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I limiti al potere discrezionale del giudice nei casi di manifesta infondatezza

Nel documento I "giudici" della protezione internazionale (pagine 142-151)

LA FASE DI RICORSO GIURISDIZIONALE

3.6 La mancanza della videoregistrazione

3.6.3 I limiti al potere discrezionale del giudice nei casi di manifesta infondatezza

Tale sentenza, come precedentemente affermato, viene richiamata dalla giurisprudenza sia di merito che di legittimità per escludere, nei casi di manifesta infondatezza, la sussistenza di un obbligo di ripetizione dell'audizione del richiedente "asilo" nella fase giurisdizionale. Ne consegue che la scelta di procedere al colloquio personale sia rimessa, in ultima istanza, a una valutazione discrezionale dell'autorità giudiziaria procedente.

Il perimetro della discrezionalità riconosciuta al giudice, in tali casi, può, tuttavia, subire vistose limitazioni o ampliamenti a seconda dell'interpretazione data al concetto di manifesta infondatezza, dal momento che la Corte non ha fornito chiarimenti al riguardo.

In particolare, la manifesta infondatezza, cui la Corte ha fatto riferimento per escludere l'obbligo di audizione giudiziale, potrebbe riguardare tanto i casi tipizzati dall'art. 31, par. 8 della direttiva quanto i casi non tipizzati, presupponendo, in quest'ultimo caso, un concetto più ampio di manifesta infondatezza66.

Adottando la secondo soluzione, il giudice sarebbe dotato di un potere illimitato, potendo egli qualificare, in modo del tutto discrezionale, la domanda come manifestamente infondata e quindi escludere l’audizione. Per contro, la prima soluzione sembrerebbe

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V. M. CONTINI, La riforma "Orlando – Minniti a un anno dall'entrata in

vigore. I molti dubbi e le poche certezze nella prassi delle sezioni specializzate,

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circoscrivere tale potere, rendendolo di fatto esercitabile alle sole ipotesi di manifesta infondatezza previste dalla direttiva procedure67, oltre che alla presenza delle condizioni stabilite dalla Corte (espletamento del colloquio personale nella fase di ricorso, acquisizione del relativo verbale, non indispensabilità della ripetizione del colloquio ai fini dell’esame della domanda ex art. 46). Secondo parte della dottrina68 sarebbe questa l’interpretazione adottata dalla Corte e ciò risulta riconfermato dal richiamo, contenuto nella motivazione, all’art. 32, par. 2, che a sua volta richiama l’art. 31, par. 8.

Da questo punto di vista, allora, sussisterebbe in capo al giudice un vero e proprio obbligo di disporre l’audizione giudiziale, al di fuori dei casi di manifesta infondatezza del ricorso. E poiché i casi di manifesta infondatezza sono soltanto quelli tipizzati all’interno della

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L'art. 31, par. 8, direttiva procedure, contempla numerose fattispecie di manifesta infondatezza della domanda. Si pensi ad esempio a quella di cui alla lett. c) (presentazione di informazioni o documenti falsi od omissioni di informazioni pertinenti o documenti relativi all'identità o cittadinanza), alla lett. d) (probabile distruzione in mala fede di tali documenti), alla lett. e) (rilascio di dichiarazioni palesemente incoerenti o contraddittorie, false o evidentemente improbabili che contraddicono informazioni sufficientemente verificate sul paese di origine), alla lett. g) (scopo di ritardare o impedire l'esecuzione di allontanamento), alla lett. h) (ingresso illegale nello Stato o prolungamento illegale del soggiorno senza presentare domanda di protezione internazionale). In Italia, nella disciplina originaria, era contemplata, all'art. 28 bis, d.lgs. 25/2008 la sola ipotesi di manifesta infondatezza di cui alla lett. a) della direttiva, ossia quando il richiedente abbia sollevato questioni non attinenti con i presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale, oltre che quella di cui alla lett. g). Attualmente per effetto della recente novella legislativa (c.d. decreto sicurezza), il legislatore, avvalendosi della facoltà attribuita dalla direttiva all'art. 32, par. 2, ha recepito ulteriori ipotesi di manifesta infondatezza previste dalla disciplina comunitaria, al nuovo art. 28 ter.

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V. A. D. DE SANTIS, L’eliminazione dell’udienza (e dell’audizione) nel

procedimento per il riconoscimento della protezione internazionale. Un esempio di sacrificio delle garanzie, cit.

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direttiva procedure, unitamente al fatto che la discrezionalità di cui gode il giudice, in tali casi, sia limitata a specifiche condizioni, la ripetizione del colloquio viene ad essere concepita, dalla Corte di Giustizia, come la regola generale, mentre la sua omissione come l’eccezione69. Inoltre, a riconferma dell’eccezionalità della mancata rinnovazione del colloquio, occorre osservare come nei casi di manifesta infondatezza non consegua l’automatica esclusione dell’audizione giudiziale, dal momento che il giudice – in ossequio al

diktat della Corte – è chiamato a valutare la necessità della

ripetizione del colloquio personale alla luce del suo obbligo di procedere a un esame completo ed ex nunc della domanda, ai sensi dell’art. 46. Ne consegue che il giudice, pur trovandosi di fronte a un ricorso manifestamente infondato, debba comunque disporre l’audizione giudiziale qualora la ritenga indispensabile ai fini dell’esame della domanda, ex art. 46.

