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La sentenza De Tommaso: un auspicabile punto di partenza

Misure di prevenzione personal

11. La sentenza De Tommaso: un auspicabile punto di partenza

Una svolta fondamentale nella giurisprudenza della CEDU è sicuramente la sentenza della Grande Camera del 23 febbraio del 2017, col caso De Tommaso c. Italia63, relativa alle misure di

prevenzione, di cui fino ad allora era stata riconosciuta la compatibilità con i principi della Convenzione, eccezion fatta per la mancanza di un’udienza pubblica.

Il ricorrente De Tommaso, considerato socialmente pericoloso era stato sottoposto, nell’aprile 2008, alla sorveglianza speciale con l’obbligo di soggiorno per due anni dal Tribunale di Bari. La Corte d’Appello, nel 2009, non ritenendo sufficienti le prove relative alla sua pericolosità, annulla la misura di prevenzione.

De Tommaso, nel 2003, era stato condannato per traffico di droga e traffico illegale di armi, scontando quattro anni di reclusione; per cui le sue attività di traffico di droga risalivano a più di cinque anni prima, e in seguito era stato condannato per evasione nel 2004, per violazione delle prescrizioni relative alla misura di sicurezza.

Gli altri reati del 25 e del 29 aprile del 2007, considerati dal Tribunale come elementi da cui desumere la pericolosità sociale del proposto, gli sono stati attribuiti per errore, infatti erano reati commessi da un suo omonimo e comunque riguardanti violazioni di prescrizioni inerenti a misure di prevenzione.

63 Su tale sentenza, S. Finocchiaro, “Le misure di prevenzione italiane sul

banco degli imputati a Strasburgo”, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, fasc. 2 del 2017, pag. 881, Giuffrè, Milano, 2017; F. Viganò, “La Corte di Strasburgo assesta un duro colpo alla disciplina italiana delle misure di prevenzione personali”, in Osservatorio sovranazionale-Consiglio d’Europa

L’informativa dei Carabinieri del gennaio 2008, con cui si collegava il proposto con pregiudicati, con i quali era stato visto parlare, non è stata ritenuta sufficiente per dedurne la sua pericolosità sociale, dato che non era più stato sottoposto a procedimenti giudiziari.

La Corte d’Appello ha ritenuto che, le attività illegali erano risalenti e che non era stato preso nella dovuta considerazione il fatto che era intervenuta la rieducazione del soggetto e che questo svolgesse un’onesta attività lavorativa, in aggiunta alla mancanza di rapporti con delinquenti abituali.

Il ricorrente riteneva che la misura di prevenzione alla quale era stato sottoposto per due anni, violasse l’art. 5 § 1, l’art. 6, l’art. 13 della CEDU e l’art. 2 del Protocollo Addizionale della stessa Convenzione. La CEDU ha precisato che l’art. 5 § 1, affermando il diritto alla libertà personale, contempla la libertà fisica della persona, per cui, non riguarda semplici restrizioni della libertà di circolazione, disciplinati dall’art. 2 del Protocollo n. 4.

Per determinare se qualcuno è stato privato della sua libertà personale, è necessario partire, come detto sopra, dalla situazione concreta, considerare il tipo, gli effetti, le modalità di esecuzione e la durata della misura di prevenzione applicata. La distinzione tra privazione e restrizione della libertà personale risiede nella gradazione o nell’intensità e non nella diversa sostanza.

La giurisprudenza della CEDU ha sempre ritenuto che la disciplina delle misure di prevenzione personali italiane incidesse sulla libertà di movimento, ma non sulla libertà fisica del soggetto, con l’eccezione della sentenza Guzzardi c. Italia, in cui, come detto sopra, si rinveniva una violazione ai sensi dell’art. 5, § 1 della CEDU.

Nel caso in esame, la Corte ha ritenuto che non si ravvisasse una privazione della libertà personale del ricorrente di cui all’art. 5 della Convenzione, ma solo restrizioni della libertà di movimento; dunque

si esclude la violazione di tale articolo, mentre si riconosce la violazione dell’art. 2 del Protocollo n. 4 della stessa Convenzione, il quale sancisce la libertà di movimento di ogni persona, per cui ogni misura restrittiva di tale libertà deve essere conforme alla legge, perseguire uno degli obiettivi legittimi previsti dal 3° comma dell’art. 2 del Protocollo n. 4 e prevedere un bilanciamento tra l’interesse dell’individuo e l’interesse della collettività.

