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A scuola con Pitagora: Pitagorici e pseudepigrafia nella manualistica tardoantica e medievale

Nel documento DOTTORATO DI RICERCA TITOLO TESI (pagine 165-0)

Alcuni testimoni tardi sembrano ritenere che Pitagora sia stato il primo autore di un’Ars Arithmetica; Isidoro di Siviglia, ad esempio, afferma nelle sue Origines:

Numeri disciplinam apud Graecos primum Pythagoram autumant conscripsisse, ac deinde a Nicomacho diffusius esse dispositam.1

Questa notizia appare molto generica, e potrebbe riferirsi a un apocrifo tra quelli a noi già noti o essere frutto di un fraintendimento; non è detto che Isidoro conoscesse effettivamente un simile scritto. Tuttavia, alcune fonti arabe riportano, tra gli elenchi di opere di Pitagora, uno scritto Sull’Aritmetica, e una volta anche uno Sulla Musica;2 pertanto, è possibile che esistesse una simile compilazione.

È possibile che la letteratura apocrifa fosse in qualche modo coinvolta in un’altra testimonianza su Archita e i Pitagorici che contiene alcuni vistosi anacronismi: nell’Ars Geometrica dello Ps.

Boezio, in realtà un compendio latino di geometria e aritmetica risalente forse all’XI sec., troviamo una sorprendente testimonianza su Archita:

Sed iam tempus est ad geometricalis mensae traditionem ab Archita, non sordido huius disciplinae auctore, Latio accommodatam uenire (…).3

Come si chiarirà più avanti, l’autore ritiene che la mensa, che corrisponde all’abaco, sia un’invenzione pitagorica: ad Archita egli attribuisce una esposizione in lingua latina del metodo,4 mostrando peraltro una certa confusione cronologica. Potrebbe sembrare che lo Ps.

Boezio abbia voluto semplicemente utilizzare il nome di Archita per nobilitare l’invenzione dell’abaco, ma l’inusuale ruolo di traduttore a cui egli viene relegato in questo caso porta a chiedersi se egli non conoscesse una tarda compilazione apocrifa latina circolante sotto il nome di Archita. L’abaco in questione è ampiamente illustrato come un’invenzione pitagorica nelle

1 Isidor. Orig. III 2. Cf.Io. Malalas 67A; Kedrenos 138D, 156B.

2 Non ho potuto consultare le fonti arabe: rimando alla notizia di B. L. van der Waerden, “Pythagoras”, RE suppl.

X, 1965, coll. 857, 863.

3 Ps. Boeth Geom. p. 393, 6-8 Friedl.

4 Non mi pare accettabile, come ha già rilevato Huffman (Archytas of Tarentum, … p. 610), la soluzione di Timpanaro Cardini (Pitagorici Antichi. Testimonianze e frammenti, … pp. 564-565): ella ritiene che la fonte di Ps.

Boezio, per quanto fraintesa, sia in realtà antica (forse neopitagorica), e che contenga materiale utile alla ricostruzione del pensiero di Archita; nella sua traduzione, geometricalis mensae traditionem ab Archita è reso, in modo alquanto problematico, con “la tavola geometrica tramandata da Archita”, ma ab Archita è chiaramente da riferirsi a Latio accommodatam, che non è una descrizione dell’operazione dello Ps. Boezio, ma di Archita stesso.

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platonica dei numeri;5 a costoro viene attribuita non solo l’intera procedura per eseguire moltiplicazioni e divisioni con l’abaco, ma persino l’invenzione di certi segni, detti apices, che altro non sono che l’antenato delle moderne cifre indo-arabe da 1 a 9. 6 La somiglianza dell’abaco in questione con quello elaborato da Gerberto d’Aurillac nel X sec. è stata già rilevata dagli studiosi,7 e dimostra che il bisogno di fare riferimento all’autorità dei Pitagorici in relazione a procedimenti matematici che erano avvertiti come fondamentali, anche se non avevano nulla a che vedere con le matematiche degli Antichi, era decisamente vivo in ambito scolastico in pieno Medioevo latino.8 Peraltro, alla fine del trattato lo Ps. Boezio, accennando a questioni di metretica, ricorre ancora a una “esposizione” di Archita, una “figura meravigliosa e necessaria a quest’arte e alle altre discipline matematiche”:9 si tratta di una tavola per la conversione di unità di misura della lunghezza, che vanno a costituire un bizzarro sistema decimale dei “Greci”, con nomi di misure presi in prestito dagli ambiti del peso e della capacità.10 Nonostante l’anacronismo del sistema attribuito ai Pitagorici, l’autore premette un’interessante considerazione storico-filosofica:

