I. La storiografia erudita
4. Il Settecento tra archivi ed erudizione
a. Lo spirito del Settecento
L’affermazione di un nuovo spirito nella storiografia è percepibile lentamente a partire dagli anni 1660, ma diventa generale dopo il 1700, quando si apre un secolo di rigore che sottopone alla critica gli eccessi del Seicento e le sue «fantasie». Il nuovo, rigoroso metodo è impresso nella produzione di lavori direttamente tratti dagli archivi e basati su un enorme lavoro di classificazione e di inventario.
A posteriori appare essenziale l’influenza su questa storiografia di Muratori; ma essa non fu l’unica: i riferimenti all’esempio di Mabillon, dei padri Maurini, dei Bollandisti in alcuni casi, restano infatti normali in tutti i lavori di una certa importanza.
Fra gli eruditi bresciani i nomi più noti sono quelli di Giovanni Andrea Astezati e di Gian Lodovico Luchi, su cui torneremo; ma si distinguono anche Gian Maria Mazzuchelli, uomo di lettere e dotto71, Paolo
Gagliardi (1685-1742), autore ineguale ma animatore dei circoli dotti72,
Vincenzo Bighelli (1742-1818)73 ed il già ricordato Baldassarre Zamboni.
b. Generi letterari L’inventario d’archivio
L’inventario d’archivio rappresenta il genere fondamentale nella produzione storica di quest’epoca, e soprattutto a Brescia l’arte dell’inventario raggiunge la sua perfezione nella prima metà del secolo. Gli inventari generalmente comprendono tre parti, gli Annali (lista cronologica dei documenti di una certa importanza), il Repertorio (lista esaustiva dei documenti nell’ordine del fondo, in cui una sezione è preceduta da una storia della proprietà in questione), e gli indici; ognuna di queste parti costituisce normalmente un volume in-folio74.
Inventari d’archivio degni di nota ci sono stati lasciati da Giovanni Andrea Astezati (1673-1747), abate di diversi monasteri benedettini, versato in svariate scienze, che esercitò una forte influenza sui suoi contemporanei. L’Astezati è ricordato per il riordinamento dell’ingente materiale documentario presente nel monastero femminile di Santa Giulia di Brescia,
71 Cf. RODELLA, Vita; BIGLIONE DI VIARIGI, La cultura, pp. 255-260. 72 Cf. BROGNOLI, Elogi, pp. 1-20.
73 Cf. PERONI, Biblioteca, s.v.
e la compilazione del relativo indice75.
Tra l’altro questo archivio ospitava, come abbiamo visto, anche pergamene provenienti dal monastero di Leno. Parlando dello Zaccaria, si è detto di come fosse sorto un equivoco circa la collocazione del patrimonio documentario leonense: ma quando lo Zaccaria compilava la sua opera, certamente le carte non si trovavano più a Leno. È stato Ezio Barbieri a dimostrare inequivocabilmente, attraverso l’esame delle annotazioni d’archivio vergate nel verso delle membrane, che le pergamene superstiti, o almeno il gruppo principale, erano ormai nell’archivio di Santa Giulia, nella sezione contenuta nel soppalco/mobile «E»76. La traccia sicura che permette
di seguire gli spostamenti e vicende di queste pergamene anche nei secoli successivi sono appunto le segnature d’archivio apposte dall’Astezati entro la prima metà del Settecento.
Il codice diplomatico
L’altra grande opera di questo secolo è il codex diplomaticus, che pare segnare lo spostamento degli interessi dalle fonti narrative verso gli archivi77. Il codex diplomaticus appare direttamente derivato dal genere
dell’inventario di archivi – ben più dalle descrizioni, storie o cronache di città dei secoli precedenti, di cui potrebbe sembrare l’erede – soprattutto perché un buon numero di inventari di archivi sono accompagnati da un’esposizione storica che dà forma ai documenti repertoriati. L’analogia è insita soprattutto nel metodo, e nella convinzione che la pubblicazione dei documenti autentici sia sufficiente a dissipare gli errori e le ignoranze accumulate per secoli.
