• Non ci sono risultati.

La questione israelo-palestinese nelle opere di Salwa Salem e Rula Jebreal 1 Con il vento nei capelli di Salwa Salem

Letteratura araba migrante al femminile

1. La questione israelo-palestinese nelle opere di Salwa Salem e Rula Jebreal 1 Con il vento nei capelli di Salwa Salem

Nel 1993 esce il libro di Salwa Salem Con il vento nei capelli, il quale assieme a tanti romanzi precedenti e contemporanei, si citano Io venditore di elefanti530 di Pap Khouma, Volevo diventare bianca531 di Nassera Chohra e Immigrato532 di Salah Methnani, costituiscono le prime esperienze di scrittura letteraria migrante italofona, dalla quale il fattore autobiografico oltre alla presenza del coautore italiano risultano preminenti.

In effetti, il romanzo di Salwa Salem fa parte delle cosiddette narrazioni-testimonianza dell‟esperienza migratoria autobiografica filtrate, in particolar modo da un punto di vista linguistico, dal co-autore/autrice italiano/a che ha il compito di occuparsi della stesura del racconto orale del/della protagonista. A tal proposito Laura Maritano, la curatrice del romanzo, pone l‟accento nella postfazione sui dettagli della redazione del libro:

“Stavo finendo l‟università e avevo dedicato particolare attenzione alla storia orale e all‟antropologia […] Salwa cercava qualcuno cui raccontare la storia della sua vita. Aveva spesso pensato a questo, quasi per gioco, ma da alcuni anni, da quando era scoppiata l‟intifada e aveva già ripreso l‟attività politica […] questo desiderio si era fatto più forte. […] Aveva già iniziato a fare uno schema del suo racconto, per individuare le cose che riteneva più importanti. […] Per un anno abbiamo lavorato insieme a questo libro […] Salwa aveva narrato tutta la sua vita a partire dall‟infanzia, secondo il suo schema: le mie domande erano state essenzialmente di chiarimento. Tutta la trascrizione, circa quattrocento pagine dattiloscritte, era stata riletta da Salwa che aveva corretto e modificato alcuni parti.”533

A differenza dei romanzi sopracitati, l‟opera di Salwa si distingue per essere un‟opera postuma, curata e completata dalla curatrice con l‟aiuto della figlia e dei parenti dell‟autrice, e infine pubblicata dopo un anno dalla sua morte nel 1992. La co-autrice Laura Maritano, sempre nella postfazione, spiega che il suo lavoro consisteva sulla trascrizione del racconto orale di Salwa, correggendo e modificando alcuni tratti del registro linguistico orale, e soprattutto esaltando l‟aspetto narrativo dell‟opera senza rivelarne alcuna sfaccettatura documentaria:

“Il 5 marzo 1992 Salwa è morta […] ora dovevo fare senza di lei: una grande responsabilità, una grande paura. Era necessario un secondo lavoro di scrittura per portare il testo una forma più organica e scorrevole. […] Ho accentuato la disposizione tematica pur mantenendo una scansione cronologica dovuta all‟importanza degli eventi e dei luoghi all‟interno della vita di Salwa. […] Grazie anche ai suggerimenti di Elisabetta e di Ruba, ho operato un forte intervento sul linguaggio orale che, una volta trascritto, non rendeva più conto della estrazione sociale e culturale di Salwa e della sua padronanza della lingua italiana: errori e imprecisioni erano inevitabili. […] Fin dall‟inizio si era posto il problema se rendere esplicito il tipo di intervento da

530

Pap KHOUMA, Io venditore di elefanti. Una vita per forza fra Dakar, op.cit.

531 Nassera Chohra, Volevo diventare Bianca, op.cit.

532 Salah Methnani, Immigrato, a cura di Mario Fortunato, op.cit.

174

me fatto – domande, integrazioni, interventi sul linguaggio –, ma la scelta, suggerita anche da Salwa prima della sua morte, di accentuare l‟aspetto narrativo rispetto a quello documentario, ha poi fatto escludere tale possibilità.“534

