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II. Il periodo franco

1. Leno nella politica carolingia in Italia

a. Il monachesimo nel passaggio dai Longobardi ai Carolingi La conquista del regno longobardo

Il regno di Desiderio e, con esso, il dominio longobardo nell’Italia centrosettentrionale volse al termine nell’anno 774, quando Carlo Magno concluse la campagna militare avviata l’anno precedente con la presa di Pavia, dopo aver riportato una vittoria decisiva in Val di Susa.

La ristrutturazione del preesistente ordinamento che ogni cambio di dinastia solitamente comporta non fu però sconvolgente, almeno nelle sue fasi iniziali. Emblematica del corso impresso al nuovo organismo politico appare la scelta di Carlo di assumere il titolo di rex Francorum et

Langobardorum, affiancando quindi i due nomi. D’altronde la conquista

carolingia del regno longobardo non comportò una migrazione massiccia di uomini, bensì piuttosto una sostituzione, graduale per quanto non indolore, del ceto dirigente. Ciò in particolare fu necessario dopo la rivolta dei duchi dell’Italia nord-orientale capeggiati da Rotgaudo del Friuli ed appoggiati da Tassilone di Baviera, che ebbe luogo nel 775. Fu in seguito a questo avvenimento che Carlo procedette alla sistematica immissione nel ceto dirigente di ufficiali pubblici e di vescovi reclutati tra i propri vassalli, provenienti da élites d’Oltralpe. In ogni caso i Longobardi non vennero del tutto esclusi dal nuovo assetto politico, e si può pertanto affermare che il nuovo dominio carolingio fu caratterizzato tanto da caratteri di continuità quanto di innovazione.

Tratto distintivo della nuova impalcatura statale instaurata dai franchi fu la presenza di elementi di ordine pubblico e personale al tempo stesso, dati i legami vassallatici che univano il re ai suoi rappresentanti, che spesso erano tratti dal ceto ecclesiastico. La commistione dell’ordinamento secolare con le istituzioni religiose era del resto caratteristica della dominazione carolingia, tanto nelle terre di origine quanto in quelle di conquista. Vescovi ed abati erano parte integrante del sistema amministrativo, e come tali erano tenuti al servitium regis. La figura del monaco, o meglio dell’abate, funzionario del regno, sconosciuta al mondo longobardo, era parte fondamentale del sistema di governo carolingio. Lo stretto nesso del potere politico franco con il ceto ecclesiastico era stato del resto alla base dell’affermazione dei Carolingi, che aveva potuto realizzarsi anche per il legame stabilito con la chiesa di Roma in funzione prima antimerovingia e

poi antilongobarda. Questo connubio tra chiese e potere tipico dei Franchi si estese così con la conquista anche alle terre longobarde, dove le chiese vescovili e le grandi abbazie furono beneficiate da importanti privilegi concedenti immunità giurisdizionali, beni e proventi fiscali.

Il monachesimo dei Franchi

Come anche i Longobardi, anche i Franchi avevano favorito e propiziato lo sviluppo di esperienze monastiche nelle loro terre d’origine, dove erano fiorenti sin dalla tarda antichità alcuni grandi cenobi, come quello di Lerins. Ma la particolarità di molte fondazioni franche, sorte soprattutto durante il corso del VII e dell’VIII secolo, fu il loro significato strategico: esse erano spesso collocate in zone chiave, in corrispondenza dei confini, ed a volte entro il territorio stesso dei Longobardi e degli Alamanni.

La capacità di penetrazione di queste istituzioni fu tale da costituire una sorta di prodromo per la successiva conquista politica, e pertanto alcuni storici hanno parlato a proposito di questo fenomeno di «conquista monastica» dei territori contermini135. Anche se tale impostazione è stata

recentemente rivista, è evidente che numerosi cenobi franchi, oppure retti da abati franchi, mostrano in effetti un posizionamento strategico, come nel caso del monastero di Farfa, innalzato alla fine del VII secolo nel territorio del ducato di Spoleto. Il caso più emblematico resta comunque quello del monastero della Novalesa, fondato nel 726 dal nobile franco Abbone nell’alta Val di Susa, sul versante italiano delle Alpi, lungo la strada del Moncenisio, che collegava la Gallia alla pianura Padana. Non è un caso se i Longobardi di Desiderio furono sconfitti da Carlo Magno alle Chiuse della Val di Susa proprio con l’aiuto dell’abate della Novalesa, Frodoino136.

