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Un Ulisse in Oriente: in viaggio con Pitagora

Nel documento DOTTORATO DI RICERCA TITOLO TESI (pagine 138-155)

Per quanto significativo e precoce sia stato il movimento neopitagorico romano, è nella parte orientale ed ellenofona dell’Impero che sorgono i più importanti esponenti di una filosofia che si dichiara ispirata al pensiero di Pitagora; e sempre in quest’enorme area

33 Un’iscrizione funebre della prima età imperiale (CLE 434, vv. 5-8 = CIL XI 06435) rinvenuta a Pisaurum nel XV sec., che ricorda Petronio Antigenide, un bimbo scomparso all’età di dieci anni che, com’è chiaro dall’onomastica, era uno schiavo, figlio illegittimo del dominus,elogia le eccezionali doti intellettuali del piccolo (si veda E. Courtney, Musa lapidaria. A Selection of Latin Verse Inscriptions, Scholars Press, Atlanta, 1995, pp. 290-292):

(…) Ho penetrato la dottrina di Pitagora e il pensiero dei filosofi, Ho letto i poeti lirici, ho letto i sacri poemi di Omero, Conoscevo le dimostrazioni che Euclide tracciò sulla tavoletta;

E insieme ho avuto divertimenti e giochi a non finire. (…)

Gli umanisti che per primi lessero quest’iscrizione, colpiti da come questo bambino padroneggiasse tutti gli aspetti della paideia antica, dalla filosofia alle matematiche, e soprattutto fuorviati dalla menzione di Pitagora come il sapiente per eccellenza, videro nel piccolo Antigenide e in suo padre Ilaro due affiliati a una setta neopitagorica, e ne fecero persino una gloria locale di Pesaro (cf. S. Mariotti, “La leggenda di Petronio Antigenide; sulla fortuna di un carme epigrafico pesarese”, Archeologia Classica 25/26, 1973 - 1974, pp. 395-416). È del tutto evidente che il committente dell’iscrizione ha voluto affettuosamente trasfigurare e magnificare il ludus litterarum di Antigenide, mutando in straordinarie competenze di geometria gli esercizi sulla tavoletta cerata, in profonda comprensione filosofica la copiatura e l’apprendimento di massime di saggezza, e in difficili letture avanzate lo studio della grammatica greca, e insomma raccontare in maniera straordinaria la normale attività scolare di un bimbo di buona famiglia.

34 Vedi pp. 114 sg.

35 Cf. Isidor. Orig. III 2, 1, e Cassiodor., Inst. II, IV 10; si può ricordare anche che nelle Metamorfosi (XI, 1) il protagonista, Lucio, sotto la guida della dea Iside immerge sette volte il capo nel mare, e ricorda la potenza divina che Pitagora riconosceva a questo numero. Sulla Ratio Spherae attribuita ad Apuleio, si veda l’Appendice, p. 161 n. 14.

36 Pitagora, pp. 316 sgg.

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geografica ha luogo la produzione di una nuova generazione di apocrifi pitagorici, che presenta alcuni importanti elementi di discontinuità con i precedenti:

a) le forme letterarie variano senza limitarsi al trattatello dorico, che rimane comunque la forma prediletta, sebbene affiancato nuovamente dallo ionico: ricompare, ad esempio, il poemetto, avvertito evidentemente come la più arcaica modalità di comunicazione di contenuti sapienziali e filosofici.

b) sembra esserci una minore omogeneità e programmatica coerenza anche nei contenuti e nelle dottrine rispetto alla generazione di apocrifi precedente: in ogni caso, temi quali la teologia, le pratiche divinatorie e cultuali, che negli apocrifi precedenti erano raramente centrali, diventano preponderanti, mostrando una volontà di recuperare la dimensione religiosa del pensiero pitagorico, e anche le matematiche sono trattate in questa prospettiva.

c) il nome di Pitagora, che era stato abbandonato dagli anonimi autori dei trattati dorici, torna a garantire l’autorità dei nuovi apocrifi, stavolta, diversamente da quanto era accaduto in età ellenistica, incontrando ben poca resistenza o sospetto. Insieme al nome di Pitagora si inizia a impiegare quello dei suoi familiari e di figure della sua cerchia più intima.

