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La legge finanziaria regionale

3. Gli sviluppi del coordinamento

3.1. La legge finanziaria regionale

Rispetto ad altri temi funzionali all’impianto delle regioni, il

dibattito sull’assetto finanziario ha suscitato interesse tra i politici,

i giuristi e i contabilisti. È solo con l’istituzione delle regioni a

statuto ordinario che si è delineata una legge organica sull’assetto

finanziario, attuando i principi costituzionali in materia di autono-

mia, ora modificati in senso molto più ampio dalle riforme.

1.

Si trattava della legge 16 maggio 1970, n. 281 dal titolo

« Provvedimenti finanziari per l’attuazione delle Regioni a statuto

ordinario » che delineava la struttura delle entrate regionali (

67

).

ricorda che recenti indirizzi della giurisprudenza costituzionale segnalano che l’autonomia legislativa regionale in materia tributaria si configurava come un aspetto (o specie) dell’autonomia finanziaria e trovava la fonte specifica di disciplina nell’art. 119, comma 1, Cost. che riconosceva alle Regioni anche l’autonomia tributaria « nelle forme e limiti stabiliti da leggi della repubblica », 1668. Attualmente, come si vedrà più oltre, non è più vera tale affermazione; perché con il regionalismo in forma federalista le regioni si sganciano dai vincoli della legge statale.

(67) Della finanza delle regioni a statuto ordinario si era occupata in un primo momento la « Commissione Tupini » che cercò di individuare nel bilancio dello Stato la spesa che questo già affrontava nelle singole regioni per le materie indicate nell’art. 117 Cost., aggiungendo le spese organizzative sostenute per le regioni a statuto speciale. Il problema del « costo » delle regioni venne di nuovo affrontato nel 1966 dal « Comitato Carbone ». Per il finanziamento di tale costo il 21 novembre 1962 venne presentato alla Camera il disegno di legge n. 4281 sostanzialmente basato sulla assegnazione alle regioni di quote di tributi erariali (cfr. A. GABOARDI, Note di commento al disegno di legge sulla finanza regionale, in Riv. Prov., 1962, ott.-nov.), sostituito nel 1964 con un altro disegno di legge. Un confronto dell’articolato della Commissione Tupini e del d.d.l. n. 4281 è svolto da F. PICA, La finanza..., cit., 23 ss. il quale segnala che le « partecipazioni costituiscono (...) nella finanza regionale italiana, il mezzo di finanziamento che si ritiene debba essere largamente prevalente », e che « per quanto riguarda il problema dell’assicurare alle autorità locali una sufficiente autonomia, questa, attraverso il sistema delle partecipazioni, è concretamente garantita, essendo agli Enti locali attribuite entrate indipendenti dalle decisioni o dall’atteggiamento del potere esecutivo ». A fini di coordinamento « sia la legislazione che l’ammini- strazione delle imposte (...) possono essere riservate alla competenza del potere centrale, cui sarà perciò possibile il ricercare, attraverso la disponibilità piena dello strumento fiscale, il conseguimento dei suoi propri fini di politica economica e finanziaria », 29 ss. Tra i difetti che consigliano « un ricorso meno assorbente

In precedenza uno dei problemi più attentamente studiati era

già stato quello del « costo » delle regioni e dei mezzi per il loro

finanziamento, nella convinzione che le regioni avrebbero determi-

nato soltanto un passaggio di funzioni dallo Stato.

Ne è scaturita una soluzione parziale e di compromesso del-

l’impianto finanziario regionale. La legge n. 281 del 1970, d’al-

tronde, si prefiggeva di eliminare gli ostacoli che impedivano la

pratica attuazione e lo sviluppo delle regioni (non a caso accanto

alle disposizioni finanziarie, l’art. 17 disponeva la delega al governo

per il passaggio delle funzioni, valutando così i limiti della spesa

regionale (

68

); modificando l’art. 9 della legge 10 febbraio 1953, n.

62 poneva invece le basi per l’attività normativa delle regioni nelle

materie di competenza).

