Misure di sicurezza e infermità mentale
2. Gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e il vento di cambiamento della Legge Basaglia
Nei capitoli precedenti abbiamo visto che la disciplina del codice penale del ‘30 è entrata in crisi, prima con le sentenze della Corte Costituzionale e poi con la c.d. legge Gozzini, che elimina le presunzioni di pericolosità; anche nel contesto socio-culturale, nella seconda metà degli anni Settanta, si assiste al venir meno del binomio malattia mentale-pericolosità sociale, con l’approvazione nel 1978 della legge n.180 detta legge Basaglia, portatrice dell’abbandono del trattamento del malato con la segregazione, a favore di un approccio che prevedeva l’integrazione del malato mentale nella società.
In questa situazione la misura di sicurezza veniva considerata sproporzionata in relazione alla sua incidenza sulla libertà personale del soggetto e controproducente dal punto di vista curativo, dato che, spesso, era possibile contenere il pericolo di ulteriore commissione di reati in strutture aperte o con percorsi terapeutici nei centri di salute mentale.
La riforma psichiatrica del 1978 ha iniziato il percorso per ridimensionare il ruolo dell’ospedale psichiatrico giudiziario (nome mutato dei manicomi giudiziari con la riforma dell’ordinamento Penitenziario del 1975), data la presa di coscienza, non solo da parte degli addetti ai lavori, ma anche da parte dell’opinione pubblica, delle gravi e fatiscenti condizioni in cui versavano tali strutture. Nel codice Rocco il termine minimo di durata delle misure di sicurezza in simbiosi con le presunzioni di pericolosità, rendeva possibile protrarre la limitazione della libertà personale oltre il termine della pena che sarebbe stata applicata per lo stesso fatto ad un soggetto imputabile. Questo approccio sottendeva la soddisfazione di esigenze retributive, “mascherandole sotto le vesti della prevenzione speciale”24.
Con la sentenza della Corte Costituzionale n. 110 del 1974, è stata dichiarata illegittima la competenza del potere di revoca della misura di sicurezza del Ministro di Grazia e Giustizia conferendola al magistrato di Sorveglianza. In questo modo l’esecuzione delle misure di sicurezza veniva giurisdizionalizzata e veniva meno il carattere retributivo contrario alla dichiarata funzione special-preventiva delle misure di sicurezza.
Con l’entrata in vigore del codice di procedura penale, l’art. 649, ha previsto l’ulteriore controllo della pericolosità sociale nel momento iniziale dell’esecuzione della misura di sicurezza, e ciò si dimostrava più rispettoso del principio di sussidiarietà e di extrema ratio, col
24 M. Pelissero, “Pericolosità sociale e doppio binario, vecchi e nuovi
risultato che, in base a tale accertamento, ove possibile, venissero offerti percorsi curativi alternativi all’internamento.
Il risultato fu una diminuzione del numero degli internamenti negli OPG; ma lasciando alla magistratura l’accertamento sulla pericolosità sociale, si rendevano possibili disparità di trattamento e incertezze di giudizio, con le difficoltà che si creano per un tale giudizio prognostico.
I destinatari dell’OPG non erano solo i soggetti non imputabili per vizio di mente, sordomutismo o intossicazione da alcool o sostanze stupefacenti, ma anche soggetti la cui storia processuale era stata interessata da un disturbo psichico e i soggetti che erano in osservazione o con pena o processo sospeso. Questo rendeva l’OPG un luogo non destinato ad una categoria omogenea, ma variegata, dove gli internati vivevano spesso in condizioni degradanti e inumane.
La legge Basaglia del 1978, che nacque da una forte sensibilizzazione anche dell’opinione pubblica sulla condizione del malato mentale, di cui si deve il merito alla corrente del pensiero psichiatrico dell’Antipsichiatria; questa nacque negli anni Sessanta, e si faceva portatrice di una visione del malato che risentiva, certamente, delle idee di quel periodo storico: infatti, il malato era considerato un soggetto emarginato dalla società e neutralizzato con la segregazione negli istituti manicomiali.
La legge n. 180 del 1978 ha avuto il merito di eliminare dal nostro ordinamento i manicomi civili, ma ha lasciato dei vuoti in relazione ai necessari interventi socio-sanitari per i pazienti una volta dimessi dalle strutture esistenti ed, inoltre, i manicomi giudiziari non vennero toccati, ma lasciati alla disciplina del codice penale.
Continuava ad esserci un trattamento diverso tra autori di reati e non autori di reati: per i primi la misura di sicurezza era focalizzata sulla neutralizzazione e incapacitazione più che sulla cura, mentre per i
secondi il trattamento terapeutico si tentava attraverso percorsi volontari ed extraospedalieri.
Paradossalmente, però, la chiusura dei manicomi civili ha fatto registrare un aumento degli internamenti in quelli giudiziari, in quanto uniche strutture disponibili e che fecero della misura di sicurezza lo strumento supplente per i malati di mente. La distinzione di trattamento tra malati di mente autori e non autori di reato, si fonda sulla commissione, appunto, di un fatto di reato, ma non si prendeva in considerazione il fatto che tale reato era conseguenza di una patologia mentale.
La riforma del 1978 ha constatato che i manicomi non fossero i luoghi adatti per la cura del malato di mente; tale legge prende le distanze dall’idea di dover dare risposte alle sole esigenze preventive nei confronti della società, per dare maggiore importanza alle esigenze curative del paziente e al suo rispetto come essere umano. Come detto, la normativa, purtroppo, non riguardava i malati mentali che avessero commesso un reato, per i quali è ancora previsto il trattamento manicomiale; quest’impostazione è stata più una mancanza di coordinamento col codice penale piuttosto che una precisa volontà del legislatore.
Il ricovero nell’ospedale psichiatrico giudiziario si giustificava per due motivi: da una parte si presumeva che la malattia mentale fosse sempre un fattore di elevata pericolosità, che impone la chiusura del soggetto per neutralizzarlo, e dall’altra perché l’internamento era visto come curativo, secondo l’ideologia manicomiale.