade sono chiaramente da intendere come allusioni all’unicità di Dio; i simboli e la numerologia dei Pitagorici sono passibili d’interpretazione allegorica, e somigliano in modo impressionante alla Scrittura nel loro modo di celare dietro simboli ed enigmi le verità della fede. D’altra parte esistettero forse alcuni apocrifi pitagorici, di cui sappiamo pochissimo, destinati a corroborare una lettura giudaico-cristiana del pensiero pitagorico:

in particolare, possediamo un frammento di un poema di Pitagora che conteneva un argomento in favore dell’unicità e immanenza di Dio al cosmo, e un frammento di prosa che ribadisce l’unicità di Dio, entrambi citati nel corpus dello Ps. Giustino.18 La produzione di questi testi rientrava forse in un programma di produzione di scritti degli antichi teologi, primo tra tutti Orfeo, in cui erano difese tesi monoteiste,19 al fine di dimostrare la loro dipendenza dalla Scrittura; c’è però disaccordo, nella critica moderna, se simili apocrifi siano stati effettivamente falsificati in un milieu giudaico-cristiano, o se non siano stati piuttosto apocrifi non caratterizzati in senso monoteistico, oggetto di una successiva appropriazione da parte degli intellettuali cristiani.20

Il più importante testimone della critica cristiana alla cultura filosofica pagana è forse Clemente Alessandrino, i cui severi giudizi verranno poi ripresi anche nella Praeparatio Evangelica di Eusebio di Cesarea.21 Dobbiamo a Clemente la prima, articolata

17 Athenag., pro Christ. VI, p. 6, 15 Schwartz: egli citava Opsimo e Liside tra i precursori pagani del monoteismo (vedi p. 275).

18 Ps. Iustin. Mart. Cohort. ad Graec. XIX 1-2; cf. De Monarch. II 2; si veda, sulla presenza di Pitagora in questo autore, L. Arcari, “Reinventing the Pythagorean Tradition in Pseudo-Justin's Cohortatio ad Graecos”, in: A.-B. Renger, A. Stavru (eds.), Pythagorean Knowledge from the Ancient to the Modern World: Askesis, Religion, Science, Harrassowitz Verlag, Wiesbaden 2016, pp. 185-198. Vedi inoltre Pitagora, pp. 335 sgg.

19 In particolare il Testamento orfico (frr. 245-247 Kern) era un poema attribuito a Orfeo, il quale ammetteva l’errore del politeismo e insegnava all’allievo Museo (forse identificato con Mosè?) la verità sull’unico Dio. Si vedano in proposito M. L. West, The Orphic Poems, … pp. 33-35, e F. Jourdan, Poème Judéo-Hellénistique Attribué à Orphée: Production Juive Et Réception Chrétienne, Les Belles Lettres, Paris, 2010, pp. 26-55.

20 Questa è, in particolare, la posizione di C. Riedweg,Ps.-Justin (Markell von Anckyra?) Ad Graecos de Vera Religione (bisher “Cohortatio ad Graecos”), Teil II,Reinhardt Verlag, Basel, 1994, pp. 360-368. Mi sembra però, nonostante i paralleli con altri pseudopythagorica addotti da Riedweg, che essi fossero differenti dagli pseudopythagorica dorici che conosciamo grazie a Stobeo, i quali presentano una posizione opposta sul problema dell’unicità di Dio.

21 Cf. e. g. Euseb. Praep. Ev. X. 4.

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esposizione della teoria, che susciterà qualche seguito e tante polemiche nella scholarship americana del secolo scorso, secondo cui quasi ogni singola idea e conquista intellettuale e scientifica della grecità sarebbe in realtà un furto (e non, si badi, una ripresa o un debito) rispetto alla proprietà intellettuale di altri popoli, e dell’Egitto in particolare.

