SEZIONE III. IL RISARCIMENTO DEL DANNO
3.1 La natura del risarcimento del danno da abuso di dipendenza
economico
Per quanto attiene all’azione di risarcimento prevista dall’art. 9, appare opportuno ribadire, fin da subito, che essa rappresenta l’unico rimedio disponibile nei casi di interruzione arbitraria delle relazioni commerciali e di rifiuto di vendere o acquistare, nei limiti in cui non si ritenga, come pure parte della dottrina ha fatto, che il divieto di abuso
Rileva, peraltro, A. MAZZIOTTI DI CELSO, op. cit., pag. 257: “Il problema
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relativo alla legittimazione appare risolvibile anche senza far ricorso alla teoria della nullità relativa, tutt’altro che pacifica in dottrina e giurisprudenza. Sembra infatti da escludere che il contraente forte possa mai avere (anche solo in astratto) un interesse alla cancellazione della clausola precedentemente imposta all’altra parte per realizzare l’abuso, come richiede l’art. 1421 c.c.”.
di dipendenza economica non fondi un vero e proprio obbligo a contrarre eseguibile coattivamente.
Laddove, invece, si verta nell’ipotesi di imposizione di condizioni contrattuali eccessivamente gravose o discriminatorie, l’impresa in posizione di dipendenza economica, invocando la nullità delle stesse, potrà ottenere il risarcimento dei danni subiti in conseguenza dell’applicazione della clausole stesse fino alla declaratoria di nullità174.
La ricostruzione della fattispecie risarcitoria si appalesa notevolmente complessa, in quanto seppure pacificamente ammessa in dottrina anche prima della novella del 2001, non v’è concordia in merito alla natura di tale responsabilità.
Secondo una prima impostazione la natura della responsabilità che deriverebbe dall’abuso di dipendenza economica sarebbe ibrida in quanto normalmente contrattuale, come gemmazione specifica del principio generale di buona fede, ma necessariamente extracontrattuale
Così A. MAZZIOTTI DI CELSO, op. cit., pag. 259. In senso concorde M.
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TRECCANI, Subfornitura e abuso di dipendenza economica: presupposti e rimedi, in Riv. dir. civ., 2005, pag. 719: “Quanto al risarcimento del danno è senz’altro lecito affermare che esso sia destinato a trovare applicazione in qualsiasi ipotesi di abuso e, pertanto, sia nel caso di danni eventualmente conseguenti all’abuso di autonomia contrattuale all’interno del contratto, già sanzionato mediante la nullità delle relative clausole, sia nel caso di danni derivanti dalla condotte esterne al rapporto contrattuale, quali il rifiuto di contrattare e l’arbitraria interruzione di relazioni commerciali”. Rilevano, peraltro, A. PALMIERI – R. PARDOLESI, Intesa illecita e risarcimento a favore di una parte: “chi è causa del suol mal...si lagni e chieda i danni”, in Foro It., 2002, IV, c. 83-84, segnalano le difficoltà di far conciliare azione di nullità e azione risarcimento danni: “Il punto critico si raggiunge, invero, là dove il fatto illecito dovrebbe coabitare con il contratto e, se mai, per il suo tramite alimentare il pregiudizio in capo ad uno dei contraenti (id est, quello che subisce la ‘vessazione’). Ci si può chiedere, allora, se non convenga ribaltare la prospettiva e apprezzare l’abuso di dipendenza economica in primis quale fattispecie costitutiva di un tort, con la capacità di innescare all’occorrenza, tra i meccanismi secondari di difesa, la sanzione dell’invalidità”.
laddove, come nel caso di rifiuto abusivo di contrarre, non vi sia tra le parti alcuna relazione contrattuale175.
A tale ricostruzione è stato correttamente obiettato che, laddove si agisca per il risarcimento dei danni dipendenti da una clausola nulla, far riferimento ad una responsabilità di natura contrattuale non ha alcun senso in quanto l’azione viene proposta non a fronte di un inadempimento ma a fronte di un comportamento qualificato abusivo ai sensi dell’art. 9 e che ha condotto all’inserimento nel contratto di un patto nullo.
Secondo parte della dottrina, poi, non solo sarebbe di natura contrattuale l’azione di responsabilità esercitata a fronte di abusi concretatisi nell’imposizione di condizioni contrattuali eccessivamente gravose o discriminatorie, ma anche l’azione esercitabile a fronte dell’interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto e del rifiuto di vendere o comprare. Tale opinione si fonda sulla premessa che l’art. 9 non si limiterebbe a porre un divieto, ma, al contrario,
In tal senso R. CASO – R. PARDOLESI, La nuova disciplina del contratto di
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subfornitura industriale: scampolo di fine millennio o prodromo di tempi migliori?, in Riv. dir. priv., 1998, pag. 734 e s.: “si può, però, ragionevolmente sostenere che chi agisce in giudizio per far dichiarare la nullità del patto sia anche legittimato a chiedere i danni derivanti dall’abuso di dipendenza economica. La natura della responsabilità è ibrida (normalmente contrattuale, come gemmazione specifica del principio generale di buona fede; ma necessariamente extracontrattuale laddove – come nel rifiuto abusivo di contrarre – di relazione patrizia non possa comunque parlarsi), ma la sua configurabilità non pare possa essere messa in dubbio”.
farebbe sorgere dei veri e propri obblighi a contrarre, eseguibili come tali ex art. 2932 c.c., in capo all’impresa relativamente dominante176.