Le ragioni di questa trasformazione sono da ricercare nei profondi cambiamenti che investono gli ambienti intellettuali in età imperiale: non mi riferisco unicamente al sorgere di nuove sensibilità religiose, ma soprattutto al nuovo modo in cui gli intellettuali concepiscono la storia stessa del pensiero e il suo sviluppo storico. Le opere di “storia della filosofia” scritte in età imperiale, soprattutto in ambito medio e neoplatonico, propongono una teoria fortemente unitaria, che individua una sapienza “originaria”

consegnata (potremmo dire rivelata) all’intero genere umano in un’età mitica, e conservata in qualche forma presso tutti i popoli più antichi; i Greci, popolo relativamente giovane, dovettero importare quella sapienza e scoprirla viaggiando e dialogando:

Pitagora, le cui notizie di viaggi e discepolati presso gli Egizi e i Caldei, come abbiamo visto, erano ben note sin dall’età ellenistica,1 divenne la figura più adatta a questo

1 Vedi sopra, pp. 48 sgg.

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compito, e assurse a colui che aveva raccolto quelle tradizioni e ricostruito la sapienza originaria ad esse soggiacente. Giamblico nella Vita Pitagorica traccia un quadro completo di questi viaggi:

E ancora dicono che Pitagora avesse operato una composizione di filosofia e culto della divinità, e insomma di quanto aveva appreso dagli Orfici, dai sacerdoti egiziani, dai Caldei e dai Magi, e ancora dalle iniziazioni ai misteri che si tengono a Eleusi, a Imbro, a Samotracia e a Lemno, e forse dagli Etruschi,2 e tra i Celti e in Iberia.3

Giamblico fa della filosofia di Pitagora una summa della sapienza religiosa di tutti i popoli, e di “quell’uomo”, prima ancora che il brillante geometra, oratore, astronomo che era stato in età ellenistica, un iniziato desideroso di percorrere tutte le vie del divino e le forme del suo culto.

Inoltre, questo Pitagora non si limita a viaggiare e a dialogare, ma intrattiene con i suoi autorevoli maestri un rapporto fondato sulla parola scritta: non a caso è proprio in età imperiale che si raccolgono e consolidano non solo il corpus degli pseudopythagorica, ma anche molti altri corpora fondati su una figura d’indiscussa autorità. Se la tradizione del viaggio di Pitagora in Egitto, ad esempio, è antichissima, dovremo però attendere la Risposta A Porfirio (o sui Misteri degli Egizi), firmata con lo pseudonimo del sacerdote egizio Abammone, ma attribuita già da Proclo a Giamblico, per trovare la notizia dei suoi rapporti con il mitico Ermete Trismegisto, a cui gli Antichi assegnavano un ricco corpus di scritti in parte pervenutoci:4

E se tu poni qualche questione filosofica, anche su questa ti daremo il nostro giudizio basandoci sulle antiche steli di Ermete, leggendo le quali già Platone -e prima di lui Pitagora- avevano messo insieme la loro filosofia.5

Naturalmente, agli occhi dell’autore della lettera i contenuti del corpus hermeticum si celano nelle grandi iscrizioni monumentali in geroglifico, vedute sia da Platone che da

2 Il testo qui è corrotto: la lezione τοῖς κοινοῖς dei mss. mi sembra inaccettabile, sebbene messa a testo da alcuni editori. Le correzioni Τουσκανοῖς (Rohde) e Τουρρηνοῖς (Nauck) non sono prive di difficoltà, ma indovinano correttamente, credo, l’origine della corruttela: Giamblico, dopo aver tracciato con sicurezza le connessioni orientali e greche di Pitagora, si esprime in modo più incerto sui suoi rapporti con i popoli più sapienti dell’Occidente, e accanto ai druidi della Gallia non poteva non menzionare gli Etruschi.

3 Iambl. VP 151.

4 L’edizione di riferimento di questi testi è quella curata da A. D. Nock, A. J. Festugière, Hermès Trismégiste, IV voll., Les Belles Lettres, Paris, 1954-1960.