La valutazione della conformità della misura restrittiva alla legge richiede, in base alla costante giurisprudenza della Corte, non solo che la misura contestata abbia una base nell’ordinamento statale, ma anche che sia accessibile alle persone interessate e prevedibile quanto ai suoi effetti, in modo da consentire la modulazione dei propri comportamenti.

La Corte, rinvenendo la base giuridica delle misure in questione nella legge n. 1423 del 1956 e riscontrando la sua accessibilità, da parte delle persone interessate, doveva valutare la prevedibilità della legge italiana sulle misure di prevenzione, cioè la possibilità per i cittadini di prevedere le conseguenze punitive che un determinato fatto comporta.

A tal fine viene esaminata la categoria di soggetti a cui si devono applicare le misure di prevenzione e il loro contenuto. Il ricorrente De Tommaso lamentava la mancanza di prevedibilità e di precisione della legge italiana, per cui la Corte ha valutato la normativa interna, relativamente all’individuazione dei soggetti cui le misure erano applicabili, in base alla giurisprudenza della Corte Costituzionale. Quest’ultima aveva dichiarato la legge incostituzionale per quanto riguarda la categoria dei soggetti “proclivi a delinquere”64, mentre

per le altre classi di soggetti, ha ritenuto che la legge n. 1423 del 1956 sia sufficientemente precisa nel prevedere i comportamenti da ritenersi indicativi della pericolosità sociale.

Inoltre, la Consulta ha affermato che il fatto di appartenere ad una delle categorie dell’art. 1 della legge del 1956, non comporta una condizione sufficiente per applicare una misura di prevenzione, ma è necessario riscontrare la pericolosità sociale del soggetto; per cui tale misura poteva essere applicata, non sulla base del “mero sospetto”, ma sulla base di “elementi di fatto” da cui risultasse un comportamento indicativo della pericolosità sociale.

La CEDU, nonostante le pronunce della Corte Costituzionale, per chiarire i criteri di applicazione delle misure di prevenzione, ritiene che tale applicazione sia legata alle valutazioni dei Tribunali italiani, in quanto, né la legge, né la Corte Costituzionale “hanno chiaramente identificato ‘gli elementi fattuali’ né le specifiche tipologiche di condotta che devono essere prese in considerazione per valutare la pericolosità sociale dell’individuo” . Dunque, la CEDU ha ritenuto che la legge “non contenga previsioni sufficientemente dettagliate su che tipo di condotta sia da considerare espressiva di pericolosità sociale”.

La legge, non indicando con sufficiente chiarezza comportamenti censurabili né la portata dell’ampia discrezionalità conferita ai giudici nazionali, comporta una mancanza di protezione dalle interferenze arbitrarie e l’impossibilità per il ricorrente di modulare la propria condotta, prevedendo con sufficiente certezza l’applicazione delle misure di prevenzione.

La Corte di Strasburgo ritiene che la violazione sussista perché la misura di prevenzione, nel caso valutato, era stata applicata prendendo in considerazione “le tendenze criminali attive”, senza attribuire specifici comportamenti criminali attuali, basandosi sul fatto che il soggetto non avesse un’occupazione regolare e che frequentasse esponenti della malavita locale e che in passato avesse commesso reati.

Inoltre la CEDU nega la conformità della normativa italiana sulle misure di prevenzione al principio di determinatezza, in quanto alcune prescrizioni che possono essere previste sono troppo vaghe e indeterminate, come le prescrizioni di “vivere onestamente e rispettare le leggi” e “non dare adito a sospetti”, per le quali la CEDU ha richiamato la giurisprudenza della Corte Costituzionale, che aveva ritenuto queste rispondenti al principio di legalità, nella sentenza n. 282 del 2010.

La Corte di Strasburgo ha ritenuto comunque non sufficientemente chiariti tali obblighi dalla Consulta in quanto: “il dovere, imposto al prevenuto, di rispettare tutte le norme a contenuto precettivo, che impongano cioè di tenere o non tenere una certa condotta; non soltanto le norme penali, dunque, ma qualsiasi disposizione la cui inosservanza sia ulteriore indice della già accertata pericolosità sociale” è un riferimento all’intero ordinamento giuridico italiano e non dà ulteriori chiarimenti su quali norme la cui inosservanza sarebbe un indice di condotta pericolosa per la società.