La disciplina finanziaria tuttavia introdotta, seppure di primo

impianto, era già sufficientemente articolata e fissava le basi per un

assetto più duraturo dell’intera materia (

69

).

a tale meccanismo » nota come una accentuata prevalenza del sistema delle partecipazioni « tende a far sì che le spese dell’Ente derivino dall’ammontare della partecipazone ad esso concessa dallo Stato, e non piuttosto che l’ammontare delle sue disponibilità vari in conformità con le sue esigenze di bilancio », 30.

« Ciò naturalmente annullerebbe quasi del tutto l’autonomia delle Regioni in materia di entrata, riducendo perciò a zero ogni possibilità che esse, sia pure entro ragionevoli limiti, siano automamente in grado di rintracciare una sufficiente copertura per quegli incrementi di spesa che avessero a decidere (...) cioè l’auto- nomia finanziaria degli Enti (...) viene compressa, almeno in materia di entrate, entro ristrettissimi limiti », 33-34.

(68) « In senso tecnico è rimasto sempre chiaro che il vero scopo di ogni indagine sulle funzioni e relative spese (da attribuire alle regioni) è quello della necessità del rispetto di una dottrina finanziaria la più ortodossa e democratica, che insegna come negli enti pubblici la spesa precede l’entrata. Là dove non è possibile stabilire prima la spesa esatta dell’Ente per il suo normale funziona- mento, si deve tentare in ogni modo di preventivarla con la maggiore approssi- mazione almeno globalmente, onde evitare che la dotazione della relativa entrata risulti insufficiente o troppo elevata rispetto alle esigenze normali di copertura perenne », U. BOTTICELLI, in Nuova Rassegna, 1970, n. 5, 478.

(69) Sono « previste forme tendenzialmente stabili di finanziamento delle regioni operando alcuni collegamenti con l’imminente riforma tributaria generale e prevedendo all’art. 19 dei criteri di adeguamento del fondo istituito per la ripartizione del gettito delle quote di tributi erariali assegnate alle regioni ». Purtroppo però « sono stati invertiti i termini del problema posto dal legislatore costituente e le regioni sono concepite piuttosto che in termini di decentramento partecipazione e razionalizzazione amministrativa, in termini di sostituzione allo Stato nella misura compatibile con i mezzi finanziari a disposizione », A. FANTOZZI,

Ma è sotto il profilo costituzionale che la legge n. 281 del 1970

ha subito le critiche più consistenti, alla luce degli orientamenti

sull’autonomia finanziaria e poi sul federalismo; per quanto con-

cerne il versante più ristretto delle entrate, sull’autonomia tributa-

ria. L’impressione, in definitiva, è quella che da un’ampia visione

dell’autonomia regionale, la legge n. 281 del 1970 sia il risultato di

un disegno politico che riduce quell’autonomia nell’ambito della

legge ordinaria.

2.

Per « tributi propri » (di cui oggi non avrebbe più senso

parlare) la legge finanziaria compredeva l’imposta sulle concessioni

statali di beni del demanio e del patrimonio indisponibile (

70

), la

tassa sulle concessioni regionali, quella di circolazione e per l’oc-

cupazione di spazi e aree pubbliche.

In realtà si trattava di tributi a disposizione del legislatore

statale; le regioni potevano soltanto fissare « le norme di attuazione

necessarie per l’applicazione dei tributi propri », realizzando una

potestà legislativa nella materia tributaria di carattere integrativo

delle norme statali. L’unico spazio di manovra consentito era

quello sull’ammontare dell’imposta che oscillava entro un margine,

minimo e massimo, delle « corrispondenti entrate fiscali dello

Stato ».

