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Come si è accennato, il noir nello Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio è presente come un pretesto per porre l‟accento su diverse tematiche ovvero la Roma multiculturale, la questione degli stereotipi e dei pregiudizi della società italiana sugli immigrati e viceversa, il divario conflittuale tra il Nord e il Sud dell‟Italia. Il romanzo di Lakhous dà spazio, attraverso il protagonista Amedeo a un‟altra problematica di cui soffrono gli immigrati durante i loro processi d‟integrazione cioè la questione del passato, della memoria e dell‟identità.

La riflessione sulla memoria è ben visibile anche da una delle tre citazioni iniziali nell‟epigrafe del romanzo, tratta da L‟invenzione del deserto di Tahar Djaout:

“La gente felice non ha né età né memoria, non ha bisogno del passato.”

È chiaro che rinunciare alla memoria, sia individuale sia collettiva, equivalga a mettere a repentaglio le basi della propria identità e il senso della direzione del proprio auto-sviluppo, giacché attraverso l‟accumulo dei ricordi ed esperienze la memoria costruisce la persona come insieme d‟idee e di valori tendenzialmente coerenti, appunto, costruisce la personalità della persona218 e la propria identità, la quale si fa, a poco a poco, in base all‟esperienza. In tale prospettiva, la memoria si pone come fedeltà alle origini, attaccamento alle radici e conservatrice delle immagini del passato.

Dall‟analisi della personalità del protagonista Amedeo, si potrebbe riscontrare il senso della citazione precedente di Djaout: tormentato da un passato algerino segnato dal trauma dell‟uccisione della fidanzata Bagia che continua ad angosciarlo come un rimorso, decide di abbandonare l‟Algeria e una volta giunto in Italia sceglie l‟oblio rinnegando il suo passato e venerando l‟Italia e la cultura cosmopolita. Nondimeno egli chiede a sua moglie Stefania prima del matrimonio di non domandargli mai niente del suo passato spiegando:

“La mia memoria è come un ascensore guasto. Anzi, il passato è come un vulcano dormiente. Cerchiamo di non svegliarlo e di evitare eruzioni.”219

Per via di un errore di pronuncia del barista Sandro, il quale non cogliendo bene la pronuncia araba del nome Ahmed, lo trasforma, per disattenzione, in Amede‟ (alla romanesca) e poi Amedeo, il protagonista riesce a trovare un nome quasi omofono al suo originale che poi gli permette di ricostruirsi una vita italiana perfettamente integrata, a livello sociale, lavorativo e familiare grazie a un‟ottima “padronanza dell‟italiano e all‟amabilità del suo carattere, che gli

218 Cfr. Franco Ferrarotti, L'Italia tra storia e memoria. Appartenenza e identità, Roma, Donzelli Editore, 1998,

pp.23-25.

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consentono di diventare un punto di riferimento positivo per tutti gli abitanti del condominio e del circondario”.220

Da qui s‟introduce un tema caratteristico di molta letteratura transculturale ovvero l‟elaborazione del trauma migratorio e l‟integrazione nella società d‟arrivo. Nel caso di Ahmed/Amedeo si nota la scelta di rinnegare il proprio passato e bagaglio culturale nel tentativo di vestire gli abiti degli italiani. Questo tentativo di omologarsi presto, però, creerà una personalità scissa, difficilmente comprensibile dall‟esterno221

, oltre a produrre delle dissociazioni tra la memoria del passato e il vissuto presente, dove le parti del passato emergono solo durante l‟attività onirica, spesso incubi, o nei suoi ululati a forma di pause diaristiche che intervallano la versione dei fatti raccontata dagli altri personaggi.

La posizione di Amedeo nei confronti del suo passato in Algeria si scontra nella frequenza d‟incubi tremendi pieni di ricordi dolorosi che lo lasciano inquieto a lungo. In effetti, poter scegliere cosa ricordare è un atto di potere molto forte cui, però, non obbedisce l'inconscio del protagonista, il quale fa emergere nei sogni dei contenuti che la coscienza razionale non vuole vedere o nega del tutto.