5 Iambl. De Myst. I 2.

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Pitagora nel corso dei loro viaggi; ma la “sapienza” confezionata in questi corpora non dev’essere considerata come una prova di un reale contatto con gli scritti e lingue di civiltà aliene a quella greca, e riflette piuttosto la necessità degli intellettuali greci di quest’epoca di misurarsi con un’autorità.6 Per quanto i trattati ermetici conservati pervengano a un’immagine della filosofia platonica assai differente da quella presente negli pseudopythagorica, affinità tra i due sono presenti, e mostrano un terreno comune: la cosmologia, la scienza dei numeri come mezzo di contemplazione dell’intelligenza divina, e soprattutto la purezza della monade che genera il mondo molteplice senza essere intaccata nella sua perfezione7 sono temi su cui entrambi i corpora rivelano la loro dipendenza dalla riflessione medioplatonica. Né fu solamente Ermete Trismegisto ad apparire come autore di scritti “egiziani”, ma i sacerdoti tante volte menzionati erano identificati da alcuni nelle figure di Nechepso e Petosiris, che compaiono sovente in coppia come autori di trattati astrologici.8

Assai simile al caso di Ermete è quello di Zoroastro: un ricco corpus di scritti naturalistici, astrologici e magici in lingua greca a suo nome (ma compaiono anche altri magi persiani come Istaspe e Ostane)9 ebbe grande fortuna nell’Antichità: si riteneva, sulla base della

6 Si veda su questo anche la testimonianza di Clemente alessandrino (Strom. VI 4, pp. 448, 19-450, 3 Stählin) che, accusando gli intellettuali greci di essersi “appropriati” (σφετερισαμένους) della filosofia degli Egizi, racconta, per dimostrare l’esistenza di una tale filosofia sistematicamente raccolta in un corpus, che quarantadue libri di Hermes venivano portati in processione: tra questi, non mancavano naturalmente quattro trattati astronomici e astrologici, e compariva persino un corpus di testi medici.

7 Sulla monade come “principio e radice” del mondo sensibile ed esteso, cf. in part. Corp. Herm. IV 10-11, p. 53, 1-10 Nock-Festugière, e nota ad loc. L’autore dell’Asclepius, d’altra parte, assume una posizione particolarmente dura contro quei pensatori che pervertono la purezza della filosofia con l’aritmetica, la musica, la geometria praticate fine a se stesse: queste scienze si dovrebbero praticare solamente quanto basta per constatare l’operare dell’intelletto divino nel cosmo, e spingersi oltre altro non è che inportuna curiositas dello spirito (Asclepius XIII-XIV, pp. 311-313 Nock-Festugière); cf. Or. Chald. fr. 107 des Places. In generale, sui motivi numerologici nel corpus Hermeticum rimando ad A.-J. Festugière, La Révélation d’Hermès Trismégiste. Nouvelle édition revue et augmentée, avec la collaboration de C. Luna, H. D. Saffrey, N. Roudet, Paris, Les Belles Lettres, 2014, pp. 1444-1457.

8 L’edizione di riferimento per questi testi rimane ad oggi E. Riess (ed.), Nechepsonis et Petosiridis Fragmenta Magica, in: Philologus, Suppl. 6.1, Göttingen, 1892, pp. 325-394.

9 Il più recente studio complessivo di questa letteratura si deve a R. Beck, “Thus Spake Not Zarathustra:

Zoroastrian Pseudepigrapha of the Greco-Roman World,” in M. Boyce, F. Grenet (eds.), A History of Zoroastrianism III, Handbuch der Orientalistik 1.8.1.2.2. Leiden, 1991, pp. 491-565; una ricchissima raccolta di frammenti e testimonianze è il secondo volume del capitale studio di J. Bidez, F. Cumont, Les Mages hellénisés, vol. II, Les textes, Les Belles Lettres, Paris, 1938. Quanto a Ostane, già in Ps. Democrito, pp. 184-188 Martelli, questi è ricordato come il maestro di alchimia di Democrito, che muore però senza iniziare i suoi discepoli ai misteri; i suoi libri, che Democrito trova all’interno di un tempio dopo la morte del maestro, permettono di completare l’iniziazione.