L’art. 14, che pure autorizzava le regioni ad istituire con legge

tributi propri « e gli altri che saranno previsti dalla prima legge di

Tributi..., cit. « Una soluzione-ponte, transitoria, del problema della finanza regio-

nale, deve essere sufficientemente concreta e realistica e, nello stesso tempo, tale da non compromettere, ma semmai da anticipare i principi essenziali su cui dovrà poggiare la soluzione definitiva », M. GUARNIERI, Problemi..., cit., 1353. Su questi aspetti cfr. V. AMOROSINO, Il primo..., cit., 1760 ss., ARMANI, La finanza regionale, in Biblioteca delle libertà, 1970, n. 24 che sottolinea la provvisorietà del provvedi- mento destinato ad essere sostituito con un sistema più complesso e soddisfacente e E. GIZZI, La legge sulla finanza regionale, in Nuova Rassegna, 1969, n. 4, 385. Per un’analisi della legge finanziaria cfr., U. DESIERVO, A. ORSIBATTAGLINI, D. SORACE, R. ZACCARIA, Situazione finanziaria delle Regioni a statuto ordinario ed esigenze di

riforma, ricerche al Convegno Stato attuale..., cit., 209.

(70) Con questa imposta si è voluta colpire la manifestazione di capacità contributiva rappresentata dalla semplice sussistenza di concessioni statali sui beni indicati. « Il legislatore ha ritenuto che la sussistenza della concessione statale potesse essere assunta a presupposto dell’imposta regionale anche in considera- zione del fatto che il canone di concessione è talora inadeguato al reale valore economico del bene dato in concessione. Ne residuerebbe una ricchezza che ben può essere colpita con l’imposta regionale », A. FANTOZZI, Tributi..., cit.

riforma tributaria » in rapporto alle spese necessarie per adempiere

alle loro funzioni normali, era quindi un’affermazione di principio,

più che il riconoscimento di un’autonomia tributaria vera e propria.

Era prevalsa, insomma, la tesi di coloro che ponevano l’autonomia

tributaria delle regioni sullo stesso piano degli enti territoriali

minori; con la differenza della natura legislativa dell’atto istitutivo

del tributo (

71

).

3.

Alle regioni veniva assegnato il gettito delle imposte

erariali sul reddito dominicale e agrario dei terreni e sul reddito dei

fabbricati relativo agli immobili situati nel rispettivo territorio;

precisamente nella misura del 50% per gli anni 1971 e 1972 ed

integrale per l’anno 1973.

L’intera disciplina della materia veniva riservata alla legge

dello Stato, costituendo così per le regioni una fonte di mezzi

finanziari senza vincoli di scopo (

72

). Poco più tardi il D.P.R. 29

settembre 1973, n. 599 sostituì il gettito con la partecipazione

regionale all’imposta locale sui redditi patrimoniali, nella misura

stabilita dalle regioni entro un margine che oscillava tra l’1 e il

2% (

73

).

(71) C. ZOPPIS, Considerazioni..., cit., 1159 parla di soluzione di compro- messo che soddisfa in larga parte le tesi dei « partecipazionisti ».

(72) « Siamo di fronte ad una disciplina che non solo nega la potestà legislativa regionale in materia tributaria, ma nega qualunque configurazione accettabile di autonomia tributaria: risulta di estrema chiarezza che i tributi propri servono a garantire un’entrata e che ne deriva soltanto un’autonomia di spesa, concetto del tutto diverso da quello di autonomia finanziaria di cui all’art. 119 Cost. », U. DESIERVO, A. ORSIBATTAGLINI, D. SORACE, R. ZACCARIA, Note in tema

di finanza regionale, (parte II), in Riv. trim. dir. pubbl., 1971, n. 3, 1295.

(73) A. FANTOZZI, Tributi..., cit., parla a questo proposito di tertium genus tra tributi propri e quote di tributi erariali il cui gettito è attribuito per intero alla regione, ma che sembrano appartenere ai tributi propri. Si tratterebbe dunque di tributi propri assimilati « il cui gettito è assegnato per l’intero alla regione, ma rispetto ai quali è interdetto qualunque potere circa la loro istituzione. La differenza in tal caso con le quote di tributi erariali consiste allora nell’aspetto quantitativo della partecipazione ». Parla di tributi propri assimilati il sen. De Luca nella relazione di maggioranza al Senato sul d.d.l. n. 1100 divenuto poi legge « 281 », cfr. C. ZOPPIS, Considerazioni..., cit., 1158. « Era importante che il legisla- tore avesse fatto la scelta del segmento di ricchezza imponibile — quello immo- biliare, appunto — su cui orientare il sistema di finanziamento delle regioni (...) ma che aveva, nella impostazione di allora, il difetto di riguardare un universo di soggetti contribuenti relativamente limitato (i proprietari terrieri e i proprietari di

4.

