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2.3. L A STAGIONE DEL NUOVO CODICE DI PROCEDURA PENALE

2.3.4 Le modifiche apportate dalla legge n 332/1995

La legge n.332 del 1995 <<nasce da una realtà a tutti nota, che nel campo cautelare personale si era contraddistinta per un uso imponente dello strumento coercitivo carcerario, cui la lettera e lo spirito del vecchio art. 274, tanto nella sua applicazione originaria, quanto nei controlli di legittimità, non avevano, di fatto, dimostrato alcuna resistenza tecnica208>>. Interpretazioni giurisprudenziali distorte e parecchio generose in ordine alle esigenze cautelari avevano tradito le previsioni ottimistiche e le speranze del legislatore del 1988. Una prima puntualizzazione dell’intervento legislativo del 1995 riguarda la valutazione della personalità dell’imputato che può ora esser <<desunta da comportamenti o atti concreti o dai suoi precedenti penali>>. La ratio di tale intervento risiedeva nella volontà di rafforzare l’obbligo di motivazione da parte dell’autorità giurisdizionale, tuttavia vi era chi sosteneva che, in tal modo, il legislatore avesse creato <<una disarmonia tecnica, non mancando, così, la possibilità che per il pregiudicato venga ritenuto sufficiente tale dato prognostico, anche in mancanza di altri elementi. La dizione alternativa sembra consentire infelicemente questo automatismo, e non sarebbe certamente un passo avanti sulla via della motivazione specifica209>>. Con questa previsione si voleva in realtà scalfire il precedente orientamento giurisprudenziale dettato dalla Cassazione nel

207 G. Conso, V. Grevi, Il progetto definitivo e il testo definitivo del codice, Padova,

1990, p. 721.

208 A. Cristiani, Misure cautelari e diritto di difesa : la l. 332 del 1995, 1995, Torino,

p. 5.

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A. Cristiani, Misure cautelari e diritto di difesa : la l. 332 del 1995, 1995, Torino, p. 26.

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1993 che voleva effettuare la prognosi di pericolosità attingendo in modo generico dai fattori ambientali e, pertanto, da elementi oggettivi e non oggettivi. Nella dizione originaria era stato anche previsto il riferimento ai precedenti giudiziari, ossia i carichi pendenti e le decisioni ancora non passate in giudicato, che fu espunto dalla versione definitiva, nonostante si sostenga che di tali elementi si possa ancora tenere in considerazione tramite il riferimento a “comportamenti o atti concreti”. L’altra innovazione di rilievo fu quella di limitare l’ipotesi di applicazione di misura cautelare per il concreto pericolo di reiterazione di delitti della stessa specie, prevedendola solo per i delitti per i quali la pena della reclusione non è inferiore ai quattro anni: <<se il pericolo riguarda la commissione di delitti della stessa specie di quello per cui si procede, le misure di custodia cautelare sono disposte soltanto se trattasi di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni>>. In tal modo <<il legislatore ha stabilito qual è il limite presuntivo oltre il quale il delitto della stessa specie si considera grave210>>, risolvendo la disputa giurisprudenziale tra coloro che ritenevano che l’aggettivo “grave” si riferisse solo ai delitti commessi con uso di armi, altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero di criminalità organizzata e tra coloro che lo estendevano anche ai delitti della stessa specie. Tuttavia, nonostante l’irrigidimento della fattispecie applicativa, non si è in grado di cancellare i dubbi che permangono sulla legittimità costituzionale della finalità stessa di prevenzione speciale, che è inevitabilmente collegata ad un giudizio di pericolosità sociale ed anticipato di colpevolezza, in relazione dell’art. 27 II comma Cost211.

210 C. Riviezzo, Custodia cautelare e diritto di difesa, 1995, Milano, p. 50.

211 G. Illuminati, Presupposti e criteri di scelta delle misure cautelari, in AA.VV., Il

diritto processuale penale nella giurisprudenza costituzionale. I cinquant’anni della Corte Costituzionale, a cura di G. Conso, 2007, Napoli, p. 86.

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2.3.5. L’art. 275 comma III c.p.p. : una presunzione di pericolosità.

La disciplina contenuta nel codice dell’88 doveva andare a soddisfare i parametri costituzionali e non avrebbe dovuto, pertanto, contenere delle presunzioni assolute di pericolosità. I criteri della legge delega aspiravano a garantire l’ingresso nella disciplina concernente la libertà personale dei principi di adeguatezza e proporzionalità, tant’è che il legislatore sancì all’art. 275 I comma che <<nel disporre le misure, il giudice tiene conto della specifica idoneità di ciascuna in relazione alla natura e al grado delle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto>>. Nonostante l’incipit di buon auspicio contenuto nel I comma dell’art. 275 c.p.p., il legislatore poco dopo l’emanazione del codice, in deroga ai principi che presiedono la decisione sull’ an e il

quomodo della misura cautelare, non resistette dal dar nuovamente

spazio all’interno di queste articolo a finalità di prevenzione speciale, del tutto slegate da un accertamento concreto e da un giudizio sulla personalità dell’imputato. L’art. 275 comma III dava spazio, per alcune fattispecie tassativamente individuate, a una presunzione relativa di sussistenza del periculum libertatis, senza aver compiuto un accertamento in ordine alle esigenze cautelari, alla sola presenza dei gravi indizi di colpevolezza e a una presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere. In presenza di tali fattispecie si riteneva, salva prova contraria, che sussistessero le esigenze di cui all’art. 274 c.p.p. e, in conseguenza a ciò, l’unica misura che poteva esser applicata era la custodia cautelare in carcere. Per superare la presunzione relativa era necessario, a parere della Cassazione, acquisire elementi concreti e non congetturali dai quali si potesse desumere la non sussistenza delle esigenze cautelari. L’interpolazione dell’art. 275 comma III avvenne ad opera del d.l. n. 152 del 1991, convertito poi nella L. n. 203, recante <<provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e di