Ciò che rimane al protagonista del suo passato è un inesorabile giogo di ricordi amari, ossessivi che diviene col tempo intollerabile da costruire la ragione della sua infelicità. L‟uccisione della sua fidanzata algerina Bàgia per mano di un gruppo di fondamentalisti rappresenterebbe dunque, a livello simbolico, la morte della sua città natale e in generale la madre patria cui si è accanito il fondamentalismo islamico. È senz‟altro da notare che in arabo il nome Bàgia significa “gioia”, ed è uno dei soprannomi della città di Algeri:

“Il maledetto incubo mi perseguita. Stefania mi ha detto questa mattina che ho gridato durante il sonno e che ho ripetuto molte volte il nome Bàgia. Non ho voluto rivelarle i dettagli. È inutile farla partecipare al gioco degli incubi. La mia memoria è ferita e sanguina, devo curare le ferite del passato in solitudine. Peccato, Bàgia si fa viva solo negli incubi avvolta in un lenzuolo macchiato di sangue. Oh, mia ferita aperta che non guarirai mai!”222

Nelle scelte di Amedeo a liberarsene della propria memoria algerina condannandosi a una sua deliberata damnatio memoriae del vecchio Ahmed sembra rintracciare le tesi di Friedrich Nietzsche sulla memoria e sulla felicità dell‟uomo pubblicate nel primo capitolo del saggio “Sull‟utilità e il danno della storia per la vita”, scritto e pubblicato nel 1874. Le considerazioni del filosofo tedesco ci portano a immaginare i diversi modi di essere felici

220 Maria Grazia Negro “L‟upupa o l‟Algeria perduta:i nuclei tematici, il processo di riscrittura e la ricezione nel

mondo arabo di Amara Lakhous”, in Kùmà Creolizzare l'Europa, n.12/2006,

http://www.disp.let.uniroma1.it/kuma/critica/kuma12upupa.html

221 In effetti quasi tutti i vicini credono che Amedeo sia italiano, e anche la moglie stessa afferma di non sapere chi

è Amedeo, dice Stefania: “Solo adesso apro gli occhi su questa verità:non so chi è Amedeo. Chi era prima di stabilirsi a Roma? Perché ha abbandonato il suo paese di origine? Perché ha scelto Roma? Cosa nasconde il suo passato?” (Amara Lakhous, Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio, op.cit, p.103).

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aprendo il suo saggio con un paragone tra l‟uomo e l‟animale, per poi confluiscono nella tesi che solo nell‟oblio è possibile all‟uomo non essere infelice, la felicità non è nella memoria, bensì nella negazione della memoria. Dice Nietzsche:

“L‟uomo chiese una volta all‟animale: “Perché non mi parli della tua felicità e soltanto mi guardi?” L‟animale dal canto suo voleva rispondere e dire: ciò deriva dal fatto che dimentico subito quel che volevo dire”, ma subito dimenticò anche questa risposta e tacque, siccome l‟uomo se ne meravigliò223. Ma egli si meraviglia anche di se stesso, per il fatto di non poter imparare a dimenticare e di essere continuamente legato al passato: per quanto lontano, per quanto rapidamente egli corra, corre con lui la catena. […] Allora l‟uomo dice: “Mi ricordo” e invidia l‟animale che subito dimentica e che vede veramente morire, sprofondare nella nebbia e nella notte, spegnersi per sempre ogni istante. L‟animale vive così in modo non storico, poiché si muove nel presente, come un numero, senza che ne rimanga una bizzarra frazione […] non nasconde nulla e appare in ogni momento totalmente ciò che è, non può essere nient‟altro che sincero. L‟uomo, al contrario, si oppone al pesante e sempre più pesante carico del passato: questo lo schiaccia giù o lo spinge da parte, appesantisce il suo passo come un fardello invisibile e oscuro.”224

Quindi è solo attraverso l‟oblio che si può essere felice, perché permette di immergersi totalmente nell‟immediato presente, di sgravarsi dalla catena della memoria che guarda al passato con l‟occhio della nostalgia e di agire liberamente. In effetti, privo di memoria e ricordi, non avverte su di sé il pesante fardello del passato, è libero di vivere il presente, un presente fatto di una piccolissima ma costante e ininterrotta felicità, a differenza dell‟uomo che, avendo la facoltà del ricordare, è condannato ad una perenne sofferenza , un dolore che impedisce la propria serenità.

D‟altronde, in Amedeo, Lakhous pone l‟accento sull‟immagine, oggi diffusa, di un‟identità fluida, talvolta effimera ma soprattutto multipla di culture, di valori, di stili di vita che la rendono ibrida. Da queste ibridazioni in cui si combinano tratti sociali e culturali dei due paesi implicati, nascerebbe una sorta di nuovo cosmopolitismo.