Il fondo comune, iscritto nel bilancio dello Stato, sebbene

lontano dai canoni dell’autonomia finanziaria si prefiggeva un

primo timido tentativo di realizzare finalità perequative, privile-

giando nel riparto le regioni meno sviluppate e che avevano subìto

un carico tributario proporzionalmente più elevato (

74

). Le quote

del fondo comune dovevano finanziare l’attività amministrativa

ordinaria nelle materie di competenza regionale, seguendo il vec-

chio criterio della spesa storica già erogata dallo Stato, aggiungendo

le spese relative al trasferimento.

L’ammontare del fondo subiva variazioni qualora per effetto

del trasferimento delle funzioni e del personale, l’ammontare delle

riduzioni degli stanziamenti di spesa del bilancio dello Stato e di quelli

soppressi risultasse superiore all’ammontare del fondo istituito.

Veniva inoltre abbandonato tra i criteri di ripartizione adot-

tati quello del « beneficio », secondo il quale le risorse sono ripar-

tite in ragione dei bisogni, ragguagliati al territorio ed alla densità

di popolazione; si è seguito invece il criterio della « solidarietà, che

mira a redistribuire la ricchezza nazionale tra regioni « ricche » e

regioni « povere » (

75

), problemi ancora di forte attualità.

Il disegno costituzionale era stato comunque abbondante-

mente aggirato; già quando la legge n. 281 del 1970 assegnava la

competenza a distribuire il fondo comune al ministro del Tesoro, in

contrasto con l’art. 119 Cost. che stabiliva la riserva di legge e

l’esclusiva competenza del Parlamento, oggi superata.

5.

L’art. 9 istituiva il « fondo per il finanziamento dei pro-

grammi regionali di sviluppo », iscritto nello stato di previsione

della spesa del ministero ancora del Bilancio e della Programma-

zione Economica, (oggi rientra tutto nel ministero dell’Economia)

fabbricati censiti) (...) e di non consentire alcun margine di manovra sulle aliquote, per non parlare poi della impossibilità di differenziare il prelievo per ambiti territoriali o per categorie di soggetti », G. COLOMBINI, Finanza..., cit., 395.

(74) La funzione delle quote dei tributi erariali non era di orientare la politica economica regionale ma quella di realizzare la perequazione interregio- nale differenziando le quote da assegnare a ciascuna regione, F. PIERANDREI,

Prime..., cit., 269 ss.; v. anche SCOCA, TRUINI, Garanzie costituzionali del finanzia-

mento delle Regioni, in Attualità amm., 1968, 73 ss. e F.G. SCOCA, Per un’ammini-

strazione responsabile, in Giur. cost., 1999, XLIV, 4045-62. S. BARTOLE, F. MASTRA- GOSTINO, Le Regioni..., cit., 273 ss.

(75) A. ARMANI, La finanza regionale, Biblioteca delle libertà, 1970, n. 24 si è espresso per una maggiore articolazione dei criteri distributivi adottati.

il cui ammontare era determinato, per il quinquennio, dalla legge di

approvazione del programma economico nazionale e dalla legge di

bilancio, per la quota annuale.

Il fondo stabiliva una « procedura di programmazione », at-

traverso un meccanismo che si prefiggeva di finanziare le spese di

investimento e di sviluppo « tipiche » dei programmi regionali,

assicurando le risorse finanziarie adeguate ad ogni tipo di inter-

vento. Il meccanismo di ripartizione adottato prevedeva un ampio

intervento delle regioni, favorendo un certo ottimismo per questa

fonte di finanziamento (

76

).