Inoltre, dalla scelta di narrare la sua biografia, si potrebbe scorgere delle importanti chiavi della personalità della Salem sia a livello umano che politico: l‟autrice trovava energie e si ribellava alla stanchezza della malattia, e in più attraverso l‟atto stesso di raccontare, Salwa voleva lasciare tracce di se stessa e della storia amareggiata della sua Palestina strappata al suo popolo dagli israeliani. Inoltre, per lei realizzare il libro significava un luogo in cui affermarsi come donna, dove poteva fare capire ai lettori occidentali la condizione della donna nel mondo arabo, e le difficoltà e i conflitti con cui si scontrano al fine di comporre le proprie esistenze, trovare senso, rilevanza, riconoscimento del proprio posto nel mondo. Infine, anche per l‟autrice palestinese, come sostiene Maria Saracino, “L'autobiografia diventa un gradino, un passo necessario per arrivare alla narrativa di fantasia. Come se non ci si potesse affidare al racconto senza aver prima detto chi si è, senza aver messo avanti le proprie credenziali'”535

; ed è questo progetto di dichiarazione di se stessi e della relazione con una nuova identità nella formazione degli immigrati, che produce un genere letterario che è un ibrido, in bilico tra la cronaca e il romanzo, tra la memoria di casa e l'esperienza della contaminazione culturale.

Nell‟incipit del libro, l‟autrice situa l‟inizio del romanzo fuori dal contesto dell‟oralità, dove è realmente avvenuto, inserendo così un elemento di finzione narrativa, benché basato sulla realtà: lei che si trova malata in ospedale e comincia a riflettere sul proprio vissuto. Inoltre, sempre dallo stesso prologo in ospedale, Salem si definisce come l‟incarnazione di un corpo tradito, se è il proprio corpo indebolito dal cancro oppure, in un certo senso metaforico, il corpo frammentato di una nazione palestinese; ed è proprio da qui che dà inizio alla sua autobiografia accompagnata da tante digressioni di materia storica che manifestano le opinioni della narratrice concernenti il conflitto israelo- palestinese.

Senz‟altro, come ogni storia rivissuta in prima persona, anche la versione storica fornita dalla Salem, rappresenta una traccia per seguire lo sviluppo di alcuni aspetti del problema palestinese dagli anni Trenta fino a oggi: Salwa che forse ha in mente un pubblico italiano legato particolarmente alla versione dei fatti filoisraeliana, cerca di far risaltare una serie di punti non sempre così chiari riguardo il dibattito storiografico sulla questione palestinese.

Inscritto all'interno della storia della Palestina, il romanzo della Salem racconta della sua infanzia e della perdita della casa familiare a Yafa nel 1948 dopo la proclamazione dello Stato di Israele. In tutto ciò, la narratrice, grazie a varie digressioni storiche oltre alle esperienze personali del padre, ripercorre le origini del problema palestinese: dalla dichiarazione di Lord Balfour a Lord Rotschild, membro dell‟esecutivo sionista inglese, in

534 Ivi, pp.168-169.

175

favore della costituzione di un “focolare nazionale ebraico in Palestina”, la Salem passa per il combattimento di questo popolo per la propria indipendenza dall‟occupazione inglese (che dal 1920 controlla il paese attraverso l‟istituzione del mandato), ma soprattutto contro la minaccia percepita dall‟intera popolazione palestinese a seguito del movimento migratorio ininterrotto degli ebrei verso la Palestina a partire dagli anni Trenta. La narratrice ricostruisce le vicende storiche citando anche i racconti di famiglia cui spesso assisteva da piccola:

“Nei pomeriggi invernali trascorsi tra parenti e amici di famiglia, avrei spesso sentito parlare dei tempi degli inglesi e della lotta che conduceva il mio popolo. Gli inglesi governavano la Palestina con mano di ferro: c‟era un governatore militare e c‟erano leggi crudeli. C‟era inoltre nell‟aria il progetto di creare nella nostra terra un “focolare nazionale” per gli ebrei. Già all‟inizio del secolo scorso era iniziata l‟immigrazione degli ebrei, ma era un‟immigrazione di singoli individui o piccoli gruppi. I palestinesi li avevano accolti, non avevano mai avuto problemi con loro. […] Le cose cambiarono quando iniziarono ad arrivare in tanti, con le navi inglesi. Fu allora che i palestinesi della generazione di mio padre capirono che quella gente arrivava per rubarci il posto, c‟era un complotto e la situazione iniziava a diventare pericolosa. Quando il progetto di costruire uno stato ebraico in Palestina divenne chiaro, il popolo palestinese s‟infiammo.

