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Le pronunce della CEDU riguardo il sistema preventivo

Misure di prevenzione personal

10. Le pronunce della CEDU riguardo il sistema preventivo

Il carattere affilittivo delle misure di prevenzione personali, implicanti, in modo più o meno ampio, restrizioni delle libertà della persona, hanno reso necessario l’intervento della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, per accertare la compatibilità del sistema preventivo italiano alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Tale sistema potrebbe configurare una violazione, in base al sacrificio delle libertà personale previsto dalla misura, dell’art. 5, 1° comma della Convenzione, secondo cui nessuno può essere privato della sua libertà se non “nei modi previsti dalla legge”, o dell’art. 2, 3° comma del Protocollo addizionale n. 4 della stessa Convenzione, secondo il quale il diritto di circolare liberamente e di fissare liberamente la propria residenza non possono “essere oggetto di restrizioni diverse da quelle” previste dalla legge.

La CEDU riconosce la compatibilità delle misure preventive personali rispetto alla Convenzione distinguendo tra misure privative e misure restrittive della libertà personale: le prime devono sottostare alle condizioni previste dall’art. 5 CEDU, mentre le seconde a quelle previste dall’art. 2 del Protocollo Addizionale n. 4, che tutela la libertà di circolazione.

La Corte, distingue tra privazione e semplice limitazione della libertà personale, e ritiene che ciò derivi dal caso concreto e non dalla qualificazione giuridica adottata dal singolo ordinamento statale. Le differenze riguardano il tipo, la durata, gli effetti e le modalità di esecuzione della misura applicata.

Perchè si configuri una limitazione della libertà personale non è necessario che si incida completamente sulla libertà fisica, anche per breve tempo, ma è sufficiente che si realizzino vincoli particolarmente incisivi della libertà di circolazione.

Secondo la CEDU le misure di prevenzione devono essere applicate bilanciando l’interesse del soggetto e l’interesse generale alla difesa sociale; la stessa Corte ritiene che le misure abbiano natura amministrativa e non penale, in quanto sono rivolte a prevenire il crimine e non a sanzionarlo; nelle varie pronunce si tende a conservare tale sistema, ritenendolo necessario per la sicurezza pubblica.

La sentenza Guzzardi c. Italia, del 198060, riguardava un soggetto

sottoposto alla misura della sorveglianza speciale per tre anni, con l’obbligo di risiedere nell’isola dell’Asinara, corredata di ulteriori prescrizioni.

La Corte, relativamente all’art. 5 § 1 della CEDU, che tutela la libertà fisica nel suo complesso, e non le semplici restrizioni alla libertà di circolazione, ha ritenuto che l’obbligo di soggiorno in un’isola comportava una restrizione della libertà personale intollerabile; ma sembra che la Corte desse rilevanza al fatto che si trattasse di un’isola, priva di adeguate strutture in cui coltivare le relazioni sociali e in cui non si potevano rispettare le prescrizioni date, come la ricerca di un lavoro, e quindi ravvisasse una violazione della libertà personale nel suo complesso, in quanto la sua limitazione era stata imposta al di fuori dei casi previsti dalla Convenzione, così ha condannato l’Italia al risarcimento del danno. La CEDU nel 1994, con la sentenza Raimondo c. Italia, ha ritenuto insussistente la violazione della Convenzione in relazione all’art. 1 del Protocollo n. 1, che sancisce il diritto al rispetto della proprietà dei beni, poichè in relazione al sequestro antimafia, ha considerato la particolare pericolosità del fenomeno mafioso.

In relazione all’art. 6, § 1, che prevede il diritto ad un equo processo in termini ragionevoli, non ha riconosciuto violazione, in quanto tale diritto va riferito ai procedimenti penali, e non a quelli di irrogazione di una misura di prevenzione, dato che la CEDU statuisce che quest’ultima abbia natura e funzione diversa dalla sanzione penale, non presupponendo un reato, ma provenendone la commissione da parte di soggetti ritenuti pericolosi; la confisca, ha funzione preventiva ed è volta ad impedire l’uso illecito dei beni colpiti. La Corte, come detto, non ha riscontrato una violazione dell’art. 1 del Protocollo n. 1 della Convenzione, riguardo alla confisca di prevenzione, giustificata dal fatto che, in Italia, il fenomeno mafioso ha raggiunto livelli molto preoccupanti, e grazie agli elevati guadagni le stesse associazioni mafiose, prosperando con le loro attività illecite, assumevano un potere che poteva adombrare quello dello Stato; per cui la confisca sembrava uno strumento necessario per combattere tale potere.

Nella caso Labita, nel 2000, si è affermata la violazione dell’art. 2 del Protocollo Addizionale n. 4 della Convenzione, quindi della libertà di circolazione, poiché era stata applicata la misura di prevenzione della sorveglianza speciale di polizia e la conseguente cancellazione dalle liste elettorali, la Corte ha affermato che, nel caso concreto, dopo l’assoluzione gli argomenti a sostegno dell’esecuzione della misura, non fossero più rispondenti a giustificare “misure così pesanti” verso il proposto.