Per lo più, tutti gli autori lavorarono a dei corpus parziali: di un monastero, di una chiesa urbana, di un borgo del contado, che rappresentano gradi intermedi nell’edificazione del grande corpus cittadino. Le opere di Luchi e Zaccaria fanno parte di questi lavori. Rari però sono quelli che sono stati pubblicati; tra i modelli del genere, rimasto inedito, è il Codex
diplomaticus Brixianus sempre del Luchi.
75 Cf. DBI, IV, pp. 466-467; CASTAGNA, La corrispondenza; MAZZUCHELLI, Gli
scrittori, t. 1, parte II, pp. 1185-1187. L’Indice dell’Astezati si trova in Biblioteca
Queriniana.
76 Cf. BARBIERI, Per l’edizione; ID., L’archivio. La consapevolezza della situazione
critica dell’archivio leonense era stata espressa già dal KEHR (IP, VI/1, pp. 342-343). Per Astezati e il suo operato a Santa Giulia si veda anche SPINELLI, La storiografia.
77 Come fa giustamente notare sempre il Menant, cambia anche la prospettiva d’analisi:
non è più la famiglia aristocratica a venir considerata come l’unità di base dell’analisi storica, bensì l’obiettivo è quello di una storia cittadina globale (Lombardia feudale, p. 28).
c. Giovanni Ludovico Luchi
La figura del Luchi e la sua collezione
Quella di Giovanni Ludovico Luchi (1702-1788) è una figura significativa del mondo culturale settecentesco, ed in particolare del contesto cittadino78.
Priore in diversi importanti monasteri, si ritirò negli ultimi anni in San Faustino dove continuò a studiare, raccogliere e trascrivere quei documenti che entrarono a far parte della sua raccolta, frutto di un’intera vita di ricerche e contatti con i monasteri cassinesi italiani e con le realtà ecclesiastiche e civili bresciane.
Un’idea dell’ampiezza dei suoi interessi può essere suggerita dalla marcata varietà della sua biblioteca personale79. Dopo la morte del dotto
abate il suo materiale dovette rimanere nella biblioteca e archivio del monastero di San Faustino per circa dieci anni, fino a quel 14 maggio 1798 che vide la soppressione dell’istituzione e la conseguente migrazione del materiale80. Purtroppo l’attuale divisione dell’archivio personale del Luchi
tra quattro diverse sedi conservative81 rende difficile la percezione dei
documenti come un unicuum tanto vario quanto notevole. Le opere
Luchi ci ha lasciato una produzione assai limitata, ma eccellente: rimangono emblematiche due opere, il Codex Diplomaticus Brixiensis e i Monumenta
78 Cf. PERONI, Biblioteca, s.v. Notizie biografiche su Luchi si trovano anche in
RUGGERI, Sopravvissuti in Queriniana, e bibliografia; VECCHIO, L’archivio
nell’archivio, e bibliografia.
79 Cf. FERRAGLIO, La biblioteca; GAVINELLI, La biblioteca.
80 Per il tabularium del cenobio benedettino, si veda BARBIERI, CONCARO,
VECCHIO, Le carte, pp. 212-218; per la storia del monastero in generale si faccia riferimento agli altri contributi presenti nel volume San Faustino Maggiore di Brescia, ed alla relativa bibliografia.
81 Si tratta della Biblioteca Queriniana di Brescia, dell’Archivio di Stato di Brescia (ASBs,
Fondo di Religione, San Faustino Maggiore, bb. 52-58), dell’Archivio di Stato di
Milano (ASMi, Fondo Pergamene, b. 103, denominata appunto Brescia Varie. Raccolta
Luchi) e della Biblioteca del Seminario Vescovile di Mantova (BSMn, Fondo Labus).