Le maggiori autorità palestinesi avevano chiesto la costituzione di un governo locale in cui ci fossero rappresentanti di tutte e tre le religioni […] Gli inglesi rifiutarono la proposta che urtava con le promesse fatte da Sua Maestà Britannica al sionismo internazionale. Nel 1936 ci furono mesi di sciopero cui aderì in massa la popolazione palestinese. I partigiani diventarono migliaia.”536

La Salem racconta, poi, gli avvenimenti del 1947-1948, la cosiddetta “guerra d‟indipendenza” di Israele, mentre per i palestinesi è la Nakba, cioè Catastrofe, il punto d‟inizio di una serie di tragedie anche personali. Nel corso del 1948 e dopo furono espulsi o fuggirono circa 750, 000 palestinesi, le loro terre e proprietà urbane e rurali furono confiscate dallo stato di Israele. L‟accenno di Salwa al modo in cui è nato lo stato ebraico in Palestina, insieme a quello di diversi storici palestinesi e non, vuole mettere in evidenza il modo cruento condotto dagli ebrei per terrorizzare e cacciare via una popolazione dalla propria terra al fine di avere la loro terra promessa, il che distrugge il mito positivo che spesso avvolge la nascita dello stato ebraico a causa dell‟ormai noto senso di colpa degli europei e degli americani nei confronti delle mostruosità subite dagli ebrei nella seconda guerra mondiale.

Salwa che visse quell‟esperienza ancora bambina racconta l‟esodo della sua famiglia e di tanti palestinesi da Yafa, che non era certo frutto della spontanea volontà, bensì conseguenza di un orrore provocato dalle strategie di terrorismo cui ricorsero spesso le forze armate ebraiche col fine, appunto, di atterrire la popolazione palestinese e indurla alla fuga in massa dai villaggi come scelta razionale e prudente. La narratrice si sofferma sul massacro dei palestinesi in un villaggio chiamato Deir Yassin nell‟aprile 1948 (ora rinominato Givat Shaul Bet) il quale rappresenta un esempio di genocidio, avvenuto ad opera delle truppe dell'Irgun

176

di Menahem Begin e del Lehidi Itzhak Shamir, che provocò una profonda grande paura e che aveva dato inizio alla cacciata dei palestinesi per fare spazio agli ebrei immigrati di tutto il mondo:

“Esplosioni, fumo, fiamme, grida e volti impauriti. Così, all‟improvviso, uno squarcio nella mia memoria. Accade nel 1948 […] nel giro di una settimana i disordini dilagano in tutta la Palestina. A Yafa si sentono spari dappertutto. I razzi cadono fitti durante i bombardamenti, la sirena dell‟autoambulanza urla in continuazione. […] Di notte veniamo svegliati dal rumore delle sparatorie nelle strade, […] ci sono molti incedi di palazzi. […] Sento raccontare di eccidi, morti, terrore, paura, racconti macabri, disperati. La gente parla di Deir Yasin e di altri massacri. Deir Yasin è un villaggio che è stato attaccato e trecento dei suoi abitanti, vecchi, donne e bambini, sono stati violentati e uccisi. Si racconta del massacro con grande terrore. Altoparlanti per le strade invitano la popolazione a mettersi al sicuro […] si scoprì più tardi che erano messaggi delle bande ebraiche che si spacciavano per i leader arabi e cercavano così di far evacuare la gente come se fosse per poco tempo, una cosa provvisoria. Dagli aereoplani cade su di noi una pioggia di volantini: “Andate via, uscite dalle vostre case, se no farete la fine di Deir Yasin…” […] Non dimenticherò mai la sera in cui decidemmo di lasciare Yafa […] Gruppi di ebrei armati hanno fatto irruzione in molte case vicine, saccheggiando e uccidendo; alcune famiglie sono state interamente eliminate, ragazze violentate. Siamo incapaci di difenderci, gli ebrei invece sono ben addestrati, ben armati, più forti di noi. Mio padre è perso dal panico. Dice a mia madre di preparasi […] dobbiamo partire, è impossibile rimanere nel nostro quartiere.”537

Il 14 maggio 1948 fu proclamata la nascita dello Stato d‟Israele, immediatamente riconosciuto da USA e URSS, nei giorni successivi gli eserciti dei paesi arabi (gli eserciti di Egitto, Iraq, Libano, Siria, Transgiordania, Yemen e Arabia Saudita) limitrofi reagirono attaccando Israele e così inizia la prima guerra arabo-israeliana; ma le forze arabe erano divise e mal organizzate ed in poco tempo furono sconfitte da Israele, che ne approfittò per espandersi ulteriormente.