Se questo è l’esito interpretativo cui è giunta la Corte di giustizia, ne consegue che all’obbligo di fissazione dell’udienza di comparizione delle parti, consequenziale alla mancanza della videoregistrazione, il giudice, conformemente a quanto stabilito dalla giurisprudenza sovra nazionale, dovrebbe procedere, di norma, all’ascolto personale del richiedente “asilo”, salvo i casi del tutto eccezionali di manifesta infondatezza, così come intesi dalla Corte di Giustizia. A maggior ragione, la sentenza della Corte di Giustizia dovrebbe guidare i giudici nell’interpretazione delle nuove disposizioni del Decreto Minniti – Orlando, le quali considerano tanto l’udienza quanto l’audizione come meramente eventuali. In questo modo si

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Si veda al riguardo, D. STRAZZARI, Il diritto a un ricorso effettivo e

autonomia processuale degli Stati: l’audizione personale del ricorrente nelle controversie in materia di riconoscimento della protezione internazionale, in DPCE online, 2017, n. 4.

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potrebbe superare le criticità derivanti dalla nuova disciplina, non ancora attuata per effetto della mancata disponibilità dei sistemi di videoregistrazione, e recuperare, nella fase di ricorso, sia la comparizione delle parti che il rinnovo dell’audizione, rendendo, di fatto, residuale, contrariamente alla logica della riforma, la mancata comparizione e l’omessa audizione del richiedente.

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CONCLUSIONI

Al termine di questa analisi possiamo notare come la procedura di concessione della protezione internazionale sia animata da due distinte nature: amministrativa nella prima fase della procedura, dinanzi alle Commissioni territoriali e giurisdizionale nella successiva fase di ricorso, di fronte alle Sezioni specializzate. Il carattere bifasico della procedura, oltre a caratterizzare la materia della immigrazione, la quale, in più settori e procedimenti, prevede per lo “straniero” un preliminare e necessario passaggio “amministrativo” e un successivo ed eventuale segmento “giurisdizionale”, trova una riconferma direttamente dal Diritto dell’Unione europea, che prevede, nella materia della protezione internazionale, lo svolgimento di una prima fase amministrativa e una successiva ed eventuale fase giurisdizionale.

A complicare la questione vi è il fatto che le due fasi, pur svolgendosi di fronte ad autorità decisorie diverse, siano identiche quanto all’oggetto del giudizio. La successiva fase di ricorso, infatti, non è concepita come un giudizio impugnatorio sull’atto, volto cioè a statuire sulla legittimità o meno del provvedimento conclusivo della fase amministrativa, bensì come un “giudizio sul rapporto”, finalizzato all’accertamento della sussistenza della situazione giuridica controversa, ossia il diritto alla protezione internazionale, analogamente a quel che accade dinanzi alle Commissioni territoriali.

L’identità tra le due fasi è altresì riconfermata dal fatto che entrambi i giudizi siano caratterizzati dai medesimi principi e regole decisorie. Ne consegue che, quale che sia l’autorità decisoria, il procedimento, sia esso amministrativo o giurisdizionale, debba

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essere caratterizzato dalla previsione di un onere della prova attenuato, riconosciuto in capo al richiedente “solo in linea di principio”, dall’ampio spazio riservato all’iniziativa ufficiosa dell’autorità decisoria e dalla valutazione prognostica, rivolta cioè al futuro, su cui si fonda la decisione. L’uniformità di tali principi, che discendono dalle peculiarità della materia della protezione internazionale, impongono alle autorità decisorie di valutare il “bisogno” di protezione internazionale sulla base dei medesimi strumenti.

Un ulteriore carattere di somiglianza tra le due fasi deriva dall’ assoluta centralità che il colloquio personale, nonché la valutazione della credibilità, riveste nel corso della procedura, ai fini decisori. Come già ampiamente affermato, nella maggior parte dei casi le uniche prove disponibili sono le dichiarazioni orali dei richiedenti “asilo”, rilasciate nel corso del colloquio personale, a causa delle notevoli difficoltà che essi possono incontrare nel presentare prove a sostegno di quanto loro affermato. Ne consegue che la decisione, sia essa conclusiva della fase amministrativa o giurisdizionale, si fonda sostanzialmente su un giudizio di credibilità del racconto personale dello “straniero”.

Tutto ciò, ossia l’imposizione dall’ “alto” del carattere bifasico della procedura e la sovrapponibilità dei due giudizi quanto a oggetto decisorio, principi e regole decisorie, apre a una riflessione, finalizzata all’individuazione di misure volte a favorire una fisiologica convivenza tra le due fasi della procedura, di modo che ciascuna di esse, pur mantenendo inalterata la propria natura e caratteristiche, possa coesistere con l’altra e adempiere, così, alle proprie funzioni, all’interno di un giudizio che sia effettivamente in grado di addivenire a una decisione sul bisogno di protezione internazionale, avanzato dal richiedente.