Che l’anima sia immortale, Platone l’ha pescato da Pitagora, e questi dagli Egizi. (…) Ma per ora basta così: non mi basterebbe una vita intera, infatti, se mi mettessi a far vendetta di ciascuna cosa, mettendo sotto accusa il furto egoista dei Greci, e come essi si siano in realtà appropriati della scoperta di quegli insegnamenti che sono i più belli presso di loro, e che hanno preso, in realtà, da noi (sc. Egizi).22

Clemente si avvale con martellante insistenza del termine klopè, e anche del verbo spheterizesthai, per descrivere questa operazione, impiegando proprio il lessico coniato nell’età ellenistica per riferirsi al saccheggio della dottrina di Pitagora.23 Curiosamente, però, Pitagora, al contrario di altri pensatori e al pari di Orfeo, non compare quasi mai nella veste di un ladro, e Clemente sembra accogliere la notizia delle sue origini fenicie, pur ripetendo le antiche accuse di plagio della dottrina egiziana riguardo l’anima.

Clemente fa un largo impiego di apocrifi pitagorici, di cui doveva possedere una raccolta, e sembra considerare questi testi come fonti autorevoli: il Pitagorico Atamante di Posidonia sarebbe stato, secondo Clemente, plagiato da Empedocle;24 egli leggeva l’opera di Androcide, insieme con altre raccolte e commentari ai simboli pitagorici, e si mostrava molto interessato alla propensione dei Pitagorici per l’allegoresi;25 ricordava, inoltre, la leggenda di Ippaso/Ipparco, immaginando che la causa della damnatio memoriae in cui costui era incorso fosse stata proprio la divulgazione di uno scritto.26 Egli ricordava anche due apocrifi, altrimenti ignoti, di Timeo di Locri e Tearida,27 due testi forse simili al De Harmonia di Aristeo, e li invocava a sostegno della tesi dell’unicità del principio (anche se in realtà essi difendevano, con ogni probabilità, la tesi dell’eternità del mondo); d’altro

22 Clem. Strom. VI 27, 2-5.

23 Si pensi al linguaggio usato per descrivere le vicende di Simos, Empedocle ed Enopide: vedi e. g. pp. 38, 42, 47.

24 Clem. Strom. VI 17, 3 = Athamas, p. 54, 11-17.

25 Clem. Strom. V 45, 2-3; cf. Androcide, p. 171; e per gli altri passi dedicati ai simboli e a Pitagora in Clemente rimando a O. Stählin, Clemens Alexandrinus, Band IV, Register, J. C. Hinrichs, Leipzig, 1936, pp. 170-172.

26 Strom. V 58; vedi Ippaso, p. 272.

27 Timaeus Locrus ap. Strom. V 115, 4; un riutilizzo cristiano del frammento si trova anche in Euseb. Praep.

Ev. XIII 13, 42; ThearidasDe Nat. p. 201, 16-18. Entrambi i frammenti sono esaminati nel commento a Timeo di Locri, p. 377.

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canto, nel Protrettico, egli si rifaceva, in difesa della medesima tesi, al frammento monoteistico di Pitagora che ho menzionato in precedenza.28 Anche in campo etico egli menzionava come autorità alcuni trattati dorici: ricordava, ad esempio, le tesi sul piacere di Ippodamo29 e l’opinione di Teano sull’immortalità dell’anima;30 ma l’esempio più significativo di ciò che gli apocrifi pitagorici rappresentano per Clemente è forse la sua citazione del trattato Sulla Sorte di Euriso, a proposito della creazione dell’uomo:31

Invero, laddove la Scrittura dice “faremo l’uomo a nostra immagine e somiglianza”, mi pare sia degna di affiancarla anche la voce del Pitagorico Euriso, che nello scritto Sulla Sorte argomentò dicendo che il demiurgo ha fatto l’uomo servendosi di se stesso come modello:

“l’involucro (i.e. il corpo) è simile al resto, in quanto generato dalla medesima materia, e modellato dal migliore degli artigiani, che lo ha foggiato servendosi di se stesso come archetipo”.32

Può apparire sorprendente che Clemente accosti alla Genesi, anziché il Timeo di Platone, il frammento di Euriso, definendolo degno del paragone; ma egli ha alcune buone ragioni per preferire questo testo: innanzitutto, mentre nel Timeo l’identità tra l’artigiano e il paradigma è tutt’altro che esplicita, Euriso si è ormai adeguato all’interpretazione medioplatonica del dialogo, ed enuncia chiaramente quello che per i platonici del suo tempo è un punto fondamentale per la comprensione del Timeo: il demiurgo è Dio, e coincide con il paradigma stesso; l’uomo è l’essere più perfetto e simile a Dio, quindi è la più fedele riproduzione sensibile del paradigma divino.33 In secondo luogo, questa maggiore limpidezza di Euriso rispetto a Platone su una questione così importante appare preferibile a Clemente in quanto espressione di una maggiore antichità, e dunque di una purezza originaria della dottrina pitagorica, che è andata inevitabilmente incontro a

