Con l’entrata in vigore della Carta costituzionale apparve immediatamente chiaro che questa poneva problemi di conciliazione con la disciplina in tema di libertà personale prevista all’interno del codice. L’art. 13 e l’art. 27 II comma Cost. avevano introdotto delle garanzie che difficilmente potevano dirsi attuate dal dettato del codice Rocco. La custodia preventiva così come delineata, svincolata da finalità teleologiche e subordinata solamente ai sufficienti indizi di colpevolezza, comportava una privazione della libertà, che si sostanziava inesorabilmente in un’anticipazione della pena80.
Il primo intervento significativo in questo periodo fu la legge 517/ 55, il cui primo obiettivo fu quello di rendere operativa la previsione sancita all’interno dell’art. 13 V comma Cost., il quale, affermando che la legge doveva stabilire termini massimi per la carcerazione preventiva, si poneva come baluardo a difesa dell’idea della custodia preventiva in funzione del soddisfacimento di esigenze processuali e non svincolata da qualsiasi finalità. Se da un lato si criticava il contrasto dialettico dell’inciso “carcerazione preventiva” contenuto all’interno del dettato costituzionale, essendo la <<carcerazione nel nostro diritto lo strumento esecutivo di una pena detentiva divenuta eseguibile, mentre l’aggettivo postula l’inconciliabile carattere della
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A tal riguardo v. E. Marzaduri, voc. Custodia cautelare nel diritto processuale penale, in Digesto delle discipline penalistiche, 1989, Torino, p. 284.
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provvisorietà81>>, dall’altro l’entrata in vigore della Costituzione aveva posto grande incertezza circa la futura sorte di questo istituto. La custodia preventiva poteva reggere l’impatto costituzionale solo se contornata da un sistema di limiti e garanzie e se veniva ad arricchirsi del carattere di provvisorietà82. Il legislatore operò pertanto con la legge 517/ 55 un’ interpolazione dell’art. 272 in modo che prevedesse dei termini massimi di durata della misura, ma, conformemente alla disciplina del codice del 1913, lì ancorò alla sola fase istruttoria. In tal modo, essendo consentito dal momento del rinvio a giudizio sottoporre nuovamente il soggetto a carcerazione preventiva, il legislatore mostrò soltanto con grande incertezza il suo favore per una limitazione della libertà che potesse esser subordinata solo ad esigenze processuali. Da tale previsione sorsero dubbi di compatibilità costituzionale, <<tuttavia, abbiamo dovuto constatare che proprio a questo riguardo si fa sentire la differenza tra presunzione di innocenza e presunzione di non colpevolezza e che l’accoglimento di quest’ultima - collegandosi all’art. 13 - consente che il sospetto particolarmente qualificato, qual è quello tradotto nella sentenza di rinvio, valga a giustificare la carcerazione preventiva83>>. Nonostante questo pensiero diffuso in una parte della dottrina, possiamo in realtà constatare come la disciplina costituzionale non ponesse di per sé limiti alla possibilità di estendere la scarcerazione per decorrenza dei termini anche alla fase dibattimentale. Sicuramente la scarcerazione automatica si era inserita in un contesto dove, essendo ancora forte il dibattito tra una natura meramente programmatica o giuridica dei principi costituzionali, il legislatore e la giurisprudenza non avevano ancora totalmente fatto propri i principi di fondo della disciplina costituzionale.
81 C. U. Del Pozzo, Introduzione allo studio della libertà personale nel processo,
Milano, 1969, p. 59
82 G. Amato, Individuo e autorità nella disciplina della libertà personale, Milano,
1967, p. 433.
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G. Amato, Individuo e autorità nella disciplina della libertà personale, Milano, 1967, p. 434.