Per il protagonista è necessario diventare poliglotta, non bisogna arrendersi a un'identità monocromatica, due mondi e due culture potrebbero co-esistere – nonostante il costante tentativo di far prevalere il suo presente e dimenticare il suo passato –, quest‟idea è rilevata citando un personaggio del XV secolo Al Hasan ibn Muhammad al-Wazzan al Fasi, meglio conosciuto come Leone Africano per il nome assunto nel periodo della temporanea apostasia verso la fede cristiana, e protagonista del famoso romanzo omonimo di Amin Maalouf riportato nel romanzo di Lakhous. Leone l‟Africano rappresenta, dunque, una figura capace di

223 Degno di nota che Nietzsche s‟ispira esplicitamente al Canto notturno di un pastore errante per l'Asia dove

Leopardi ritiene l‟animale capace di vivere senza noia il ripetersi eguale di ogni cosa. Nietzsche, a differenza del canto leopardiano che rimanda l‟afflizione umana alla Natura maligna, inserisce nella sua tesi l‟elemento dell‟oblio ritenuto un elemento essenziale della felicità delle bestie.

224 Friedrich Nietzsche, Sull‟utilità e il danno della storia per la vita, (1874), trad. di: Sossio Giametta, Milano,

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superare identità costrittive e di coniugare multiformi culture, cui s‟ispira molto Amedeo il quale afferma:

“È meraviglioso potersi liberare dalle catene dell‟identità che ci portano alla rovina. Chi sono io? Chi sei? Chi sono? Sono domande inutili e stupide.”225

In realtà, molteplicità e ibridismo identitari spesso sono un leitmotiv, un filo conduttore e una direzione fondamentale nella produzione letteraria di Maalouf. In Leone l‟Africano, Maalouf celebra l‟identità in movimento, cosmopolita226

a cavallo tra più patrie; si tratta di una comprensione più complessa dell‟identità dinamica intesa come mosaico di culture, lingue, etnie, la cui flessibilità, duttilità proviene dalla possibilità di adattarsi alle nuove circostanze e ai nuovi modi di vivere e di pensare. A confermare questa prospettiva d‟identità, è il protagonista nell‟incipit dell‟opera presentandosi così:

“Io, Hassan, figlio di Mohamed il pescatore, io, Giovanni Leone de‟ Medici, circonciso per mano di un Papa, vengo oggi chiamato l‟Africano, ma non sono africano, né europeo, né arabo. Mi chiamano anche il Granadino, il Fassi, lo Zayyati, ma non appartengo ad alcun paese, città o tribù. Sono figlio della strada, la mia patria è la carovana, la mia vita la più imprevedibile delle traversate […] Dalla mia bocca ascolterai l‟arabo, il turco, il castigliano, il berbero, l‟ebreo, il latino e l‟italiano volgare, perché tutte le lingue, tutte le preghiere mi appartengono. Ma io non appartengo a nessuno. Sono solamente di Dio e della terra, e ad essi un giorno prossimo ritornerò.”227

Amedeo ritiene che non ci sia una sola identità, per questa ragione non bada neanche al fatto che tutti lo chiamino con un nome diverso dal suo228, anzi, forse pensa che le identità limitino la vera essenza dell‟individuo e ci fanno apparire non per come siamo. E pertanto preferisce nascondere a tutti le proprie origini (con cui ha un rapporto personale e intimo eppure un po‟ conflittuale), e la propria religione, perché non vuole essere giudicato (o stereotipizzato) in base ad esse, bensì a ciò che è veramente. Egli crede, quindi, nella

225 Amara Lakhous, Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio, op.cit, p.108.

226 Nella prefazione di un‟altra opera di Maalouf, Origini (Milano, Bompiani, edizione digitale, 2013), egli ribatte

sempre il concetto dell‟identità multipla e cosmopolita, la capacità di adattamento e la versatilità dell‟uomo. Come un tributo alla natura ecumenica panteistica delle identità umane, Maalouf scrive: “Non fa parte del mio vocabolario la parola "radici", non mi piace e ancora meno amo l'immagine che evoca. Le radici affondano nel suolo, si contorcano nel fango e si sviluppano nelle tenebre. Trattengono l'albero prigioniero da quando nasce e lo nutrono in virtù di un ricatto: "Se ti liberi, muori". Gli alberi si devono rassegnare hanno bisogno delle radici: gli uomini, no. Noi respiriamo la luce, aspiriamo al cielo e, quando veniamo ficcati sotto terra, è per morire. La linfa del suolo natale non risale dai piedi alla testa; i piedi servono solo per camminare. A noi importa solamente delle strade: sono le strade che ci guidano... promettono, ci portano, ci spingono, poi ci abbandonano. E allora stramazziamo morti, come siamo nati, sul ciglio di una strada che non abbiamo scelto”.