Sulla BSMn, si veda GUERRINI, I manoscritti, pp. 131-145; MORELLI, I manoscritti. Per i volumi di Luchi in Queriniana, cf. la tesi di laurea di GHIDINI, Paleografi
bresciani, pp. 80-103, in particolare l’elenco di manoscritti ed incunaboli queriniani con
nota di possesso di Luchi a pp. 87-103. Per l’inventario di ASBs, Fondo di Religione, cf. ANNIBALE MARCHINA, Il Fondo; vd. anche VECCHIO, L’archivio del
monastero. In ASMi la b. 103 è l’unica che si possa con certezza attribuire all’abate
Luchi, ma una nota di François Menant (Campagnes lombardes au Moyen Âge, p. 810) ed una serie di considerazioni successive hanno aperto la via ad ulteriori ricerche. Un sunto di queste vicende in VECCHIO, L’archivio nell’archivio.
monasterii Leonensis.
Il Codex sintetizza bene l’idea della raccolta erudita, ordinato zibaldone di storia cittadina studiata in tutti i suoi aspetti e le sue curiosità. Il manoscritto, ora conservato nel Fondo Labus della Biblioteca del Seminario vescovile di Mantova, raccoglie le trascrizioni di mano del Luchi di documenti relativi alla storia ecclesiastica bresciana, in parte poi editi in appendice ai Monumenta. Anche se il Codex non giunse mai alle stampe, le tre copie eseguitene, due coeve e una più tarda ad opera dello studioso Federico Odorici, che se ne servì come fonte per numerose ricerche82, ne
testimoniano un certo riscontro nel mondo degli studi.
Ha avuto più fortuna il progetto parallelo, i Monumenta monasterii
Leonensis, unica opera edita, relativamente più semplice e scaturita da
quella principale. Si tratta della storia del monastero di San Benedetto di Leno attraverso i documenti principali, cui si aggiungono in appendice le trascrizioni di documenti di altri tre piccoli cenobi bresciani. Si tratta di un’opera preziosa, certo un passo verso lavori di edizione e commento più ampi e ambiziosi, ma ancora utile e significativa, purtroppo passata in secondo piano rispetto alla storia dell’abbazia di Leno dello Zaccaria che, come è stato già osservato, si è rifatta in gran parte allo studio dell’abate benedettino.
Luchi e Leno
Le fonti letterarie Accingendosi alla ricostruzione della storia del cenobio leonense, il Luchi esplicita subito le fonti di cui si è servito, affermando che la più antica e preziosa testimonianza è l’anonimo
Chronicon monasterii Leonensis, e di aver desunto altre chartae da
documenti modenesi o da libri editi, come le Storie Bresciane. Dichiara altresì di aver utilizzato gli Annali di Giacomo Malvezzi, il Capriolo e Ottavio Rossi. Più critico è invece nei confronti di Cornelio Adro, come abbiamo già visto: sappiamo, dalla nota di possesso, che Luchi si servì del manoscritto E.VII.5 della Biblioteca Queriniana83. Inoltre vengono citati i
Collectanea de episcopis Brixiae, editi dal Doneda, il Mabillon e il volume Dell’istoria del monastero di S. Benedetto di Polirone di Benedetto
Bacchini.
82 BCVr, ms. 1782; BMVe, ms. lat. V, 17 (2383); la copia di Odorici è in BQBs, ms.
O.VIII.46. Per queste copie e i loro reciproci rapporti cf. Le carte del monastero di San
Pietro in Monte di Serle, pp. XLV-XLVI.
83 Ms. E.VII.5, c. Ir.: «est Mon[aste]rii S. Faustini ad usum d. Io[hannis] Lud[ovi]ci
Un’altra fonte consultata dal Luchi è l’Historiola di Rodolfo il Notaio, a riprova anche della fortuna di questo falso, e viene riportata inoltre qualche notizia da Bernardino Ronchi. Almeno qualche dubbio viene sollevato in occasione delle parole del Biemmi in lode dell’abate Rataldo, racconto circa il quale il Luchi afferma «certum partim, partim incertum, partim etiam falsum mihi est»84. Al di là di questo, Luchi appare per il resto
molto preciso nel trattamento che fa delle fonti letterarie, per esempio correggendo Malvezzi sul nome di un abate85 o dimostrando di non dare
credito al Rossi in merito alla vicenda della reliquia di san Benedetto86.