In più la normativa italiana che consente ai giudici nazionali di applicare le prescrizioni che ritengano necessarie per la difesa sociale, non ne specifica il contenuto. Inoltre la prescrizione obbligatoria di “non partecipare alle pubbliche riunioni” senza alcun limite temporale e spaziale, alla limitazione di questa fondamentale libertà, viene affidata alla mera discrezionalità dei giudici.

Da tutto ciò, secondo i giudici di Strasburgo, consegue che la legge italiana sulle misure di prevenzione non è sufficientemente determinata e quindi non risponde ai criteri di prevedibilità. Per cui nei confronti del ricorrente non era prevedibile l’applicazione della misura, che non era neppure accompagnata da garanzie contro i possibili abusi; dunque, l’incisione nella sua libertà di movimento non è fondata su disposizioni che soddisfino i criteri di legalità della Convenzione, in contrasto con l’art. 2 del Protocollo n. 4.

L’individuo che si vede limitata la sua libertà di circolazione per l’irrogazione di una misura preventiva, non è posto nelle condizioni di prevedere quali condotte debba o non debba tenere per evitare di incorrere in una misura di prevenzione o per evitare la violazione di prescrizioni connesse alla sorveglianza speciale di pubblica sicurezza.

In relazione alla violazione del diritto ad un equo processo, previsto dall’art. 6, 1°comma della CEDU, in particolare nel caso di specie, per la mancanza della possibilità di avere un’udienza pubblica. La CEDU aveva già condannato l’Italia per tale motivo ma relativamente a procedimenti di prevenzione per misure patrimoniali, cui era seguita una sentenza in tal senso anche della Corte Costituzionale65, e l’introduzione nel 1° comma dell’art. 7 del decreto

legislativo n. 159 del 2011, della possibilità di richiedere l’udienza pubblica; a maggior ragione in questo caso, sarebbe dovuta essere garantita tale pubblicità in ragione del carattere personale della misura di prevenzione.

Per quanto riguarda l’art. 13 della Convenzione, la CEDU non ha ravvisato violazione, in quanto il ricorrente ha avuto a disposizione un rimedio effettivo nell’ordinamento interno, con l’impugnazione davanti alla Corte d’Appello di Bari, conclusasi, peraltro in suo favore.

È interessante rilevare le diverse opinioni dei giudici di Strasburgo relativamente a tale causa.

Da una parte abbiamo l’opinione concorrente del Presidente Raimondi e di altri quattro giudici66, che concordano con la

maggioranza sul fatto che ci sia stata una violazione dell’art. 2 del Protocollo n. 4, ma non per l’indeterminatezza della legge italiana, ma per il fatto che nel caso concreto non era necessario applicare la misura di prevenzione, risultando in effetti sproporzionata la

65 Sent. n. 93 del 2010, C. Cost.

limitazione della libertà di circolazione del ricorrente, dato che la sua pericolosità sociale era stata dimostrata dal Tribunale di Bari sulla base di prove riferite, in realtà, ad un omonimo e senza che sussistesse un concreto contatto con criminali abituali. Quindi sì alla violazione, ma non a causa dell’imprecisione del legislatore, ma per il carattere sproporzionato della misura prevista dai giudici del Tribunale.

La posizione del giudice Dedov, il quale non contesta la violazione del principio di proporzione nel caso concreto, ma la conformità a tale principio delle misure di prevenzione personali in toto, in quanto non sarebbero funzionali allo scopo di risocializzare il soggetto. Interessante l’opinione dissenziente del giudice Pinto de Albuquerque, che critica duramente il sistema delle misure di prevenzione personali italiane e la loro stessa qualificazione come misure preventive; infatti ritiene che queste abbiano natura penale e siano pene basate sul sospetto e dovrebbero essere sottoposte all’art. 6 della CEDU; inoltre rappresentano una violazione dell’art. 5 della Convenzione, in quanto privano del diritto alla libertà personale e non sarebbero compatibili con tale articolo perché non rispettano il principio di legalità lì previsto e neppure alcuno degli scopi previsti che possano giustificare la restrizione della libertà. Inoltre il giudice Pinto ritiene insufficienti i rimedi forniti dall’ordinamento interno, ragion per cui sostiene sia stato violato anche l’art 13 della CEDU. L’opinione del giudice della Corte di Strasburgo è una forte presa di posizione sul sistema della misure di prevenzione personali, considerate incompatibili con i principi di uno Stato di diritto. Tale visione è certamente condivisa dalla dottrina maggioritaria, che vede in tali misure “pene del sospetto, che consentono in qualche modo di punire coloro che non si riesce a condannare in sede penale, nonché misure aventi effetti desocializzanti e discriminatori”67.