Ueteres igitur geometricae artis indagatores subtilissimi, maximeque Pythagorici, cum omnia certis mensurarum dividentes rationibus ad ea, quae natura renueret diuidi et secari, usque peruenirent, ingenio praesignante ea, quae naturaliter erant indiuisibilia, positis notis nominibusque datis dispertiere.11

Secondo lo Ps. Boezio, il sistema di misura in base decimale elaborato dai Pitagorici ed esposto da Archita è il frutto più maturo della loro indagine sui minima, e della loro ricerca di grandezze indivisibili per natura: è evidente l’allusione al campo musicale e all’indagine sugli intervalli minimi portata avanti per mezzo del canone, nonché al problema delle “linee indivisibili”.12

5 Ps. Boeth. Geom. p. 395, 25-29 Friedl.

6 Ibid. p. 397 Friedl.; si veda inoltre, ad loc., la tavola che riporta la rappresentazione dell’abaco “pitagorico”, così come compare nei manoscritti (si veda anche, e. g., quella del Vat. Lat. 3123 73v, disponibile online:

https://digi.vatlib.it/view/MSS_Vat.lat.3123).

7 Si veda M. Folkerts, “Boethius” Geometrie II: Ein Mathematisches Lehrbuch des Mittelalters … p. 89.

8 Si veda in proposito W. Burkert, Lore and Science in Ancient Pythagoreanism, … p. 407, che ritiene che proprio questo atteggiamento dell’ambiente scolastico in età tardoantica e medievale abbia determinato una distorsione decisiva dell’immagine delle discipline matematiche antiche.

9 Ps. Boeth. Geom. p. 425, 18-24 Friedl.

10 Ibid. pp. 425-428; si veda la figura a p. 427 Friedl. (cf. e. g. Vat. Lat. 3123 83v).

11 Ps. Boeth. Geom. p. 425, 26-31 Friedl.

12 Sulla possibilità che la questione fosse trattata in un apocrifo tardo attribuito a Ippaso, si veda Ippaso, pp. 272 sg.

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Lo Ps. Boezio pare conoscere, infine, una trattazione di Archita di problemi dedicati ai triangoli, nella sezione in cui affronta le dimostrazioni relative alle specie di triangolo nell’ordine delle definizioni euclidee,13 in cui ben tre “soluzioni” di Archita sono presenti: questo materiale è di grande interesse, e giunge probabilmente allo Ps. Boezio attraverso l’intricato e stratificato corpus dei commenti a Euclide. Mentre un procedimento volto a trovare il diametro di un cerchio inscritto in un triangolo rettangolo e un metodo per il calcolo dell’area di un triangolo ottusangolo sono stati giustamente riconosciuti come monstra della geometria,14 un metodo per individuare triangoli rettangoli i cui rapporti tra i lati siano esprimibili mediante numeri naturali partendo da un cateto corrispondente a un numero pari15 ha invece riscontro nei commenti neoplatonici agli Elementi,16 e in particolare a Elem. I 47 (il nostro “teorema di Pitagora”). In Proclo e in Ps. Erone, tuttavia, questo metodo è attribuito a Platone, e appare complementare a un metodo simile che viene attribuito a Pitagora, e che a differenza di questo prende un cateto iniziale corrispondente a un numero dispari.17 L’attribuzione ad Archita del metodo “di Platone” da parte di Ps. Boezio segna un passo definitivo nell’affermazione della vulgata che s’imporrà sino alla scuola contemporanea, consacrando il “teorema di Pitagora” al genio della scuola del Maestro.