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notizia di Aristosseno,10 che egli avesse, tramite Pitagora, influenzato grandemente anche la filosofia platonica,11 e fu persino considerato da una fortunata tradizione la figura che si celava dietro il panfilio Er, al punto che, secondo quanto riferisce Proclo nel suo Commento alla Repubblica, già l’epicureo Colote si era spinto a emendare il testo di Rep.

614b da Ἠρὸς τοῦ Ἀρμενίου in Ζωροάστρου τοῦ Ἀρμενίου:12 e non a caso un apocrifo greco attribuito a Zoroastro, che si presentava nella forma di un compendio astrologico e filosofico in quattro libri conosciuto sia da Proclo sia già da Clemente,13 iniziava proprio con una parafrasi delle parole di Er nella Repubblica:

Il Panfilio Zoroastro figlio di Armenio dice queste cose, quante ne apprese sia dagli dèi dopo esser morto in guerra, sia dall’altra indagine.14

La strategia dell’autore di questo testo appare assai affine a quelle messe in atto dagli autori degli apocrifi pitagorici; sembra peraltro che “Zoroastro” riprendesse in esso alcuni argomenti cari anche agli autori pseudo-pitagorici, e specialmente l’esposizione di cicli biologici e naturali fondati sul numero sette doveva avere una parte importante nell’opera.15 Sembra, d’altra parte, che lo Zoroastro di Aristosseno abbia ispirato una vasta gamma di interpretazioni platonico-pitagoriche, tra cui si può ricordare una testimonianza plutarchea relativa alla generazione del numero dai principi:

Zarata, maestro di Pitagora, chiamava (sc. la diade indefinita) madre del numero, e l’uno padre.

Per questo, diceva, sono i migliori tra i numeri quelli che assomigliano alla monade.16

10 Introd. I.3; non fu Aristosseno il solo a interessarsi a Zoroastro e ai suoi legami con il pensiero pitagorico in età ellenistica: sappiamo che anche Aristotele si era occupato della questione, ed Eraclide Pontico dedicò un dialogo a Zoroastro; Ermippo, secondo una notizia in Plin. NH XXX 4, avrebbe redatto un commento e una monumentale raccolta di due milioni di versi di Zoroastro. Si veda su questa tradizione antica l’articolo di F. Calabi, “Il mito di Er: le fonti”, in: M. Vegetti (a cura di), Platone, “Repubblica”, Libro X, Bibliopolis, Napoli, 2007, pp. 277-310.

11 Cf. e. g. il fr. D7 Bidez-Cumont, in cui la dottrina dell’uno e della diade indefinita era attribuita a Zoroastro, che li avrebbe chiamati “il padre e la madre” di tutte le cose.

12 Procl. In Remp. II pp. 109-110 Kroll.

13 Clem. Alex. Strom. V 14, p. 395 Stählin. Il prologo di Clemente si presenta in una versione leggermente diversa dello scritto rispetto a quella nota a Proclo.

14 Procl. In Remp. II p. 109 Kroll = [Zoroast.] De Nat. O 13 Bidez-Cumont.In generale, per l’apocrifo Sulla Natura di Zoroastro rimando a J. Bidez, F. Cumont, Les Mages hellénisés, vol. II … pp. 158-163; e a R.

Beck, “Thus Spake Not Zarathustra: Zoroastrian Pseudepigrapha of the Greco-Roman World,” … pp. 518-519.

15 Cf. [Zoroast.] De Nat. O 14-15 Bidez-Cumont.

16 Plut. De An. Procr. in Tim. 1012e = [Zoroast.] D 7b Bidez-Cumont.

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A Zoroastro erano attribuiti sovente anche gli Oracoli Caldaici, testo che diverrà poi centrale nelle scuole filosofiche neoplatoniche.