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Da questa prospettiva sarebbe opportuno, anzitutto, intervenire sul versante amministrativo della procedura, potenziando e ampliando il suo carattere “quasi giurisdizionale”, dal momento che si tratta pur sempre di un giudizio vertente su diritti soggettivi, benché affidato ad autorità che tradizionalmente si collocano nell’ambito dell’amministrazione pubblica. Tale potenziamento, strumentale all’implementazione, nella fase amministrativa, di garanzie tipicamente giurisdizionali, sembra non porsi in contrasto con la normativa comunitaria, la quale, all’interno della direttiva procedure, definisce le autorità accertanti competenti all’esame in prima istanza delle domande di asilo come “qualsiasi organismo

avente natura quasi giurisdizionale o amministrativa”.

La natura quasi giurisdizionale delle Commissioni viene altresì riconfermata dal legislatore nazionale nella recente novella legislativa (c.d. decreto Minniti – Orlando), il quale, nel modificare la composizione dell’organo amministrativo, ha disposto l’assunzione, mediante concorso pubblico al pari di ciò che avviene nell’ambito della magistratura, di 250 funzionari amministrativi altamente qualificati.

Si tratta di una misura, senza alcun dubbio, finalizzata a potenziare l’autonomia decisionale della Commissione territoriale, formalmente collocata sotto le dipendenze del Ministero dell’Interno, e a rafforzare, conseguentemente, l’idea del suo carattere ibrido, a componente amministrativa e giurisdizionale. Ed è proprio su tale natura, a parere di chi scrive, che il legislatore dovrebbe far leva in modo da far confluire nella fase “amministrativa” parte di quelle garanzie che notoriamente connotano un procedimento giurisdizionale, così da rafforzare tanto la qualità decisionale quanto l’effettività della tutela e rimediare, al contempo, a quelle criticità che, attualmente, affliggono la

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procedura amministrativa. Pensiamo ad esempio al fatto che il procedimento dinanzi alle Commissioni territoriali si svolge senza la presenza obbligatoria del difensore del ricorrente, causando un grave vulnus al suo diritto di difesa.

Sul secondo versante, vale a dire la procedura di ricorso giurisdizionale, si ravvisa la necessità di incrementare la specializzazione dell’organo giudicante, in modo da renderla effettiva.

Il legislatore, nell’istituire le nuove sezioni specializzate, attualmente composte da magistrati scelti tra quelli già in servizio che presentano una competenza nel settore acquisita ex ante (trattazione delle controversie per almeno 2 anni) ed ex post (partecipazione ai corsi di formazione), ha perso l’occasione per dar vita a un organo giudicante che sia effettivamente specializzato, attraverso l’integrazione di soggetti esperti in materia, ai quali affidare l’arduo compito di supportare e aiutare il giudice nella formazione del suo convincimento in una materia che inevitabilmente richiede competenze specialistiche. Tale possibilità, oltre ad essere consentita dalla Costituzione all’art. 102, co. 2, nella parte in cui consente la partecipazione di soggetti estranei alla magistratura nelle sezioni specializzate, è stato realizzata in alcuni ambiti della giurisdizione. Pensiamo ad esempio alle sezioni specializzate agrarie o al Tribunale dei minori ove i giudici togati sono, per l’appunto, affiancati da soggetti esperti nel settore, il tutto nell’ottica di soddisfare le esigenze di specializzazione richieste dalla materia oggetto del giudizio.

Ciò potrebbe costituire l’appiglio per ridisegnare la composizione delle nuove sezioni specializzate, prevedendo la loro necessaria integrazione con soggetti esperti, quali antropologi o psicologi. La presenza di tali soggetti, infatti, risulta essenziale all’interno di un

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giudizio che si fonda, nella maggior parte dei casi, sulla valutazione di credibilità del racconto personale. Valutare la credibilità di una storia implica la conoscenza di svariati settori, quale lo studio delle barriere linguistiche, l’incidenza di un trauma sulla memoria, il linguaggio non verbale e così via; una conoscenza che va al di là del mondo strettamente giuridico.

Non solo. Sarebbe auspicabile attribuire efficacia vincolante alle linee guida elaborate dall’UNHCR e dall’EASO, utilizzate nella fase amministrativa dalle Commissioni territoriali, sulle tecniche e regole di conduzione dell’intervista, nonché sui parametri della valutazione di credibilità. E ciò non per garantire una continuità nei giudizi, ma per far sì che il giudice, nella successiva fase di ricorso, possa assumere una decisione all’esito di un esame adeguato e completo, all’interno di un giudizio che sia il più possibile simile a quello precedente, e cioè quello svolto di fronte alle Commissioni, quanto a struttura, regole e poteri decisori.

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BIBLIOGRAFIA

Nel documento I "giudici" della protezione internazionale (pagine 142-151)