67 A. M. Maugeri, “Misure di prevenzione e fattispecie a pericolosità

Si deve riconoscere la portata rivoluzionaria di tale sentenza. Con essa si denuncia la mancanza, nella legislazione italiana in materia di misure di prevenzione, della tassatività, e non la mera violazione dei principi della Convenzione in relazione al caso concreto.

Si contestano misure che limitano la libertà personale, che si ancorano ad un giudizio di pericolosità, senza indicare tassativamente i presupposti di tale giudizio; sia la disciplina della pericolosità generica prevista dall’art. 1, lett. a) e b) del Codice Antimafia, sia la disciplina delle prescrizioni riguardanti la sorveglianza speciale, sono state ritenute incompatibili con i requisiti richiesti alla legge per poter restringere un diritto della CEDU. La sentenza in esame ha posto, fin dall’inizio, la questione riguardo quali effetti ne discendono per i giudici nazionali. Su tale tema è intervenuto il Tribunale di Milano, Sezione Misure di Prevenzione, che con decreto del 7 marzo del 2017 afferma che il giudice nazionale non ha alcun obbligo di porre a fondamento del proprio processo interpretativo la sentenza De Tommaso.

Tale conclusione del Tribunale, si basa sulla sentenza n. 45 del 2015 della Corte Costituzionale, con cui si era pronunciata sulle modalità con cui il giudice interno deve utilizzare la giurisprudenza della CEDU.

La Consulta ha precisato che, solo nel caso in cui ci sia un “diritto consolidato” o “una sentenza pilota” della CEDU, “il giudice italiano sarà vincolato a recepire la norma individuata a Strasburgo, adeguando ad essa il proprio criterio di giudizio per superare eventuali contrasti rispetto ad una legge interna”.

Per cui il Tribunale di Milano ha escluso che il giudice interno abbia un obbligo di adesione ai principi sanciti dalla sentenza De Tommaso in quanto la questione non era mai stata affrontata dalla CEDU, la precedente giurisprudenza di Strasburgo aveva ritenuto conforme alla

‘legge’, ma una rondine non fa primavera”, in Dirittopenalecontemporaneo.it,

Convenzione la disciplina delle misure di prevenzione italiana; aveva riconosciuto eventuali violazioni della disciplina in relazione al caso concreto e non in relazione alla sua formulazione; e le opinioni dissenzienti erano solide, per cui non si attribuiva alla sentenza De Tommaso la funzione di sciogliere una questione di principio.

Diverso è stato l’approccio della Corte d’Appello di Napoli che ha sollevato questioni di legittimità costituzionale68 di numerose norme

relative alla disciplina delle misure di prevenzione, ritenendo ci sia un contrasto di quest’ultima con la libertà di circolazione dell’art. 2 del Protocollo Addizionale n. 4 della CEDU, stante la sentenza De Tommaso. Per cui sussistendo tale contrasto, e poiché in base all’art. 117 Cost., la legge deve rispettare i vincoli derivanti dagli obblighi internazionali, dunque anche gli obblighi che derivano dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, le sentenze della CEDU che interpretano la Convenzione, anche se non obbligano il giudice nazionale ad applicarle direttamente, costituiscono un parametro costituzionale interposto, in quanto la norma della Convenzione assume, così come interpretata dalla Corte, rango costituzionale, per cui il giudice, se non ritiene possibile arrivare ad un’interpretazione della norma interna conforme alla norma della Convenzione, dovrà sollevare questione di legittimità costituzionale della norma nazionale con l’art. 117 Cost. in relazione al contrasto con la norma convenzionale.

Secondo la Corte d’Appello di Napoli, poiché non si rinviene un’interpretazione della normativa interna conforme alla Convenzione, deve sollevare questione di legittimità costituzionale.