La sentenza Bocellari e Rizza c. Italia61, del 2007 ha portato la

CEDU a censurare il procedimento italiano di prevenzione, più in particolare il procedimento camerale, che non garantisce la possibilità per il proposto di sollecitare al giudice la trattazione

61 CEDU, Sez. II, 13 novembre 2007; sentenza commentata da N. Plastina, “Il

rito camerale nelle procedure per le misure di prevenzione nell’ordinamento italiano: la Corte Europea ne assolve l’equità, ma ne censura (parzialmente) la mancanza di pubblicità, in Panorama internazionale-decisioni delle Corti

europee, Cassazione Penale, fasc. 4 del 2008, pag. 1633, Giuffrè, Milano, 2008.

pubblica del caso. La Corte ha affermato che la pubblicità dell’udienza deve intendersi come presidio contro “una giustizia segreta che sfugge al controllo del pubblico” e ha riscontrato una violazione con l’art. 6, § 1 della Convenzione, in quanto la procedura in camera di consiglio contrasta con l’equo processo previsto da tale articolo. A coloro che sono coinvolti in un procedimento di prevenzione per vedersi applicare le relative misure gli si deve “per lo meno offrire la possibilità di sollecitare una pubblica udienza dinanzi alle camere specializzate dei tribunali e delle corti d’appello”.

Nel valutare la compatibilità del sistema preventivo italiano con le norme della CEDU, dobbiamo esaminare le conseguenze di un eventuale contrasto. In questa prospettiva si è pronunciata la Corte Costituzionale, con le sentenze gemelle, n. 348 e n. 349 del 2007, affermando che un eventuale contrasto non può essere risolto dal giudice interno disapplicando la normativa interna contrastante con gli obblighi internazionali.

Il Giudice delle Leggi ha affermato che, a tal fine, non può essere richiamato l’art. 10 Cost., che prevede l’adeguamento automatico del nostro ordinamento alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, riguarda solo i principi generali e le norme consuetudinarie, non comprendendo, invece, le norme contenute in accordi internazionali, come sarebbero quelle della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.

Inoltre, non può essere invocato l’art. 11 Cost. in relazione alle norme di tale Convenzione in quanto non si ravvisa una limitazione della sovranità nazionale, ribadendo la distinzione tra le norme comunitarie e le norme della CEDU, solo le prime hanno un’efficacia diretta nell’ordinamento interno trovando fondamento costituzionale nell’art. 11 Cost. Ne discende, quindi, la non applicabilità di quest’articolo alle disposizioni CEDU, così come la Consulta aveva

già detto con sentenza n. 188 del 1980, e ora è stata ribadita con le richiamate sentenze del 2007. Ha affermato la Corte Costituzionale che le norme della Convenzione “pur rivestendo grande rilevanza, in quanto tutelano e valorizzano i diritti e le libertà fondamentali della persona, sono pur sempre norme internazionali pattizie, che vincolano lo Stato, ma non producono effetti diretti nell’ordinamento interno, tali da affermare la competenza dei giudici nazionali a darvi applicazione nelle controversie ad essi sottoposte, non applicando nello stesso tempo le norme interne in eventuale contrasto”62.

Dunque, la CEDU non ha creato un ordinamento giuridico sovranazionale, a differenza di quanto è accaduto con l’adesione del nostro Paese ai Trattati comunitari, per cui le sue disposizioni non sono direttamente applicabili negli Stati contraenti.

Già con le sentenze gemelle la Corte Costituzionale aveva sottolineato la necessità di rivalutare il ruolo della Convenzione all’interno del nostro ordinamento in relazione all’art. 117 Cost., così come modificato dalla legge costituzionale n. 3 del 2001.

Prima di tale modifica la conformità delle leggi ordinarie alle norme di diritto internazionale convenzionale era suscettibile di sindacato di legittimità costituzionale solo in caso di violazione diretta di norme costituzionali, ora, invece, con la nuova formulazione dell’art. 117 Cost., che impone che le leggi siano conformi agli obblighi internazionali assunti dal nostro Paese, comporta che se la normativa nazionale è incompatibile con la normativa CEDU, e quindi con “gli obblighi internazionali” ex art. 117 Cost., viola per ciò tale dettato costituzionale.

Proprio su queste argomentazioni la Corte Costituzionale, con sentenza n. 93 del 2010, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 della legge n. 1423 del 1956 e dell’art. 2 ter della legge n. 575 del 1965, proprio per violazione dell’art. 117 Cost. 1° comma e dell’art. 6 § 1 della CEDU, nella parte in cui non consentivano che,

su istanza degli interessati, il procedimento di prevenzione si potesse svolgere, in Tribunale e in Corte d’Appello, con l’udienza pubblica.

11. La sentenza De Tommaso: un auspicabile punto di