Anche in campo astronomico, l’autorità dei Pitagorici resta viva in ambito scolastico per gran parte della tarda Antichità e del Medioevo: un manuale astronomico greco tardo, di difficile datazione, pervenutoci in quattro libri, in un solo manoscritto della Biblioteca Ambrosiana sotto il titolo Teoria circolare degli oggetti celesti di Archytas Maximos (sic!),18 costituisce un buon esempio di compilazione apocrifa tarda; quest’opera, conservata in attico con sporadiche forme doriche (e. g. ἅτερος, l. 49 Elter) rimane ad oggi in gran parte inedita,19 e l’autore, in ogni caso, non sembra avere particolari preoccupazioni legate al contesto fittizio, dato che menziona i Meteorologica di Aristotele nelle prime righe (l. 60 Elter); egli procede fornendo una serie di definizioni che segue un ordine canonico per gli zētēmata astronomici, e il suo

13 Eucl. Elem. I def. 20-21.

14 Ps. Boeth. Geom. pp. 412-414 Friedl.; cf. il giudizio di M. Timpanaro Cardini, Pitagorici Antichi, … p. 565.

15 Ps. Boeth. Geom. p. 408, 15-25 Friedl.

16 Procl. In Eucl. Elem. pp. 428-429 Friedl.; Ps. Her. Geom. pp. 220-222 Heiberg.

17 Per un confronto e una spiegazione sui procedimenti di Platone e Pitagora rinvio a M. Timpanaro Cardini, Pitagorici Antichi, … pp. 566-569.

18 D 27 sup., ff. 81r-115r. Cf. Cat. Codd. Astr. Graec. III, E. Martini-D. Bassi, Codices Mediolanenses, p. 11. Si veda, su questo testo, anche C. A. Huffman, Archytas of Tarentum, … pp. 614-615.

19 Solo l’inizio dello scritto è stato trascritto (ma senza apparato critico) da A. Elter, Analecta Graeca, Ex Caroli Georgi typographe academico, Bonnae, 1899, pp. 45-48.

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divisione del cosmo in zona dei quattro elementi, al disotto della Luna, e zona dell’etere, la quintessenza, di cui sono formate le sfere celesti.

Riporto la traduzione del sommario dell’opera, per dare un’idea dei suoi contenuti:

Giacché vogliamo occuparci di ciò che riguarda la sfera, potremmo dividere la materia in quattro capitoli nel modo seguente; ed ecco cosa diremo:

Nel primo, cosa sia la sfera, cosa il suo centro, cosa l’asse della sfera e cosa il polo; e inoltre quante siano le sfere, e quale la forma del cosmo.

Nel secondo si parlerà dei cerchi di cui questa sfera è composta, e di come quella, manifestamente iperurania, che ha la sua copia sensibile in essa, sia pensata come composta a sua volta.

Nel terzo, si tratterà dei periodi di visibilità e delle calate dei segni zodiacali, dell’ineguaglianza dei giorni e delle notti, e della divisione in fasce (sc. della Terra).

Nel quarto, si parlerà dei circoli e del moto degli astri erranti, e delle cause delle eclissi.21

Assai simile per organizzazione e contenuti è il Logos Tritos attribuito a Pitagora, conservato in un codice della Biblioteca Nacional a Madrid,22 che si presenta anch’esso come un compendio ordinato per zētēmata sulla struttura del cosmo, concluso da un capitolo dedicato al nous. Anche in questo caso, sembra che l’autore non abbia preoccupazioni legate alla pseudepigrafia, e cita persino Tolomeo trattando delle dimensioni del Sole;23 forse l’attribuzione, peraltro contesa tra Pitagora e Simeone Seth,24 è semplicemente dovuta alla generica idea che esistesse un discorso “segreto” di Pitagora sul cosmo, il “terzo discorso” del Tripartitum ellenistico, coincidente con il Physikon syngramma.25 Anche di questo testo riporto il sommario:

Terzo discorso del filosofo Pitagora, in 17 capitoli:

1. Sui corpi celesti e sul cosmo.

2. Sulla figura del cielo.

3. Se il cosmo sia animato e governato dalla provvidenza.

4. Se il cosmo sia incorruttibile.

5. Se il cielo si alimenti.

6. Sull’ordinamento del cosmo.

7. Sui cerchi oggetto d’intellezione nel cielo.

20 Archytas Maximos ripropone, ad esempio, la distinzione dell’elemento terra rispetto agli altri, che sono in perenne movimento, come giustificazione per l’immobilità della Terra al centro del cosmo: cf. Timeo di Locri, pp.

401 sg.