Analogamente, nel corso dell’VIII secolo erano sorti dei monasteri che svolgevano importanti funzioni sia religiose sia politiche anche nei territori occupati dagli Alamanni dell’alta valle del Reno, come Disentis, San Gallo e Reichenau137, e nei territori del ducato di Baviera e sulle più

importanti vie di transito verso le Alpi, come San Dionigi di Schäftlarn

135 Hans Grasshof aveva sostenuto che la conquista militare dell’Italia longobarda da parte

dei Franchi fosse stata preceduta da «una specie di conquista monastica» (GRASSHOF,

Langobardisch-fränkisches Klosterwesen, p. 36: «eine Art monastischer Eroberung vor

der politischen»). Cf. però HOUBEN, L’influsso carolingio, p. 103. Si veda, da ultima, la sintesi di ANDENNA, Monasteri alto medievali, pp. 201-203.

136 Cronache di Novalesa, pp. 145-167. Sugli abati della Novalesa, che si dimostrano un

valido sostegno per la penetrazione carolingia in Italia, cf. TABACCO, Dalla Novalesa

a San Michele della Chiusa, pp. 484-486; CANTINO WATAGHIN, L’abbazia della Novalesa.

137 Per queste fondazioni e per la loro funzione durante l’età carolingia si veda Mönchtum,

(760-764) e San Candido di Innichen nella diocesi di Bressanone (769). Successivamente, dopo le conquiste di Carlo Magno, questi monasteri alpini persero la loro funzione di presidio sul territorio e di controllo dei confini, ma non per questo venne meno la loro utilità per il sovrano. Essi erano tenuti tanto a pregare Dio138 quanto a fornire armati e vettovaglie agli

eserciti carolingi. La più forte differenza fra il monachesimo dei Longobardi e quello dei Carolingi consisteva proprio nel fatto che i Franchi chiedevano agli abati non solo di essere dei provetti amministratori, ma anche dei capi di contingenti militari formati da vassalli mantenuti sulle terre monastiche. Friedrich Pritz139 ha infatti dimostrato come, prima della riforma di

Benedetto di Aniane140, vescovi e abati fossero inseriti nel sistema militare

dei Franchi. Ne conseguiva l’obbligo, specie per i monasteri di istituzione regia, di prestare al sovrano dei servitia, consistenti in primo luogo nell’ospitalità e nel mantenimento della corte del re in viaggio, ma anche in vere e proprie prestazioni militari141. Gli abati erano infatti considerati come

fideles tenuti ad assicurare la partecipazione alle campagne militari dei loro vassi, mantenuti con la concessione di benefici tratti dalle proprietà del

monastero. Un esempio molto chiaro del servizio che i monasteri dotati in parte con beni fiscali dovevano prestare al sovrano è contenuto nella lettera di Carlo Magno a Fulrado, che contiene un esplicito ordine di precettazione nei confronti di un abate142.

I monasteri longobardi tra continuità e innovazione

Nonostante le sostanziali differenze, il passaggio dai Longobardi ai Carolingi si connotò per i monasteri dell’Italia centrosettentrionale nel segno di una sostanziale continuità. Come affermano De Jong ed Erhart, «quel che trovarono i Carolingi fu lo stesso tipo di monachesimo cui erano abituati, che fosse urbano o meno: i monasteri erano parte della struttura del potere ducale o regio e per questo potevano essere aggiogati alla struttura

138 La richiesta di orationes non è da intendersi come un fatto puramente spirituale, poiché

esse erano considerate vere e proprie res, alla stregua di realtà più concrete quali le contribuzioni economiche e le prestazioni militari: cf. MAUSS, Essai sur le don, pp. 143-146; OEXLE, Memoria und Memorialüberlieferung, pp. 87-89.

139 PRINZ, Klerus und Krieg, pp. 113-132.

140 È solo con i capitolari di Aquisgrana dell’816 e 817 che i monasteri vengono dispensati

dal fornire servizi militari e servizi di natura economica ai sovrani del regno. Cf.

Benedetto di Aniane, pp. 18-58.

141 Sul concetto di servitium dei monasteri, si veda BERNHARDT, Servitium regis; sulla

“regalità itinerante” e i doveri cui erano tenuti i monasteri regi, si veda ID., Itinerant

kingship and royal monasteries.

142 Karoli ad Fulradum abbatem epistula è in Capitularia regum Francorum, I, p. 168, n.

del loro nuovo regime»143. L’avvento di Carlo Magno non sconvolse dunque

il precedente ordinamento monastico, ma anzi il sovrano, dimostrando la sua considerazione per le grandi abbazie, poté utilizzare i monasteri come strumenti di consolidamento della conquista e presidi di controllo sul territorio, secondo il modello già ben collaudato del monachesimo franco. D’altronde, come fanno notare sempre De Jong ed Erhart, «l’immediata conferma da parte di Carlo Magno dei diritti di proprietà per un gruppo di monasteri chiave longobardi, dotati di forti connessioni con il potere reale e ducale, rivela come il nuovo leader intendesse utilizzare al meglio le preesistenti strutture monastiche»144.