Nei viaggi orientali di Pitagora, L’Egitto e Babilonia non furono la sola tappa: egli giunse infatti sulle coste della Fenicia. Sembra che già il biografo ellenistico Neante conoscesse la tradizione di un’origine fenicia di Pitagora,17 ma è ancora da Giamblico che abbiamo notizia di un viaggio nel corso del quale egli si sarebbe iniziato ai misteri locali sotto la guida degli epigoni del leggendario sapiente e physiologos Moco.18 Ma da Tiro a Gerusalemme la strada è breve: è ancora una volta a una fonte ellenistica, Ermippo di Smirne, che dobbiamo la più antica connessione di Pitagora, e in particolare dei suoi simboli, con la legge giudaica,19 che si presenta come una vera accusa di plagio contro il Maestro dei Pitagorici. L’idea di una connessione tra Mosè e Pitagora piacque però agli intellettuali giudei ellenizzati, ben consapevoli che la loro Legge era assai più antica e autorevole del sapere dei filosofi. Agli inizi del I sec. d. C., un intellettuale di punta della grande comunità giudaica di Alessandria fece di questo ponte, che collegava la Legge mosaica alla filosofia di Platone, la chiave di volta del suo pensiero e del suo lavoro: sto parlando, naturalmente, di Filone Alessandrino.

Non è possibile discutere qui la complessa questione del rapporto tra Filone e il pitagorismo: mi limiterò a richiamare alcuni punti essenziali, concentrandomi in particolare sul rapporto con gli apocrifi e sulle implicazioni numerologiche. Si è detto che certamente Filone conosceva alcuni apocrifi pitagorici, e in particolare citava espressamente il trattato di Ocello Lucano;20 la critica del primo ‘900 si dedicò inoltre a dimostrare come le occorrenze numerologiche filoniane in diverse opere, e specialmente nello scritto perduto Sui Numeri, fossero debitrici a una fonte aritmologica coincidente con un trattato pseudopitagorico di titolo e autore a noi ignoti, l’Anonymus Arithmologicus.21 Tuttavia, appare chiaro che egli conoscesse anche alcuni

17 Ap. Porph. VP 1; Neante sembra aver pensato che Pitagora fosse nato a Tiro, e che Mnesarco, suo padre, fosse siriaco d’origine, e naturalizzato solo in seguito cittadino di Samo. Giamblico presenta una versione differente, in cui le origini barbare di Pitagora sono attenuate: Pitagora sarebbe nato a Sidone, mentre il padre, mercante samio, si trovava là per affari (Iambl. VP 5-7).

18 Iambl. VP 13-14.

19 Ap. Ioseph. Ap. I 165-166.

20 Cf. p. 14 n. 32.

21 Vedi pp. 119 sg.

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pseudopythagorica dedicati all’aritmologia per via indiretta: particolarmente istruttivo è il caso di una citazione sull’ebdomade, attribuita a da Filone a Filolao,22 ma presente anche in altri autori sotto il nome di Onetore di Taranto, autore di uno scritto Sulla Proporzione Aritmetica. La confusione di Filone tra Filolao e un pitagorico sconosciuto è probabilmente imputabile, in questo caso, a un errore nel testo della fonte ignota in cui Filone trovava la citazione indiretta: al posto del bizzarro Onētōr ho tarantinos, il testo di Filone poteva avere una citazione attribuita a ho rhētōr ho tarantinos, che non poteva essere che Filolao o Archita.23

Al di là delle ricostruzioni delle fonti del de Numeris, comunque, il programma dell’aritmologia filoniana è prossimo nei metodi e nello spirito a quello degli esegeti ellenistici dei simboli pitagorici: forse anche grazie al loro apporto egli elaborò il proprio metodo di esegesi allegorica della Scrittura, che vedeva nella lettera del testo solo lo specchio in cui si possono contemplare, riflesse, le realtà più alte.24 Certo, questa decodificazione di ciò che Mosè ha detto per mezzo di simboli e allegorie passa sovente per la via tortuosa dell’interpretazione numerologica, assai usata da Filone in diversi trattati, ma che trova la sua massima espressione nel De Opificio Mundi, opera dedicata all’interpretazione del primo racconto della creazione nella Genesi. Gran parte del testo è dedicato all’elogio dell’ebdomade, presenta una serie di argomenti assai simili a quelli impiegati da Varrone nel De Hebdomadibus, rivelando una fonte comune,25 e fa riferimento anche alla presenza dell’ebdomade nell’armonia dei corpi celesti, in analogia con la lira a sette corde.26 Sempre in quest’opera, Filone descrive la perfezione della decade e il suo rapporto generativo con la tetraktys, riprendendo da vicino l’autore dei Vetusta Placita e il Giuramento pitagorico.27