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buon funzionamento dell’attività amministrativa>>, il quale conteneva un elencazione di reati, tra cui devastazione, saccheggio, associazione di tipo mafioso, sequestro a scopo di rapina o estorsione, rapina, omicidio o, ancora, reati commessi avvalendosi dell’associazione di tipo mafioso o per agevolarne l’attività o con finalità di terrorismo, per i quali doveva esser applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che fosse provata la non sussistenza di alcuna delle esigenze cautelari o che le stesse possano esser soddisfatte con tali misure. Su tale norma intervenne il successivo d.l. n. 292 del 1991, che eliminando il riferimento a “che le stesse possano esser soddisfatte con altre misure” aveva comportato che il titolo di reato tornasse ad aver un peso preponderante nella scelta della misura cautelare e aveva reinserito quei meccanismi di automaticità che il legislatore dell’88 aveva voluto eliminare. Ne derivò che venne <<reintrodotta l’obbligatorietà della cattura per le imputazioni di questi reati>> e che fosse reinserita <<una presunzione assoluta (iuris et de iure) di estrema gravità delle esigenze cautelari, o quanto meno dell’esigenza di prevenzione212

>>.

La legge 332 del 1995 ridusse drasticamente l’operatività della disposizione, circoscrivendola ai reati di cui all’art. 416 bis c.p. (associazione di tipo mafioso), o quelli commessi al fine di agevolare le associazioni mafiosi o avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416 bis c.p. L’operatività delle due presunzioni per queste fattispecie, motivato dalla particolare complessità dell’accertamento dei reati in questione nonché dalla loro particolare efferatezza, comportava la conseguente ed automatica applicazione della custodia cautelare in carcere, a meno che non venisse data la probatio diabolica della non sussistenza di esigenze cautelari.

La disposizione venne portata immediatamente al vaglio della Corte Costituzionale, la quale con sent. 450 del 1995 ne escluse l’illegittimità costituzionale in riferimento agli art. 3, 13 comma I e 27 comma II

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S. Patané, Le misure cautelari dopo i D.L. n. 152 e n. 292 del 1991, in Giust. Pen., III, p.10

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Cost. Il giudice a quo sosteneva che tale disposizione gli impediva di emettere una misura più idonea al caso di specie, quale gli arresti domiciliari e contrastava, ledendo i principi di adeguatezza e proporzionalità con quel corollario del codice dell’88 che voleva porre la custodia cautelare in carcere come extrema ratio. La norma in esame contrasterebbe inoltre con il principio di uguaglianza, in quanto imponendo un appiattimento del giudizio comporta un trattamento uguale di situazioni tra loro oggettivamente e soggettivamente diverse. La Corte, argomentando a partire dalle sent. n. 64 del 1970 e n. 1 del 1980, sottolinea che la questione è infondata e che spetta al legislatore <<l’individuazione del punto di equilibrio tra le diverse esigenze, della minore restrizione possibile della libertà personale e dell’effettiva garanzia degli interessi di rilievo costituzionale tutelati attraverso la previsione degli strumenti cautelari del processo penale213>>. La Corte inoltre afferma che, se la verifica della sussistenza di esigenze cautelari (l’an della cautela) non può prescindere da un accertamento in concreto, l’individuazione della misura (il c.d. quomodo) non comporta necessariamente l’affidamento di analogo apprezzamento al giudice, potendo essere effettuata la scelta anche dal legislatore purché nel rispetto dei limiti di ragionevolezza e del corretto bilanciamento dei valori costituzionali coinvolti. Dal momento che la disposizione in esame restringe l’operatività di tali due presunzione ai soli reati dell’area mafiosa ritiene che questa non sia irragionevole, in quanto tali fattispecie hanno come connaturato un indice alto di pericolosità per la sicurezza della collettività. Secondo la Consulta non ha ragione di sussistere nemmeno la contestata disparità di trattamento, trattandosi di fattispecie che hanno in comune un denominatore, che costituisce la

ratio della scelta del legislatore: questi ha infatti individuato <<un’area

di reati che, per comune sentire, pone a rischio, come si è già

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osservato, beni primari individuali e collettivi214>>. In conclusione la Corte avalla il meccanismo del legislatore, dimentico, forse per il sopravvenire nuovamente di una stagione di emergenza, dei buoni propositi e dei contenuti garantistici che voleva promuovere con la stesura del codice dell’88: non solo si ritiene la presunzione assoluta compatibile con il dettato costituzionale, ma attraverso il richiamo ultimo al “comune sentire” la Corte sembra riaprire nuovamente a quei parametri soggettivi, opinabili, facilmente manipolabili, quali il comune sentire dell’opinione pubblica, che già prima della stesura del codice erano stati banditi dal nostro ordinamento.

Sulla norma in esame intervenne una nuova modifica ad opera del d.l. n. 11 del 23 Febbraio 2009, convertito poi in L. n. 38 del 23 Aprile 2009 che estendeva l’operatività della presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari e assoluta di adeguatezza della custodia in carcere ai reati di cui all’art. 51 comma 3 bis e 3 quater, per i delitti di cui all’art. 575, 600 bis comma 1, 600 ter, 600 quinquies c.p. e 609 bis, 609 quater, 609 octies c.p. (limitatamente ai casi in cui non sussistono le circostanze attenuanti contemplate dalla fattispecie), salvo che <<siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari >>.