21 Archytas Maximos, ll. 4-17 Elter.

22 Cod. Matrit. Bibl. Nat. 4616, ff. 66r-74v; si veda il sommario in C. O. Zuretti, CCAG XI.2, … pp. 55-57.

23 F. 70v.

24 Quest’ultima attribuzione fu dedotta dall’umanista Costantinos Lascaris, come nota Zuretti, CCAG XI.2, … p.

55.

25 H. Thesleff, The Pythagorean Texts of the Hellenistic Period, … p. 245.

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167 8. Quale sia la sostanza degli astri.

9. Sulla figura degli astri.

10. Sul moto circolare degli astri.

11. Da dove gli astri traggano la luce.

12. Come abbiano luogo le quattro stagioni.

13. Sulle dimensioni e la figura del Sole.

14. Sull’eclissi di Sole.

15. Sulla sostanza e l’illuminazione della Luna, e sulla sua figura.

16. Sull’eclissi di Luna.

17. Sul Nous.26

26 F. 66r.

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Parte II

Testi e commento

TESTI E COMMENTO

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NOTA AI TESTI

Nella seconda parte del volume è inclusa un’ampia selezione di testi delle epoche prese in esame, che appartengono a vario titolo alla letteratura apocrifa pitagorica. Come si vedrà, pur mantenendo come edizione di riferimento quella di Holger Thesleff, a cui si riferiscono i numeri di pagina, le abbreviazioni e i nomi degli autori fittizi, quando non specificato altrimenti, ho ritenuto necessario aggiungere molto materiale da lui escluso; in questi casi mi sono premurato di segnalare sempre l’edizione di riferimento da cui il testo è tratto. Non ho fatto riferimento alla numerazione assegnata da me ai frammenti, se non nel caso in cui la numerazione di Thesleff non fosse disponibile (è il caso, ad esempio, dello scritto Sulla Decade di Filolao).

Non rientrando nei fini di questo lavoro un’edizione critica dei testi presi in esame, anche per il testo ho fatto in primo luogo riferimento all’edizione di Thesleff; questa, tuttavia, non era a sua volta un’edizione critica vera e propria, ma riportava apparati di edizioni precedenti, spesso in modo sommario e impreciso. Sarebbe auspicabile un massiccio lavoro complessivo di riedizione di questi testi, viste le inadeguatezze della raccolta di Thesleff su questo fronte, che talvolta sono anche piuttosto gravi e fuorvianti; da parte mia ho tentato, secondo le mie modeste capacità e conoscenze, di segnalare in nota ogni passo che presenta problemi testuali rilevanti per l’interpretazione, di render ragione di ogni caso in cui ho ritenuto opportuno divergere dal testo proposto da Thesleff e di tenere conto di alcune delle varianti testuali più rilevanti ai fini del commento.

La raccolta è organizzata per nomi e opere: gli autori fittizi sono presentati in ordine alfabetico e i frammenti e le testimonianze raggruppati, ove possibile, in base all’opera da cui sono tratti;

gli autori fittizi sono sempre indicati semplicemente con il loro nome, senza prefissi quali “Ps.”

o “pseudo”, eccetto nei casi in cui occorra distinguerli dalle figure storiche corrispondenti (indicate in genere con espressioni quali “il Filolao storico”, “l’Archita storico” etc.).

Ovviamente, quest’organizzazione è puramente convenzionale e ideale e difficilmente rispecchierà la condizione reale di questa letteratura nell’Antichità: talvolta è altamente congetturale la ricostruzione stessa di uno scritto mediante la raccolta di testimonianze e frammenti omogenei, come nel caso dei testi Sulla Decade di Archita e Filolao.

Ciascun testo è accompagnato da un breve commento, in cui si tenta un inquadramento letterario e storico-filosofico. Data la natura frammentaria della maggior parte del materiale, le ricostruzioni e le interpretazioni proposte sono spesso congetture, che si riveleranno erronee a occhi più esperti del mio; mi riterrò soddisfatto se anche una minima parte di esse potrà, se non costituire un piccolo passo in direzione della verità, almeno accendere l’interesse di altri nel ricercarla.