Un ruolo decisivo sull’utilizzo del fondo veniva peraltro eser-

citato dai programmi nazionali che riducevano l’autonomia di spesa

nelle regioni, garantita dai tributi propri e dalle quote di tributi

erariali.

Il fondo conteneva anche i finanziamenti relativi agli inter-

venti straordinari di competenza regionale, esercitati fino a quel

momento dalla Cassa per il Mezzogiorno; finanziamenti che, per un

ammontare non inferiore al 60 per cento rimanevano assegnati ai

piani di sviluppo delle regioni meridionali (

77

).

(76) L’art. 9 stabiliva inoltre che il fondo fosse assegnato alle regioni secondo le indicazioni del programma economico nazionale sulla base dei criteri annualmente determinati dal CIPE e con particolare riguardo alle esigenze di sviluppo del Mezzogiorno. Il fondo non è però conforme « al sistema costituzio- nale, sia perché non ancorato a “scopi determinati” assunti dal legislatore statale a base della qualificazione e quantificazione dei contributi, sia perché la potestà di quantificare il contributo per ciascuna Regione viene attribuita al CIPE anziché essere esercitata direttamente dal Parlamento », S. BUSCEMA, Trattato..., cit., Vol. III, 62. In mancanza della legge di approvazione del programma quinquennale nazionale « il CIPE non potrebbe determinare annualmente i criteri di ripartizione se non arrogandosi un potere assolutamente discrezionale che la norma stessa non aveva inteso invece concedere, dal momento che un vincolo, sia pur modesto, era stato introdotto con la previsione che tali criteri avrebbero dovuto tener conto delle indicazioni del programma economico nazionale ». È al fondo ex art. 9 che si sono riferite il maggior numero di richieste di incremento « considerato che, stante la mancata attuazione della previsione dell’art. 12 legge n. 281 circa i fondi speciali, nella legge finanziaria regionale la possibilità di soddisfacimento di esigenze programmatorie appare per il momento affidata soltanto al meccanismo dell’art. 9, sicché una presa di posizione negativa nei confronti di tale norma può prestarsi ad essere indicata come in realtà rivolta nei confronti della programmazione », D. SORACE, A. ORSIBATTAGLINI, Finanza..., cit., 161-162, 164.

(77) La legge di rifinanziamento della Cassa per il quinquennio 1971-75 confluiva poi nel fondo i residui della somma di lire 600 miliardi assegnati alle

6.

In aggiunta alle spese sostenute dallo Stato con carattere

di generalità, l’art. 12 della legge n. 281 del 1970 prevedeva appositi

« contributi speciali »; si trattava di somme assegnate alle regioni

con legge e secondo le indicazioni del programma economico

nazionale e dei programmi di sviluppo regionale, con lo scopo di

finanziare interventi eccezionali e, in modo particolare, per valo-

rizzare il Mezzogiorno (

78

).

Il fondo per i programmi regionali di sviluppo ed i contributi

speciali rappresentavano entrate di natura extrafiscale per le re-

gioni, assegnate sulla base dei criteri stabiliti dalla Commissione

interregionale, organismo al quale partecipavano i presidenti delle

Giunte regionali a statuto ordinario e speciale.

7.

Leggi di settore concentravano, poi, ingenti risorse nei

fondi speciali a disposizione del ministero competente, che aveva il

compito di ripartirli, di concerto con il ministro del Tesoro e sentita

la Commissione interregionale. I fondi settoriali, purtroppo, da-

vano già l’idea dell’autonomia che si intendeva assegnare alle

regioni, rendendo così irrazionali gli stessi criteri di riparto del

fondo comune. In definitiva la scelta della legge finanziaria regio-

nale è valida soltanto se estesa a tutti i settori di intervento

regionale, potendo così compensare la spesa complessiva (

79

). Una

legge finanziaria regionale che anticipava quella per lo Stato (art. 11

della legge n. 468 del 1978).

8.