22 Phil. De Op. Mund. 100.

23 Si veda in dettaglio Onetore, pp. 293 sgg.

24 Si veda e. g. Phil. De Vit. Contempl. 78, in cui si parla espressamente di symbola da interpretare nella Scrittura.

25 Cf. in part. De Op. Mund. 112-116. Su Varrone vedi pp. 133 sgg.: un confronto sistematico tra le due serie di argomenti, su cui non mi soffermo, si trova in L. Zhmud, “Anonymus Arithmologicus and its philosophical background”, … pp. 346-347; ricordo, da parte mia, la somiglianza tra l’argomento paretimologico proposto in De Op. Mund. 127 e quello che Nicomaco attribuiva al pitagorico Proro (ap.

Ps.-Iambl. Theol. Arithm., p. 57 de F.), autore di uno scritto Sull’Ebdomade (si veda in dettaglio Proro, pp.

358 sgg.).

26 Phil. De Op. Mund. 126.

27 Phil. De Op. Mund. 47.

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Non si deve pensare che la connessione tra Pitagora, Mosè, Zoroastro e altri maestri orientali fosse stabilita solo per ragioni nazionalistiche: essa viene a costituire, al contrario, il fondamento di parte della storiografia filosofica di età imperiale, fondata sull’ideale di continuità e universalità di una philosophia perennis dell’umanità. Il primo autore che, a quanto sappiamo, ha redatto una storia della filosofia platonica in cui l’idea di una sapienza universale e originaria del genere umano trova in Pitagora il suo punto di concentrazione è Numenio di Apamea: egli, lamentando le divisioni e le infedeltà al maestro, che hanno portato i platonici alla divisione e alla discordia, vede invece nella scuola di Pitagora (come in quella di Epicuro) un esempio di assoluta lealtà che porta i Pitagorici a essere una vera comunità;28 e inoltre egli riconosce che il platonismo purificato di tutte le sue deviazioni e impurità altro non è che la dottrina di Pitagora.

D’altra parte, Numenio proclamava, all’inizio della sua opera Sul Bene, che la concordanza tra Platone e Pitagora dovesse essere mostrata ricorrendo al sistematico confronto con le dottrine e i riti dei Bramani, dei Giudei, dei Magi e degli Egizi.29 Sappiamo pochissimo della trattazione delle matematiche di Numenio, ma certamente egli non aveva trascurato questo tema, e recepiva l’invito platonico a utilizzare le matematiche come un mezzo per rivolgere l’anima agli intelligibili;30 non sembra però che egli seguisse la tendenza di altri neopitagorici a ridurre la differenza tra matematiche e dialettica.31 Un estratto di Calcidio lascia intendere che egli conoscesse certa letteratura pseudopitagorica relativa alla monade e alla diade, e all’interazione tra limite e illimitato operata da Dio, probabilmente apocrifi come lo scritto Sui Principi di Archita; criticava inoltre la dottrina stoicheggiante, contenuta nei testi di altri Pitagorici “eterodossi”, secondo cui la monade è causa della diade, e dunque dell’indeterminatezza.32

28 Numenio, fr. 24 Des Places; l’opera “storico-filosofica” di Numenio era intitolata sul Dissenso degli Accademici rispetto a Platone, e presentava la storia dell’Accademia come una parabola di corruzione dell’originale e pura dottrina platonica, fino all’aberrazione di Arcesilao e la svolta scettica.

29 Fr. 1a Des Places.

30 Fr. 2 Des Places.

31 Cf. D. J. O’Meara, Pythagoras revived… pp. 10-14. Un frammento in cui egli è associato ad altri

31 Cf. D. J. O’Meara, Pythagoras revived… pp. 10-14. Un frammento in cui egli è associato ad altri

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