Dal punto di vista economico, occorre notare che durante l’età carolingia i maggiori monasteri dell’Italia centrosettentrionale accumularono ingenti patrimoni fondiari. La costituzione di tali patrimoni, che in molti casi si estendevano su scala interregionale, fu possibile grazie a lasciti e donazioni, ma anche ad oculate politiche di acquisti e permute. Su questi vasti domini, gli enti monastici esercitavano una tendenziale egemonia economica e giurisdizionale, contribuendo anche in maniera significativa alle pratiche di gestione dello spazio agrario.

Inoltre bisogna ricordare che i cenobi alpini e quelli della pianura Padana, che possedevano beni nelle vallate, si trovavano lungo le principali vie di comunicazione in cui le strade conducevano ai valichi alpini. Poiché le valli alpine erano dei punti nodali nel sistema delle comunicazioni tra i diversi regni dell’Impero145, appare come questi monasteri fossero

considerati da Carlo Magno degli importanti centri di organizzazione della viabilità e dei trasferimenti. Le fondazioni monastiche potevano così intervenire attivamente nell’organizzazione degli spazi e dei movimenti, anche assicurando l’ospitalità e l’assistenza ai viandanti e ai pellegrini146.

I Carolingi furono anche i fautori di un’ambiziosa e complessa politica culturale che aveva il suo fulcro proprio in chiese e monasteri, in cui venivano formati i quadri dirigenti ed intellettuali impiegati poi nell’amministrazione e nel governo. Dai maggiori monasteri europei, al pari delle sedi episcopali, venivano infatti tratti i principali collaboratori dell’imperatore147. Si può pertanto affermare che questi centri monastici

avevano assunto il profilo di vere e proprie scuole di alta formazione.

143 DE JONG, ERHART, Monachesimo tra i Longobardi e i Carolingi, p. 123. Cf.

ANDENNA, Monasteri alto medievali; BROGIOLO, Desiderio e Ansa, p. 153.

144 DE JONG, ERHART, Monachesimo tra i Longobardi e i Carolingi, p. 123. 145 Cf. ANDENNA, Monasteri alto medievali, pp. 206-207.

146 PENCO, Storia del monachesimo in Italia dalle origini alla fine del Medio Evo, pp. 68-

84.

Inoltre, i numerosi i capitolari e le disposizioni normative emanate dai sovrani carolingi circa la disciplina interna di chiese e monasteri, parallele alle concessioni di immunità a difesa delle prerogative ecclesiastiche, riflettevano una tensione verso l’omogeneità culturale ed istituzionale. Questa spinta verso l’uniformità trova il suo compimento nella riforma della vita monastica legata al nome di Benedetto d’Aniane.

Come vedremo in seguito, un punto d’osservazione privilegiato per questi temi è offerto dai libri memoriales, le cui enormi potenzialità di ricerca sono state rivelate grazie soprattutto agli studi condotti negli ultimi trent’anni dalla Scuola storica tedesca. Il periodo caratterizzato dall’affratellamento tra i monasteri coincise non a caso con l’epoca della costituzione ed espansione dell’Impero carolingio, e si avviò verso la conclusione a partire dalla metà del IX secolo, quando al sensibile incremento delle registrazioni dei gruppi di laici corrispose un rapido declino di quelle degli elenchi dei monaci.

b. Leno e l’Impero

Leno nel “sistema monastico” carolingio

Alla luce di quanto detto prima, si può affermare che, al loro sopraggiungere al di qua delle Alpi, i Franchi si trovarono di fronte ad un sistema di monasteri che, pur nelle differenze, per molti aspetti somigliava comunque a quello che era loro proprio. Tale sistema poteva dunque facilmente essere impiegato come strumento di consolidamento del nuovo dominio. Nell’area bresciana, dovevano apparire particolarmente funzionali a queste esigenze i due monasteri di Santa Giulia e di San Benedetto. Questi monasteri, che erano realtà già considerevoli148, divennero pertanto punti di riferimento per

la politica carolingia e strumenti per inserirsi nella realtà longobarda, superando la contrapposizione tra regnum ed imperium. Le istituzioni monastiche dovevano infatti apparire agli occhi del sovrano come organismi dalla duplice forma, legati al vertice del potere politico nella sua testa, attraverso la figura dell’abate, ed al tempo stesso con una base solidamente radicata nel territorio attraverso il sistema delle chiese e dei possedimenti dipendenti ampiamente diffusi. Una chiave quindi per inserirsi nell’area bresciana raccordandosi con le realtà locali149.