L’ultima fonte di entrata regionale era quella del credito,

nella forma dei mutui e delle obbligazioni che, nei limiti consentiti,

fronteggiano le spese di investimento e gli oneri per le partecipa-

zioni in società finanziarie regionali. Le anticipazioni sono consen-

tite per fronteggiare temporanee deficienze di cassa.

regioni meridionali che la Cassa era autorizzata a spendere nelle materie di cui all’art. 117 Cost. fino a che non avesse avuto inizio l’attività regionale.

(78) Sui contributi speciali, S. BARTOLE, Contributi statali e autonomia (con

riguardo alla esperienza statunitense dei « grants-in-aid »), in Riv. trim. dir. pubbl.,

1967, 556 ss. I contributi speciali debbono « riguardare solo grandi opere o interventi di eccezionale impegno finanziario, individuati nelle localizzazioni e nelle priorità dagli strumenti della programmazione », A. ORSI BATTAGLINI, D. SORACE, Finanza..., cit., 198.

(79) U. DESIERVOed altri, Note..., ult. cit., 1312-13. È il caso della legge 14 agosto 1971, n. 817 « Disposizioni per il rifinanziamento delle provvidenze per lo sviluppo della proprietà coltivatrice ».

L’esperienza negativa degli enti locali, che avevano accumu-

lato consistenti disavanzi economici, giustificava i limiti all’indebi-

tamento regionale. D’altronde, il ricorso a questa fonte di entrata

era economicamente valido nella misura in cui fosse assicurata la

copertura del relativo ammortamento; ciò si verifica quando ven-

gono attentamente ponderate l’incidenza del debito per gli anni

futuri e la stima dei mezzi finanziari che occorrono per farvi fronte.

9.

L’assetto finanziario disegnato dalla legge n. 281 del 1970,

basato ancora sul sistema dei trasferimenti dal bilancio dello Stato,

secondo il criterio che aggrega le entrate delle regioni nei fondi e

nei contributi speciali, aveva ridotto, in sostanza, l’area dell’auto-

nomia tributaria regionale, riservando allo Stato la potestà legisla-

tiva primaria in materia di imposizione (

80

).

(80) « La notevole consistenza di questo limite risulta provata (...) dal fatto che la discrezionalità attribuita alle Regioni, in ordine alla utilizzazione della potestà legislativa tributaria, non può mai essere tale da incidere sull’essenza di un tributo, riguardando in ultima analisi soltanto la determinazione di alcuni elementi della fattispecie impositiva ». Si vogliono cioè intendere « i principi di fondo, alla cui stregua un tributo viene configurato. Essenza, dunque, nel senso di struttura interna (riferita agli elementi costitutivi) e non di esistenza, in ordine alla quale la discrezionalità politica propria delle Regioni (almeno di quelle speciali) può indubbiamente incidere », M. BERTOLISSI, L’autonomia..., cit., 37. Si è voluto « attribuire alle Regioni la sola gestione degli squilibri esistenti, riconoscendo ad esse un’autonomia di spesa che potrà, al massimo, estrinsecarsi nella predisposi- zione di servizi pubblici, al fine di sollevare gli organi centrali dalle loro respon- sabilità politiche », S. MINGHETTI, Aspetti..., cit., 198. Quattro furono le condizioni prevalenti che condizionarono la scelta originaria di impostare la finanza regionale come finanza di trasferimenti; precisamente « l’acuirsi della cosiddetta crisi finan- ziaria degli enti locali », l’incapacità dei governi centrali di molti Paesi « di garantire livelli soddisfacenti di occupazione mediante la manovra del bilancio pubblico », « le speranze e le illusioni riposte nella programmazione economica », e la « coincidenza dei tempi in cui furono elaborate la riforma regionale e la riforma tributaria ». « L’aspetto paradossale è che, al momento in cui la legge fu votata ed entrò in vigore, quelle condizioni apparivano già in larga parte superate nella realtà », A. PEDONE, Note sulla finanza regionale, in Politica ed economia, 1976, n. 4, 32, cfr. anche D. CIAVARELLA, I presupposti subbiettivi per una finanza