28 Protr. VI, p. 55, 7-15 Stählin.

29 Strom. II 102, 1.

30 Ibid. IV 44, 2.

31 H. Thesleff (The Pythagorean Texts of the Hellenistic Period, … pp. 87-88), che corregge il nome dell’autore di questo trattato in Eurito (certamente il personaggio storico a cui l’attribuzione si riferisce), tiene però conto solo dell’occorrenza del nome in Stobeo, nell’unico altro frammento superstite; in realtà l’accordo tra Clemente e Stobeo nel riportare la forma Eurysos mi porta a pensare che essa fosse l’attribuzione apocrifa originale, e che debba essere conservata. Clemente, forse, attribuisce il frammento a Euriso in modo erroneo: il suo testo coincide in effetti alla perfezione con Ekphantos De Regn. p. 80, 2-4.

32 Clem. Strom. V 29, 1-3= Eurysus fr. 1 Mullach, Fr. Phil. Graec. II p. 112.

33 Tra la moltissima bibliografia disponibile su questi problemi, mi limito a rimandare alla bella e sintetica esposizione dedicata alla “teologizzazione” dell’ontologia medioplatonica di F. Ferrari, “Metafisica e Teologia nel Medioplatonismo”, Rivista di Storia della Filosofia 7, 2015, pp. 321-337.

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corruzione in Platone e nei suoi epigoni. Questa purezza non è solo suggerita, ma provata dall’affinità con la Scrittura, testimonianza più autentica della rivelazione divina: la sapienza ritrovata di Pitagora e dei suoi epigoni, faticosamente ricostruita e restituita dagli amanti del sapere dopo secoli di furti, inganni, falsificazioni e travisamenti, ha finalmente ripreso il posto che le spetta di diritto tra i testi autorevoli da cui sgorga la sapienza divina dei dogmata della filosofia.

A. Pitagora: alchimia, divinazione, astrologia

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APPENDICE

MATEMATICHE E APOCRIFI PITAGORICI ALLA FINE DELL’ANTICHITÀ E OLTRE Sebbene per ragioni di tempo e spazio abbia limitato la mia indagine al materiale disponibile ai primi pensatori neoplatonici, che presumibilmente costituiva un corpus pienamente formato già nel II sec. della nostra era, la produzione degli apocrifi non si è certo arrestata nella tarda Antichità, né in pieno Medioevo, e alcuni episodi di quel capitolo della storia della pseudepigrafia pitagorica meritano di essere ricordati in questo lavoro: ho scelto di menzionare brevemente in questa appendice alcuni dei moltissimi testi dedicati alla mantica mediante i numeri, all’alchimia, all’astrologia, ai fondamenti dell’aritmetica, della geometria e dell’astronomia attribuiti a Pitagora e ai Pitagorici nei secoli della tarda Antichità e del Medioevo; si tratta di materiale, di cui questa breve incursione mira solamente a dare un’idea generale, poco studiato e in gran parte inedito. Thesleff, nella sua raccolta, pone quasi tutte le opere alchemiche, divinatorie e astrologiche di Pitagora tra i testi postellenistici;1 sono solo in parte giustificate le riserve a riguardo di Van der Waerden,2 che vide forse nella scelta di Thesleff un atteggiamento pregiudiziale verso questi testi che, per via del loro contenuto, erano relegati nei recessi polverosi di un’epoca “oscura”. In realtà, anche se, come si dirà, già in età ellenistica e imperiale era vivissimo l’interesse per le pratiche astrologiche, alchemiche e divinatorie dei Pitagorici, la maggior parte dei testimoni che, per esigenze di spazio e tempo, ci limiteremo a elencare rapidamente, coprendo colpevolmente secoli di storia nello spazio di poche righe, appartengono effettivamente ai secoli della tarda Antichità e dell’Alto Medioevo.

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