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Molti erano comunque i tentativi di bypassare la nuova disciplina legislativa, tanto che fu la Cassazione che con un impronta maggiormente garantista attraverso numerose pronunce, tra cui ricordiamo la sent. 20 Gennaio 1959, la sent. 27 Maggio 195984 e la sent. 9 Novembre 196285, tentò di impedire l’aggiramento dei limiti massimi tramite le contestazioni a catena e la conseguente emissione di successivi mandati di cattura. La Corte afferma che il meccanismo di cui all’art. 277 riconosce <<il diritto alla scarcerazione automatica, che verrebbero arbitrariamente limitate, in contrasto con lo spirito che le anima, se si ammettesse la possibilità delle così dette contestazioni “a catena” e cioè la possibilità di distribuire nel tempo la contestazione dei fatti-reati già noti, al fine di provocare il continuo rinnovarsi del termine della custodia preventiva86>>. Il fatto che la Cassazione si sia dovuta esprimere numerose volte in ordine a tale questione è sintomo di quanto i giudici istruttori non rinunciassero a ricorrere a questo espediente, se non con grande difficoltà.
La legge 517/ 55 non si limitò a tale intervento, ma, volendo diminuire la discrezionalità, se non l’arbitrio, dell’Autorità Procedente inserì inoltre un obbligo di motivazione dei provvedimenti e operò una modifica dell’254 c.p.p., riguardante il mandato di cattura facoltativo, con cui eliminò dalla valutazione discrezionale del magistrato il parametro delle “qualità sociali”, troppo legato a volontà discriminatorie, lasciando soltanto il riferimento alle “qualità morali della persona” e alle “circostanze del fatto”. Altro intervento significativo riguardò l’introduzione dell’art. 277 bis c.p.p. che, per la
84 Cass. Pen., Sez. III, 27 Maggio 1959 afferma che “ La durata della custodia
preventiva per un determinato reato non può esser protratta mediante l’emissione di un nuovo mandato di cattura per un altro reato che sia il prodotto del medesimo fatto storico” In Giust. Pen. 1959, III, pag. 610.
85 Cass. Pen, Sez. II, 9 Novembre 1962 afferma che “ l’imputato non può essere
nuovamente ristretto o mantenuto in carcere in via preventiva e nella stessa fase istruttoria se non con riguardo a un nuovo reato, e cioè a un reato emerso dalle risultanze istruttorie, che prima non avrebbe potuto esser contestato” In Giust. Pen. 1963, III, pag. 474.
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prima volta, operò una rottura tra la rigida correlazione tra mandato di cattura obbligatorio e divieto di concedere la libertà provvisoria, disponendo che l’autorità giudiziaria potesse non soltanto revocare, ma anche non emettere la cattura obbligatoria in presenza di una causa estintiva della pena e nella previsione dell’irrogazione di una pena rientrante nei termini della sospensione condizionale. Tuttavia, il legislatore, non essendosi espresso nemmeno in questa occasione in ordine alle finalità a cui la carcerazione preventiva avrebbe potuto rispondere, era rimasto ancora fedele a quel c.d. “vuoto dei fini”: <<in effetti, anche dopo la riforma del 1955, i profili dei poteri di coercizione personale erano tipizzati soltanto con riferimento al fumus
commissi delicti, richiedendosi l’esistenza di “sufficienti indizi di
colpevolezza” per poter emettere un qualsiasi ordine o mandato87
>>. La normativa legislativa del 1955 comunque, grazie alle modifiche finora ricordate e anche alla previsione di una ricorribilità in cassazione dei provvedimenti, ebbe un ruolo importante nell’ampliare la tutela dell’imputato e nello sviluppare i rapporti tra la disciplina processuale e le garanzie previste a livello costituzionale, seppur mantenendo intatta la disciplina di fondo del codice del 1930, di cui molti ormai auspicavano la sostituzione, essendo imperniata su una concezione troppo autoritaria, chiaramente incompatibile con il dettato costituzionale88.
2.1.2. Un’ambigua apertura a favore della finalità preventiva della