Nel 1949 gli stati arabi furono costretti a chiedere l‟armistizio. Israele annesse una porzione di territorio molto più estesa rispetto al piano previsto dell‟ONU; di quanto restava del previsto Stato palestinese, la Striscia di Gaza fu annessa all‟Egitto, mentre la Giordania acquisì il controllo di Gerusalemme est e della Cisgiordania. La Palestina come unità territoriale era scomparsa. È molto notevole il tema dei dissidi giordano-palestinesi cui la Salem fa vari cenni nel romanzo che nel 29 luglio 1951 condussero all‟assassinio del Re di Transgiordania, Abdullah, il quale rimase vittima di un attentato da parte di un palestinese:

“Nel 1947 l‟ONU aveva approvato un piano di spartizione della Palestina, e quindi nel 1948 era stato riconosciuto lo stato d‟Israele. La Cisgiordania, dove noi eravamo rifugiati, era stata messa sotto il controllo della monarchia giordana, come premio per il re Abdallah che aveva sempre collaborato con gli inglesi e con gli ebrei pur di conservare la corona […] Poco dopo il 1948, un gruppo di palestinesi aveva sparato a re Abdallah mentre andava a pregare alla moschea di al- Aqsa a Gerusalemme, uccidendolo. Fu questo un gesto di sfida, di straordinario coraggio nei confronti di uno dei responsabili della nakba. Anche per questo la Giordania creò un regime poliziesco in Cisgiordania, vietò qualsiasi manifestazione culturale e politica. Re Hussien, che

177

giovanissimo era succeduto a re Abdallah, mandava in Cisgiordania l‟esercito dei beduini, tribù del deserto, fedelissimi al sovrano. Per i beduini veniva prima il re e poi Dio, e spesso non sapevano né leggere né scrivere. Veniva detto loto che i palestinesi erano tutti comunisti, che non credevano in Dio, non credevano nella famiglia e odiavano il re. Per questo i soldati giordani erano molto duri nel picchiare ed era impossibile ragionare con loro […] Il regime giordano poi impedì la costruzione di industrie e di università in Cisgiordania, anche se utilizzò le capacità e la professionalità dei palestinesi per costruire e migliorare il proprio paese.”538

La narratrice dà molto spazio nel romanzo, soprattutto nella parte ambientata a Nabuls ovvero gli anni della sua adolescenza, alla sua lotta politica nei territori occupati, svolta costantemente contro la volontà del padre. In effetti, i suoi atti di resistenza fanno di lei un esempio di una figlia ribelle, diversa dal modello tradizionale della figlia acquiescente. Salwa passa in rassegna il ruolo delle donne politicamente attive che cresce significativamente dopo la proclamazione dello stato ebraico nel 1948; parla di se stessa e di altre compagne e amiche ansiose di agire, che vogliono combattere per la loro Palestina, e in ciò sfidano il dominio maschile mettendo persino a rischio la propria reputazione. Non a caso spiega lo sguardo dei familiari e dei vicini nei suoi confronti i quali spesso usano l‟espressione “ala hall shariha” (con i capelli sciolti) per definire il comportamento di una donna molto libera o in senso generale una donna controcorrente. Salwa sceglie, infatti, questa espressione come titolo del suo romanzo in cui afferma più volte il suo diritto di sfidare, con il vento nei capelli, le rigide regole imposte alle donne:

“La cosa che preoccupava di più i miei genitori era la mia reputazione. Da noi esiste un‟espressione particolare per indicare le ragazze troppo libere: ala hall shariha che significa “con i capelli sciolti”. Ho sempre trovato molto singolare che un‟immagine così bella, l‟immagine di una ragazza con i capelli al vento, fosse un‟espressione offensiva. […] Non sono mai stata una ragazza leggera, non sono mai andata ala hall shari, come temeva mio padre, ma sono sempre riuscita a ottenere ciò che volevo, a fare anche cose un po‟ pericolate e a godermi sempre il vento nei capelli”.539

A partire dal 1952 con l‟ascesa di Nasser al potere in Egitto e il crescente nazionalismo arabo e panarabismo540, il ruolo delle donne si rafforza e la speranza della librazione della Palestina accresce ancor di più, giacché, secondo le idee anti-imperialiste e anti-sionisti, quest‟ultima rappresenta un passo fondamentale per ottenere la vera unità araba. La narratrice descrive il fervente ambiente politico di quegli anni in cui le studentesse entravano con entusiasmo a far parte dei partiti baathista, comunista ma anche del movimento nazionalista arabo. Malgrado molte volte le loro riunioni avvenissero separatamente da quelle

538 Ivi, pp.28-29. 539 Ivi, pp.40-41. 540

Il culmine delle sue idee nazionalistiche e anti-imperialiste si ha nel 1955-1956 con il rifiuto del patto di Bagdad ossia l‟alleanza fra Iraq, Turchia, Inghilterra e Iran nel 1955, e soprattutto la nazionalizzazione del canale di Suez; e ancora nel 1958, il primo indizio dell‟unità araba si è formalizzato con la creazione della Repubblica Araba Unita che vede l‟unione fra Egitto e Siria.