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ANDROCIDE

Sui Simboli Pitagorici1

La notizia più antica su questa figura si trova nella Historia Plantarum di Teofrasto, in relazione alle proprietà di alcune piante aromatiche rispetto alla vite:2 il suo nome ricorre, sempre legato alla tematica del vino, anche in Plinio.3 Nella sezione della Naturalis Historia dedicata al vino, egli racconta di un certo Androcide, medico contemporaneo di Alessandro Magno, che avrebbe scritto una lettera al condottiero in persona per metterlo in guardia contro gli eccessi dell’ubriachezza: “quando stai per bere il vino, o re, ricorda che bevi il sangue della terra. La cicuta è un veleno per l’uomo, ma il vino lo è per la cicuta”. Questa lettera, di carattere chiaramente pseudepigrafo, ha indotto gli studiosi a ritenere che Androcide stesso fosse una figura fittizia;4 in realtà è possibile che Androcide non sia mai esistito, o che l’Androcide medico e botanico ricordato da Teofrasto abbia ispirato successive falsificazioni. L’opera di “Androcide”, spesso ricordato come “pitagorico” dalle fonti, che ebbe maggior successo nell’Antichità non è la sua lettera sul vino, opera relativamente antica, e risalente persino al primo ellenismo, se accettiamo l’ipotesi che ad essa si riferisse Teofrasto, ma è una raccolta dal titolo Περὶ τῶν συμβόλων, sicuramente successiva, il cui oggetto sembra essere stato in particolare l’interpretazione degli akousmata pitagorici. Sappiamo grazie al trattato di retorica di Trifone5 che Androcide intendeva gli akousmata come enigmi, che veicolavano insegnamenti morali, posti in una forma oscura e allusiva per garantire che essi rimanessero all’interno della scuola. L’opera di Androcide si colloca chiaramente nel solco di quella tradizione che, a partire da Aristosseno e dall’Accademia antica,6 tentò di costruire un’interpretazione razionalizzante del pitagorismo antico e dei suoi dogmi, interpretazione che verrà poi respinta, ad esempio, da Giamblico.7 Essa non era l’unica nell’Antichità a portare il titolo Sui Simboli:

simili esegesi allegoriche degli akousmata furono scritte da Anassimandro il Giovane, che a quanto pare applicava lo stesso metodo all’esegesi dei poemi omerici, probabilmente riprendendo il lavoro di Teagene di Reggio, e dal grammatico Alessandro di Mileto.8 Burkert, tuttavia, ha osservato che il

1Sul titolo dell’opera e gli altri autori che hanno composto Simboli W. Burkert, Lore and Science in Ancient Pythagoreanism, … p. 166-167; è Giamblico, VP 145, a citare il titolo dell’opera di Androcide per esteso, mentre nelle altre fonti in genere si usa la forma breve Περὶ συμβόλων.

2Theophr. Hist. Pl. IV 16, 6.

3 NH XIV, 58; cf. XVII, 240. Certamente si riferisce alla lettera anche la menzione in Clem. Strom. VII p. 850 P.

4Di questa opinione è B. Centrone, “Androcyde”, DPhA 1, 1989, pp. 197-198; e inoltre H. Diels, Die Fragmente der Vorsokratiker, vol. I … p. 465; W. Burkert, Lore and Science in Ancient Pythagoreanism, … p. 167; cf. anche H. Thesleff, The Pythagorean Texts of the Hellenistic Period, … p. 170. J. Freudenthal, “Androkydes”, RE I 2, 1894, pp. 2149-2150, fu propenso a credere all’esistenza di un vero Androcide che pubblica a proprio nome.

5Tryphon Rhet. Graec. III 193f Spengel.

6Si vedano le pp. 68 sg., 97 sgg. Cf. su questo P. S. Horky, “Approaches to the Pythagorean Acusmata in the Early Academy”, in P. Kalligas et al. (eds.), Plato's Academy: Its Workings and its History, Cambridge University Press, Cambridge, 2020, pp. 167-187.

7 In Iambl. VP 86 si afferma che le interpretazioni razionalizzanti degli akousmata furono aggiunte successivamente da persone “che non erano veri Pitagorici”; si assume comunemente che il materiale di questa sezione della Vita di Pitagora sia tratto dal lavoro Sui Pitagorici di Aristotele.