I monasteri offrivano dunque grandi potenzialità che andavano solo

148 Cf. BOGNETTI, La Brescia, pp. 449-453; VIOLANTE, La chiesa bresciana, pp. 1001-

1005.

149 BOGNETTI, Brescia Carolingia, pp. 449-483; ARNALDI, Da Berengario agli Ottoni,

valorizzate: in questo senso vanno letti gli importanti privilegi da subito confermati da parte di Carlo Magno. La munificenza del re franco nei confronti dell’abbazia leonense è testimoniata nel diploma concesso nell’861 o 862 da Ludovico II all’abate Remigio, che ricopriva in quegli anni la carica di arcicancelliere imperiale, ed è ricordata anche dall’anonimo cronista del catalogo dei re longobardi150. Purtroppo questi testi fanno

riferimento solo a generici privilegi, e per quanto riguarda un elenco dettagliato dei possessi dobbiamo attendere il diploma di Berengario II e Adalberto del 958, che ci tramanda anche la notizia della donazione della

curtis di Sabbioneta da parte di Carlo.

Che tuttavia il monastero fosse inserito in un programma politico su ampia scala lo testimoniano anche i legami stretti con le istituzioni monastiche dell’area tedesca. Leno compare infatti già dall’inizio del IX secolo nel liber vitae del monastero di Reichenau, e dimostra così di essere parte di quella rete di monasteri che, mediante un vincolo di fraternità, legava tra di loro le istituzioni monastiche del centro Europa con quelle del

Regnum Italiae, e che costituiva uno strumento fondamentale della politica

imperiale151.

Il grande prestigio conseguito dal monastero di Leno già dall’inizio del IX secolo, che ci è testimoniato dal suo inserimento in una rete così importante, potrebbe trovare conferma inoltre anche nel fatto che, secondo la tradizione, il vescovo bresciano Anfrido (806-816), successore di Cuniperto, sarebbe stato in precedenza un monaco leonense152.

150 Catalogi regum Langobardorum, p. 503: «Regnavit itaque excellentissimus Desiderius

rex annos 18. Porro in 18. anno regni eius superveniens Karolus rex Italiae in mense Iulio, indictione 12, anno incarnationis Domini 774, et datum est ab ipso Karolo nostro monasterio».

151 Sul fenomeno degli affratellamenti monastici nella dinamica di coesione e integrazione

all’interno dell’Impero carolingio, si veda più avanti.

152 Che Anfrido vescovo di Brescia provenga da Leno lo sostiene lo Zaccaria

(Dell’antichissima badia di Leno, p. 14), sulla scorta di una tradizione accolta dagli storici bresciani, con eccezione del Gradenigo. Paolo Guerrini (Il monastero di San

Faustino Maggiore, pp. 27-28, n. 2) concorda con l’opinione dello Zaccaria e avanza

l’ipotesi che Anfrido facesse parte della schiera dei dodici monaci venuti da Montecassino sotto la guida di Ermoaldo; dal monastero cassinese Anfrido avrebbe portato il ricordo del culto dei santi Faustino e Giovita, là venerati dai tempi di Petronace, e l’avrebbe rilanciato a Brescia dopo esserne divenuto vescovo. I legami tra l’episcopato cittadino e i vertici del potere carolingio, che sono connotanti dell’epoca in questione, sono dimostrati anche dal fatto che nell’813 Anfrido fu incaricato dal messo imperiale Adalardo di presiedere ad una permuta tra San Salvatore e Nonantola in virtù della sua conoscenza della realtà locale (Codex diplomaticus Langobardiae, coll. 164- 166, n. 88. Cf. BETTELLI BERGAMASCHI, Ramperto vescovo di Brescia). Su Anfrido, si vedano ancora SAVIO, Gli antichi vescovi, p. 181; VIOLANTE, La chiesa

Il diploma di Ludovico II ed i privilegi concessi a Leno

Come già detto, il diploma concesso dall’imperatore Ludovico II il 26 febbraio dell’anno 861 o 862 è il più antico documento del disperso archivio monastico che ci sia stato conservato153. Il cenobio leonense dovette ottenere

già da Carlo Magno, da Ludovico il Pio e da Lotario diplomi concedenti protezione e immunità, oltre ovviamente ai già ricordati «pręcepta seu strumenta cartarum» del fondatore Desiderio, come ricordato nel diploma rilasciato da Ludovico II, che afferma di confermarli. Tuttavia il privilegio dell’861 o 862 fu redatto soltanto sulla base di un diploma di Lotario, unico documento presentato dall’abate. È inoltre probabile, come ipotizzato dalla Sandmann, che nel secolo precedente Leno avesse ricevuto da Paolo I il privilegio dell’esenzione insieme a Santa Giulia di Brescia, che il pontefice aveva beneficiato nell’anno 762. Con questo atto il monastero giuliano veniva liberato dalla ditio del vescovo, che poteva celebrarvi la messa soltanto col permesso della badessa, e veniva inoltre dato il permesso per qualsiasi vescovo di consacrare la badessa e benedire l’olio ed il crisma154.