Le fonti documentarie Luchi fornisce indicazioni circostanziate a proposito dell’archivio del monastero, che egli, nel 1750 circa, grazie all’amicizia coi confratelli leonensi, poté visitare a San Benedetto, prendendo visione dei documenti87. Egli riferì che le pergamene ancora
presenti nell’archivio partivano dal 1289 e le carte dal 1333, senza specificare la consistenza numerica dei pezzi, probabilmente molto ridotta. Luchi trasse le trascrizioni contenute nella sua opera da carte sciolte e dai registri del monastero contenenti gli atti pubblici88.
Come molti eruditi dell’epoca, anche il Luchi dovette trattenere presso di sé delle carte che entrarono a far parte della sua collezione personale89,
mentre altre pergamene egli afferma di averle acquisite, anche se non ne specifica la provenienza. In quegli anni d’altra parte il Luchi non era l’unico erudito bresciano a conservare documenti del monastero di San Benedetto: egli stesso ci informa che il sacerdote Carlo Doneda, «vir in republica litteraria satis noto, mihique amicitia conjunctissimus», gli mostrò la copia di un «catalogum abbatum monasterii» di sua proprietà90, scritto per mano
del defunto canonico Paolo Galeardi, e gliene fece trascrivere una copia. Questo trattamento personale delle carte è un elemento connotativo dell’epoca e ci fa comprendere come lavorassero questi eruditi. Da questo punto in poi comunque le pergamene leonensi dovevano subire ancora molti spostamenti: molte andarono perdute, e di alcune di queste le notizie e le trascrizioni riportate dal Luchi rappresentano l’unica attestazione, segno dell’importanza che le opere erudite hanno ancora per storia dell’abbazia
84 LUCHI, Monumenta monasterii Leonensis, p. 42. 85 Ivi, p. 24.
86 Ivi, pp. 6-7, nota 3.
87 Ivi, p. XVIII. Purtroppo non specifica dove questo archivio si trovasse. 88 Ivi, p. XX.
89 «Charta penes me est»: questa nota si trova sotto molte trascrizioni; si veda ad esempio
a p. 84.
leonense.
I Monumenta La storia del Luchi inizia con la fondazione del monastero e termina nel XV secolo con l’Averoldi, ultimo abate regolare. Dopo l’introduzione, in cui principalmente vengono esposte le problematiche legate alle fonti, la scansione dell’opera segue per i primi nove capitoli un andamento cronologico, partendo dalla fondazione del monastero, con la dedicazione della chiesa e la dotazione assegnata da Desiderio. Ogni capitolo ha un’impostazione problematica, vengono esaminate le diverse versioni e ripresi tutti gli autori, con riferimenti – per la verità, almeno in questi primi capitoli spesso poco circostanziati – ai documenti.
Talvolta il Luchi prende posizione rispetto alle sue fonti, come abbiamo visto, e dimostra inoltre di privilegiare le fonti documentarie rispetto agli autori più recenti, come nel caso del problema della donazione della curtis di Gambara, dove piuttosto del Malvezzi sono citati i testimoniali del processo del 1194-1195. Nel secondo capitolo, dedicato al trasferimento dei monaci da Montecassino a Leno ed alle reliquie, il Luchi si inserisce poi nella polemica della reliquia, al suo tempo già vecchia ma non ancora del tutto sopita, argomentando che la notizia della presenza della reliquia a Brescia doveva essere più recente almeno del XV secolo, poiché Malvezzi e Capriolo la ignoravano. In altri casi però capita che non venga proposta una soluzione a proposito di alcuni problemi storiografici, come quando nel primo capitolo si confronta l’anonimo Catalogo dei re longobardi con l’Epitome cassinese, segnalandone la discordanza a proposito dell’origine del monastero, ma senza tentarne veramente un’esegesi.
L’ultimo capitolo è dedicato invece alla serie degli abati, molto lunga e articolata: le vicende vengono ripercorse attraverso continui e precisi riferimenti ai documenti. Le trascrizioni vere e proprie occupano invece la seconda parte dell’opera. Luchi dimostra una certa sensibilità diplomatica tanto nella trascrizione dei documenti, quanto nel dar conto delle interpolazioni e delle corruttele, come nel caso delle interpolazioni a favore della famiglia Gambara.