68 La Corte d’Appello di Napoli ha sollevato questione di legittimità degli artt. 1, 3, 5 della legge n. 1423 del 1956; dell’art. 19 della legge n. 152 del 1975 e degli artt. 1 e 4, 1°comma, lett. c), 6 e 8 del decreto legislativo n. 159 del 2011, in quanto in contrasto con l’art. 117, 1°comma, Cost., per violazione dell’art. 2 del Protocollo addizionale n. 4 della CEDU. Ha sollevato, inoltre, questione di legittimità costituzionale dell’art. 19 della legge n. 152 del 1975 per contrasto con l’art. 117, 1°comma, Cost., per violazione dell’art. 1 del Protocollo Addizionale n. 1 della Convenzione e per contrasto con l’art. 42 Cost.

Anche il Tribunale di Udine69 si è pronunciato negli stessi termini

rispetto a tale tema.

In senso contrario, invece, il Tribunale di Roma70 e quello di

Palermo71, i quali hanno ritenuto che, anche a seguito della sentenza

De Tommaso, il giudice nazionale può continuare ad applicare la normativa interna che prevede i requisiti soggettivi e le modalità prescrittive delle misure preventive, interpretandole conformemente alla Convenzione; tali Tribunali, non ritenendo la sentenza in esame, un precedente consolidato, affermano che il giudice non ne sia vincolato nella sua interpretazione. I due Tribunali, hanno comunque effettuato un’interpretazione delle norme interne convenzionalmente orientata, in modo da sopperire alle criticità evidenziate dalla Corte di Strasburgo.

Dopo quest’importante sentenza della Grande Camera della CEDU, da una parte c’è chi ritiene doveroso un intervento del legislatore, in modo da tipizzare la disciplina sulle misure di prevenzione; dall’altra c’è chi ritiene sufficiente, in base a quanto affermato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 49 del 2015, sollevare questione di legittimità costituzionale.

All’indomani della sentenza De Tommaso, che ha scardinato le già esigue certezze sul sistema preventivo, ci si interroga, come già la dottrina, faceva da tempo, se tale sistema sia rispondente ai principi di uno Stato di diritto. La giurisprudenza e il legislatore sono chiamati a dare risposte di riforma del sistema di prevenzione, dal punto di vista sostanziale e procedurale.

Certamente è nella dottrina che si rinviene il grande sostenitore della sentenza della CEDU in commento; un’occasione a riprova di ciò è stato lo studio sul tema “Giustizia Penale ed Economia – Ricordando

69 In data 4 aprile 2017, il Tribunale di Udine ha sollevato questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 117 Cost., da parte degli artt. 4, 1°comma, lett c), 6 e 8 del decreto legislativo n. 159 del 2011.

70 In data 3 aprile 2017. 71 In data 28 marzo 2017.

Giovanni Falcone con Francesca Morvillo e Paolo Borsellino”, tenutosi il 22 maggio 2017 nell’Aula Magna della Corte di Cassazione, alla quale hanno partecipato autorevoli giuristi sia italiani che internazionali, tra cui anche il giudice della CEDU, Paulo Pinto de Albuquerque. Egli ha affrontato la tematica delle misure di prevenzione italiane, ribadendo sostanzialmente la sua opinione già espressa nella sentenza De Tommaso, affermando che esse hanno natura penale e che, per la loro incidenza nella libertà del proposto, configurano una vera e propria limitazione della libertà personale, in contrasto con l’art. 5 della CEDU. Contrasterebbero con tale articolo in quanto sono contrarie al principio di legalità richiesto e non perseguono alcuno scopo che possa giustificare tale limitazione. L’opinione prevalente di questa manifestazione ha ravvisato tutte le criticità della normativa italiana sul sistema preventivo, che nonostante tenti di tutelare la collettività, lo fa sacrificando eccessivamente gli interessi del preposto, e quindi, le libertà fondamentali su cui si deve fondare uno Stato democratico.

Si è ravvisata una certa resistenza dei giudici nazionali nell’accogliere la sentenza della Corte di Strasburgo e una conseguente necessaria riforma del sistema preventivo.

Al contrario la dottrina ritiene che limitare la portata di tale sentenza, ritenendo che questa non vincoli il giudice interno, si basa su un’interpretazione errata della sentenza n. 49 del 2015 della Corte Costituzionale; bisognerebbe ritenere la sentenza CEDU una “sentenza pilota” alla quale il giudice nazionale dovrebbe conformarsi per evitare eventuali contrasti tra norma interna e norma convenzionale, ricorrendo, se non ci fossero altri strumenti, all’incidente di legittimità costituzionale.

Anche la V Sezione Penale della Corte di Cassazione ha previsto lo