8 Il fatto che tra le opere di Alessandro di Mileto appaia un Περὶ συμβόλων è interessante, dal momento che è proprio lui l’autore dell’epitome di alcuni hypomnemata pitagorici che Diogene Laerzio riporta nel libro VIII della sua opera; nel cosiddetto “Anonimo di Alessandro” la presenza degli akousmata è costante e pervasiva, anche nelle sezioni apparentemente dottrinali, e sospetto che l’epitome di Alessandro si riferisca proprio a un lavoro che

ANDROCIDE

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modello interpretativo di Androcide, che procede come a risolvere “enigmi”, sembra differire leggermente da quello allegorico di Anassimandro, e che è probabilmente posteriore ad esso,9 e porta ad esempio le soluzioni che di questi indovinelli proponeva Plutarco, soluzioni che trovano un parziale riscontro nella testimonianza di Trifone, e che potrebbero risalire ad Androcide:10 sua, ad esempio, potrebbe essere la celebre spiegazione del divieto di mangiare le fave, in quanto venivano utilizzate per i sorteggi in democrazia.11 Giamblico, nella Vita di Pitagora,12 cita Androcide come fonte di un aneddoto su Timarida di Paro, che avrebbe espresso la sua fede nella provvidenza: egli, in un frangente difficile della sua vita, avrebbe risposto, a qualcuno che gli aveva augurato che gli dèi potessero concedergli ciò che desiderava, “piuttosto possa io volere tutto ciò che venga dagli dèi”. Ciò suggerisce che l’opera di Androcide non raccogliesse solamente akousmata, ma anche detti di Pitagorici famosi, anch’essi contestualizzati e interpretati. Un’ulteriore prova della varietà di argomenti trattati nell’opera di Androcide ci viene da una testimonianza di Clemente Alessandrino, da cui si apprende che egli tentava anche un’interpretazione delle lettere efesie, sei parole “magiche” dal significato misterioso che venivano incise sugli amuleti (Ἄσκιον, Κατάσκιον, Λίξ, Τετράξ, Δαμναμενεύς, Αἴσια).13

Androcide intendeva queste parole e il loro ordine come un symbolon dell’ordine del mondo stabilito dalla divinità, comprendente rispettivamente la tenebra, la luce, la terra, l’anno scandito dalle quattro stagioni, il Sole e la verità.16

commentava in chiave razionalistica alcuni akousmata. Per un esame della questione si rimanda ad Anonimo di Alessandro, pp. 347 sg.

9W. Burkert, Lore and Science in Ancient Pythagoreanism, … pp. 174-175.

10Plut. De Liber. Educ. 12 D-E. Forse sono da porre in relazione con Androcide anche i resoconti sugli akousmata in DL VIII 17 e Plut. Quaest. Conv. VIII 7.

11 Si tratta di una spiegazione derivante dalla tradizione che dipingeva i Pitagorici come avversari della democrazia;

cf, e. g. Aristotele, Sui Pitagorici, fr. 195 Rose = DL VIII 34.

12VP 145.

13A questo proposito, la lamina plumbea di Falassarna (Creta), un amuleto apotropaico del IV sec. a. C., su cui compaiono le “lettere” di Androcide, testimonia l’antichità dell’uso di queste formule; cf. M. Guarducci, Inscriptiones Creticae II 19, 7, pp. 223-225; si veda inoltre D. R. Jordan, “The Inscribed Lead Tablet from Phalasarna”, Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik 94, 1992, pp. 191-194.

14 La lezione τετράς, riportata nel codice di Clemente, per quanto suggerisca un intrigante collegamento con la Tetrade, non mi sembra corretta, e ho scelto di mettere a testo la correzione in Τετράξ, termine raro che indica varie specie di uccello, come la pernice e l’urogallo, come fa Stählin nella sua edizione di Clemente: questa era infatti la lettera efesia, secondo la testimonianza di Esichio e le iscrizioni sugli amuleti. Curiosamente, Androcide trova qui un riferimento al quattro, ma non interpreta questa lettera come un riferimento alla tetrade, come ci si

14 La lezione τετράς, riportata nel codice di Clemente, per quanto suggerisca un intrigante collegamento con la Tetrade, non mi sembra corretta, e ho scelto di mettere a testo la correzione in Τετράξ, termine raro che indica varie specie di uccello, come la pernice e l’urogallo, come fa Stählin nella sua edizione di Clemente: questa era infatti la lettera efesia, secondo la testimonianza di Esichio e le iscrizioni sugli amuleti. Curiosamente, Androcide trova qui un riferimento al quattro, ma non interpreta questa lettera come un riferimento alla tetrade, come ci si

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