Se l’analogia con la fondazione cittadina può suggerire l’antichità del regime di esenzione del monastero, nulla invece permette di ipotizzare quando l’abate di Leno ricevesse – certo prima del secolo XI – il privilegio di essere consacrato dal papa.

In ogni caso, il diploma concesso da Ludovico II al monastero di San Benedetto, su richiesta dell’abate nonché arcicancelliere imperiale Remigio, era assai importante. Tra l’altro l’imperatore sembrava avere per la città di Brescia una particolare predilezione, tanto da finirvi i suoi giorni155.

Questo diploma concesse e riconfermò una serie di prerogative di non poco conto156, che vale la pena di esaminare nel dettaglio, poiché delineano

quel modello di regime esente che verrà sostanzialmente riconfermato, seppur con qualche movimento e scarto, nelle concessioni successive. L’imperatore esordisce dichiarando che i suoi predecessori, ovvero il bisnonno Carlo Magno, il nonno Ludovico il Pio ed il padre Lotario,

153 Ludovici II. Diplomata, pp. 137-9, n. 35. 154 Cf. la nota 49 di questo capitolo.

155 Cf. BOGNETTI, Brescia carolingia, p. 480. Il privilegio concesso al monastero di Leno

è redatto nel palazzo regio di Mantova: poiché due settimane prima l’imperatore aveva soggiornato a Brescia, ospite del monastero di Santa Giulia, è probabile che, compiendo il suo tragitto verso Mantova, sia passato anche da Leno: cf. BARONIO, Il ‘dominatus’

dell’abbazia, p. 35. Sulla sepoltura di Ludovico II, si veda NELSON, Carolingian royal funerals, pp. 160-161.

156 Su questo documento e i privilegi ivi contenuti, cf. VIOLANTE, La chiesa bresciana, p.

1015; CONSTABLE, Monks, Bishops and Laymen, p. 85; BARONIO, Il ‘dominatus’

avevano posto il monastero «sub immunitatis tuitione atque deffensione», e concede a Leno la piena difesa e il diritto d’immunità («plenissima defensio et immunitatis auctoritas»). Si precisano poi subito i contenuti di questo regime di immunità, consistente innanzitutto nel divieto per qualsiasi giudice, sia imperiale sia dipendente da altra autorità, di entrare nelle terre monastiche. Inoltre i pubblici funzionari non potevano citare in giudizio gli uomini residenti nelle possessioni e nei territori dell’abbazia, sia quelli presenti sia quelli futuri, né potevano esigere da essi mansioni o freda né prelevarli per le leve militari o per farne dei fideiussori.

Ludovico concede poi al monastero l’esenzione dal fisco regio, stabilendo che i proventi del prelievo fiscale dovessero finire interamente nelle casse abbaziali a beneficio della comunità dei monaci e per il sostentamento dei poveri:

«Quicquid de potestate prefati monasterii fiscus sperare poterat, id totum pro amorem divini nominis et anime nostre salutem predicto sancto loco concedimus eisdem fratribus ut eis proficiat in eorum alimonia seu pauperum substentatione».

Vengono inoltre riconfermate, ma senza specificarne l’ubicazione e la consistenza, le res acquisite per «pręcepta seu strumenta cartarum» da parte di re Desiderio o di altre private persone «nobiles ac Deum timentes», e che erano già state riconfermate da Lotario.

Per quanto riguarda l’organizzazione interna della comunità monastica, l’imperatore accoglie la richiesta di Remigio di confermare ai monaci leonensi la facoltà, già concessa dal padre Lotario, di procedere autonomamente all’elezione dell’abate, secondo il dettato della Regula, scegliendo nel monastero qualcuno che sia degno di tale carica. Si tratta, come si può ben immaginare, della garanzia di una autonomia particolarmente ampia157.

Ludovico concede inoltre al monastero il diritto di nominare un

advocatus cui sia delegata ogni funzione giudiziaria riguardante l’abbazia158.