178

organizzate dagli uomini, le donne avevano un ruolo rilevante quasi al pari degli uomini: facevano propaganda, distribuivano volantini, organizzavano proteste e marce contro Israele e contro le potenze occidentali e soprattutto reclutavano altre donne541.

Nel testo la figura carismatica di Nasser in grado di farsi portavoce del mondo arabo-islamico appare molto forte, e ancora dalle parole della protagonista il suo nome risulta molto rispettato e la sua memoria idealizzata, sebbene il fallimento del suo progetto panarabista, probabilmente troppo ambizioso e affrettato, con la sconfitta nella Guerra dei Sei Giorni che portò l‟esercito della stella di Davide a occupare Gaza, la Cisgiordania, Gerusalemme e tutto il Sinai e ad affacciarsi al canale di Suez. La disfatta ebbe un effetto politico e morale devastante: si trattava della distruzione del sogno della liberazione della Palestina e il consolidamento del mito dell‟invincibilità dell‟esercito israeliano:

“Noi Ba‟athisti appoggiavamo Nasser perché voleva realizzare il socialismo, l‟unità economica e politica del mondo arabo, risvegliare la popolazione e ci stava riuscendo. Nasser poi era il grande sostenitore della causa palestinese. […] Proprio ai suoi tempi ci fu il primo tentativo di creare un‟organizzazione palestinese. […] Noi palestinesi amavamo Nasser. Lui faceva discorsi lunghissimi, parlava e parlava. Quando teneva i suoi discorsi alla radio ogni città, ogni villaggio, ogni strada era deserta, tutti si fermavamo per ascoltare, […] non c‟era casa o bottega che non avesse la radio a tutto volume, la gente lasciava le finestre aperte in segno di sfida vero i soldati giordani. La voce di Nasser risuonava dappertutto.”542

L‟ultimo punto del conflitto israelo-palestinese su cui si sofferma la scrittrice è quello che concerne le conseguenze dell‟occupazione israeliana della Cisgiordania e Gaza dopo la Guerra dei Sei Giorni, con lei che stava a Vienna con il marito e quindi perse il diritto di ritornare, e vide la situazione peggiorare nei territori occupati: espulsioni, arresti arbitrari, processi sommari, carcerazioni con trattamento disumano, sequestri di terre e aumento d‟insediamenti militari. L‟io-narrante esprime la sua delusione e la sua rabbia dopo la sconfitta subita nel 1967, che sono corroborate da una cocente sensazione di fallimento, di umiliazione, di vergogna e di vuoto dentro dove si è sentita molto intrappolata:

“La guerra del 1967, la cosiddetta “guerra dei sei giorni” ci piomba addosso come un fulmine. Le mie angosce private svaniscono davanti alla grande tragedia. È un colpo fatale, ci sentiamo paralizzati. […] i giornali austriaci si interessano poco di: esaltano il miracoloso successo dell‟esercito israeliano e disprezzano quei “vermi” che sono stati spazzati via in sei giorni. […] Abbiamo gli occhi rossi per le lacrime e per la stanchezza. Non riusciamo ad avere notizie dei nostri cari, tutti i contatti sono interrotti. Ci sentiamo distrutti. Nessuno parla, nessuno mangia. Siamo impietriti, disperati, impotenti. Noi che eravamo fuori dalla Palestina perdemmo per sempre il diritto di tornare. Eravamo tagliati fuori, stranieri, non eravamo più nessuno. Avevamo perso tutto, eravamo di nuovo senza terra, senza casa, senza un punto d‟appoggio.

Era insopportabile sentirsi orfani per la seconda volta. Nella mia mente si mescolavano Yafa e Nablus, il dolore di essere costretta a staccarmi da loro. Non so quale sia stato il distacco più

541 Cfr. Salwa Salem, op.cit, pp-41-44. 542 Ivi, pp.46-47.

179

duro, se quello da Yafa, perché non riuscivo a capire, o quello da Nablus, perché capivo troppo.”543

Nonostante la ragione principale per cui la Salem abbia deciso di scrivere la sua