227 Amin Maalouf, Leone l‟Africano, trad. it. di Laura Frausin Guarino, Milano, Bompiani, 2002, p. 7, (orig. Léon

l‟Africain, Parigi, 1986).

228 A tal proposito, nel suo ottavo ululato Amedeo esprime la sua convinzione che cambiare nome aiuti a trovare un

minimo di coerenza tra le nostre varie personalità: “Ho letto questa sera sull‟Espresso l‟articolo di uno psicologo che consiglia alla gente di cambiare nome ogni tanto, perché questo crea un equilibrio tra le varie personalità che vivono in conflitto dentro ognuno di noi. Ha detto che cambiare il nome aiuta a vivere meglio, perché attenua il fardello della memoria. Quindi io sarei al sicuro dalla schizofrenia, il nome Amedeo non mi danneggia.” (Amara Lakhous, Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio, op.cit, p.98).

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possibilità di un miscuglio di culture che non possono essere "una", e che, comunque, sembra aiutarlo a poter costruire la sua propria individualità senza spogliarsi dalla propria cultura d‟origine.

D‟altronde, mentre nella narrazione si riesce a trovare un equilibrio tra gli ululati di Amedeo (dove emerge il passato) e la sua nuova identità italiana (come bravo cittadino romano allattato dalla lupa, come recita, appunto, il titolo della versione araba), il dramma della scissione tra presente e passato che costruisce, tra l‟altro, uno dei punti cardinali del pensiero e della psicologia del protagonista229 si avverte nei suoi ultimi ululati a partire dal decimo in cui viene colto dai ricordi algerini dopo l‟incontro con il suo connazionale Abdellah al mercato di Piazza Vittorio.

Il pensiero della casa lontana e i dolci ricordi del Ramadan è un aspetto della nostalgia cui si sovrappone un vero e proprio struggimento segnato da certi ricordi cruenti proiettati come immagini di un filmato dal suo subconscio. Si nota che è il colore rosso a dominare i ricordi angoscianti; il rosso ambivalente che è il colore del sangue pulsante, simbolo dell‟inizio di una vita ma anche della morte. Ricordi che cominciano da quando viene messo al mondo nel sangue del parto, a cui si sussegue quello della circoncisione, e finiscono col sangue dello sverginamento della sposa la prima notte di nozze in una cerimonia nuziale, che poi altri non è che l‟Algeria stessa ovvero “Bágia”.

Infine, Amedeo accetta la sua perenne sofferenza legata alla memoria; in questo dolore assurdo e costante lui è come Sisifo, condannato dagli dèi alla punizione eterna di sospingere un‟enorme pietra fino alla cima di una montagna. Uno sforzo che non ha mai fine poiché ogni volta che si avvicina alla cima la pietra rotola giù di nuovo. Il protagonista impara ad accogliere il dolore con l‟ululato cioè attraverso scrittura che diventa un‟opportunità di sopravvivenza alla solitudine e alla memoria dolorosa.

In effetti, è interessante costatare nelle sue ultime parole l‟identificazione tra il protagonista e la memoria e il malvagio re Shahrayar delle Mille e una notte, dal quale la narratrice Shahrazad vive perché riesce a legarlo all‟attesa e al piacere della narrazione. Da qui, raccontare ciò che serve alla sua sopravvivenza quotidiana, come fa Shahrazad, risulta piuttosto una metafora emblematica del disagio vissuto di Amedeo:

“Sono anche Shahrazad? Shahrazad c‟est moi? Lei racconta e io ululo. Entrambi sfuggiamo alla morte e ci ospita la notte. Narrare è utile? Dobbiamo raccontare per sopravvivere. Maledetta memoria! La memoria è la pietra di Sisifo. Chi sono? Ahmed o Amedeo? […] Insegnami, mia adorata signora, l‟arte di sfuggire alla morte […] Insegnami, Shahrazad, come sconfiggere lo

229 Dice Amedeo nell‟ultimo ululate: “Ogni tanto mi prende il dubbio quando penso che passo per buono agli occhi

di tutti. Ma che ne sanno? Amedeo potrebbe essere una semplice maschera!” (Amara Lakhous, Scontro di

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Shahrayar che sta dentro di me. La mia memoria è Shahrayar. Auuu.. La mia memoria è Shahrayar. Auuuu”230