PRASSI INTERNAZIONALE
5. Il metodo semplificato per la determinazione della perdita durevole di valore
Le previsioni del principio OIC 9 dimostrano il terreno di confronto concettuale tra il concetto di perdita durevole di valore e quello della necessità di assicurare effettività al principio di prudenza e assicurare coerenza tra il fine del bilancio e la natura della bilancio e la natura della rappresentazione fornita.
Come noto la determinazione della perdita durevole di valore si declina nel confronto tra il valore contabile degli asset e il valore recuperabile individuato nel maggiore tra il valore d’uso e il valore recuperabile dalla vendita, al netto degli oneri di dismissione.
Orbene l’OIC 9 introduce quindi la necessità di procedere a questo confronto sulla base del verificarsi o meno di alcuni eventi che possono essere indicatori/rivelatori delle perdite durevoli di valore con delle previsioni che sono sostanzialmente in linea con quelle dello IAS 38.
Tale armonizzazione appare quindi necessaria nell’ambito stesso della esecuzione e del recepimento delle direttive contabili comunitarie sulla base dell’introduzione del tema della verifica di recuperabilità del valore.
Tale prassi, a ben vedere, si inserisce nell’ambito della disciplina codicistica nell’applicazione del precetto di rivalutazione durevole previsto dal terzo comma dell’art. 2426 del codice civile.
Per le immobilizzazioni materiali si tratta di confrontare il valore contabile con il valore d’uso o quello netto direttamente recuperabile dalla vendita.
Tale previsione normalmente si applica anche alle attività immateriali per cui sia il Codice Civile che l’OIC 9 impongono una valutazione degli asset alla redazione del bilancio d’esercizio.
Indubbiamente tale previsione impone la necessità di procedere all’individuazione interpretativa di idonee tecniche di valutazione del valore delle attività immateriali, al fine di procedere ad effettuare la verifica della sussistenza e la quantificazione delle perdite durevoli di valore.
Come noto la dottrina individua tre famiglie di metodi per la valutazione del valore economico delle attività immateriali. In particolare, si possono distinguere quelle basate sul costo, per cui il valore di un’attività immateriale può essere fatto pari al suo costo, al costo rivalutato o a quello di sostituzione o di riproduzione.
I metodi economico-reddituali sono invece riferibili a quelli che stimano il valore economico delle attività materiali attraverso l’attualizzazione dei flussi reddituali riferibili all’attività.
Infine, ulteriori approcci utilizzabili per l’individuazione del valore economico delle attività immateriali sono rinvenibili nel metodo Interbrand per la valutazione dei marchi e nel metodo delle royalties. Appare quindi utile riferire che tali metodologie risultano necessarie nell’ambito di una valutazione di perdita durevole di valore per quelle attività immateriali che non hanno un valore di mercato o per le quali non è possibile rinvenire l’esistenza di un mercato attivo.
In pratica le disposizioni dell’OIC 9 sembrano giungere alla conclusione per cui il valore contabile non deve essere superiore al valore recuperabile dall’uso dello specifico asset o del suo valore recuperabile dopo la vendita.
In particolare sembra necessario segnalare, sin da subito, la diversa interpretazione rispetto al precetto di svalutazione durevole e la sua declinazione nell’ambito delle posizioni della dottrina economico-aziendale italiana.
Occorre richiamare brevemente alcune posizioni tradizionali per cui non sembra possibile esprimere un valore dell’attivo superiore al valore recuperabile, corollario diretto del principio di prudenza che sul piano quantitativo tende ad assicurare che la valutazione del capitale di funzionamento non sia superiore al valore del Capitale Economico.
Nell’ambito di tale posizione sembra quindi opportuno procedere alla determinazione del valore del capitale di funzionamento e del reddito d’esercizio sulla base delle posizioni accettate dalla prassi e dalla dottrina nazionale sul tema del finalismo di bilancio.
Occorre quindi segnalare che la declinazione di una rappresentazione del valore del capitale di funzionamento secondo una finalità tendenzialmente di tipo “α” sottende necessariamente l’adeguamento dei valori contabili e quelle che sono le capacità di generare ritorni in termini economico- reddituali e di cash flow che sottendono una valutazione prospettica delle condizioni di economicità prospettiche proprie della finalità di tipo “β”.
La valutazione sul piano prospettico inoltre è stata elaborata in modo complessivo tenendo conto della stima della capacità di ammortamento teorico. Tale grandezza è fatta pari al valore del reddito atteso meno la congrua remunerazione del capitale come indicatore di tipo teorico.
Tale formulazione, nella dottrina economico-aziendale italiana, trova fondamento nella concettualizzazione di capitale e reddito come due grandezze tra loro intimamente connesse.
Sul piano concettuale l’introduzione dell’OIC 9 e delle modalità di determinazione delle perdite durevoli di valore sembrano reintrodurre anche per le società non quotate i dibattiti a cui si è già assistito in sede di introduzione e prima applicazione degli IAS/IFRS, per cui l’impairment test
si sarebbe dovuto compiere su grandezze finanziarie direttamente riferibili all’utilizzo del bene o del complesso di beni funzionalmente aggregato di più piccola individuazione.
Tale previsione, naturalmente, oltre a complicare l’applicazione di queste prassi operative per le aziende che non sono dotate di un sistema informativo contabile adeguato, non sembra consentire, se non per l’applicazione semplificata, la valutazione complessiva dei flussi utilizzando peraltro quelli economico-reddituali.
Sul tema si è inoltre espressa - già da qualche anno - una certa letteratura internazionale che ha evidenziato le difficoltà insite nell’applicazione dello IAS 36, soprattutto con riferimento al fatto che, dei tre metodi previsti nell’appendice allo standard, soltanto il costo ponderato del capitale trova fondamento nella teoria finanziaria, conducendo invece gli altri a sistematici errori di misurazione.
L’insieme delle suesposte premesse suscita negli scriventi la necessità di aprire una riflessione sul tema della concettualizzazione delle perdite durevoli di valore.
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