Tale ricostruzione non è, tuttavia, corretta. Prescindendo dalla responsabilità in caso di patti nulli, per quanto attiene alle altre figure tipiche di abuso di dipendenza economica, non si può fare a meno di ricordare che inferire dall’esistenza di un divieto un correlativo obbligo di comportamento attivo eseguibile in forma specifica sembra un passaggio logico quantomeno eccessivo. Allo stato attuale dell’ordinamento, infatti, non può dirsi esistente un obbligo a contrarre in capo all’impresa relativamente dominante, e, pertanto, non è possibile sostenere fondatamente la natura contrattuale dell’azione risarcitoria ex art. 9.
Una diversa opinione, partendo dalla considerazione che, anche quando si tratti di rifiuto abusivo di contrarre, in virtù della situazione di supremazia economica dell’impresa dominante, sussisterebbe in capo a quest’ultima un obbligo di conservazione dell’altrui libertà di negoziare, ritiene che esista un vincolo personale tra impresa dominante ed impresa dipendente a prescindere da qualsiasi precedente vincolo obbligatorio, grazie al quale ricorrerebbero specifici obblighi di comportamento la cui violazione integrerebbe un vero e proprio inadempimento. Tale vicenda sarebbe, in tale ottica, collocabile
Secondo F. PROSPERI, op. cit., pag. 294 si potrebbe ritenere che: “...in assenza di
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valide alternative di mercato, l’impresa in posizione di dipendenza economica abbia il diritto di divenire partner dell’impresa che esercita il dominio relativo, diritto cui corrisponde l’obbligo dell’impresa dominante di concludere il contratto di cui l’impresa dipendente necessita per lo svolgimento della propria attività”. Rileva, peraltro, M. LIBERTINI, Ancora sui rimedi civili conseguenti ad illeciti antitrust (II), in Danno e resp., 2005, pag. 243: “Certo sembra oggi molto forte la tendenza a vedere responsabilità contrattuale anche in situazioni in cui il danneggiato non è titolare di una pretesa titolata (cioè del diritto a pretendere una prestazione predeterminata o determinabile in base ad un titolo, giuridicamente qualificato), bensì di un interesse pretensivo a protezione modale, legato all’esistenza di doveri di comportamento imposti dalla legge. La scelta è spesso motivata da ragioni di equità e di opportunità, soprattutto legate al riparto dell’onere probatorio”.
nell’alveo della responsabilità precontrattuale, concepita, tuttavia, non come illecito aquiliano, ma quale violazione di un rapporto obbligatorio177. Secondo tale prospettiva l’art. 1337 c.c. non andrebbe ricondotto alla responsabilità extracontrattuale, ma fisserebbe uno specifico vincolo obbligatorio soggetto alle regole della responsabilità contrattuale la cui fonte sarebbe rinvenibile nella violazione del principio di buona fede178.
Da una tale impostazione, pertanto, anche alla luce della giurisprudenza e della dottrina pressoché costante, il danno risarcibile sarebbe, dunque, riconducibile all’alveo dell’interesse negativo, da intendersi come il pregiudizio che il danneggiato subisce per aver confidato inutilmente nella conclusione del contratto, da risarcire nella duplice componente del danno emergente e del lucro cessante, quest’ultimo inteso come il danno determinato dalla mancata conclusione di altre trattative dalle quali il danneggiato è stato distolto (cosiddetto danno conseguente all’infruttuosa contrattazione).
Consapevole del limite costituito dal risarcimento del solo interesse negativo, altra dottrina, propone, poi, adottando una lettura congiunta dell’art. 9 e dell’art. 1337 c.c., una soluzione result-oriented
Rileva E. SCODITTI, Danno da intesa anticoncorrenziale per una delle parti
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dell’accordo: il punto di vista del giudice italiano, in Foro it., 2002, IV, c. 87: “L’«inferiorità grave» è il presupposto di un complesso di obblighi di comportamento i quali sorgono prima e indipendentemente dal contratto, per il solo «contatto sociale» che si stabilisce fra i due soggetti, l’uno economicamente dipendente dall’altro, al momento di intraprendere le trattative per la conclusione di un affare. La supremazia economica impone l’osservanza dell’obbligo di conservazione dell’altrui libertà di negoziare. Si tratta di un rapporto obbligatorio che non deriva da alcun contratto (anzi, lo precede), e che resta estraneo anche alla categoria del torto”. Si veda in senso concorde D. MAFFEIS, op. cit., pag. 81.
Secondo E. SCODITTI, op. cit., c. 88: “il diritto al risarcimento del danno - per la
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parte debole di un’intesa restrittiva della concorrenza - non deriva dal contratto, asseritamente nullo, o da un torto di cui lo stesso danneggiato sarebbe artefice in concorso con il danneggiante, ma dalla violazione dell’obbligo, precedente la stipulazione dell’intesa, di protezione dell’altrui sfera giuridica all’interno di una relazione di dipendenza economica”.
che tenga conto, nel calcolo del danno, degli investimenti specifici effettuati dalla parte dipendente, così da poter considerare la responsabilità discendente dalla violazione del divieto di abuso di dipendenza economica come culpa in contrahendo di natura contrattuale, ovvero come un tertium genus di responsabilità.
Le suddette impostazioni, tuttavia, non convincono, in quanto si ritiene che tra la responsabilità di cui all’art. 9 e quella prevista dall’art. 1337 c.c. sussistano notevoli differenze di ordine concettuale.
È stato correttamente rilevato, infatti, che entrambe le norme sono dirette a tutelare, quantomeno indirettamente per quanto attiene all’art. 9, l’affidamento di un soggetto alla conclusione di un contratto: ciò che è diverso nelle due ipotesi è la fonte di tale affidamento179. Mentre nei casi di responsabilità precontrattuale l’affidamento alla conclusione del contratto si fonda sull’esistenza di trattative ad uno stadio avanzato, nell’art. 9, tuttavia, si prescinde dallo stato di avanzamento delle trattative e la responsabilità trae origine da un’obiettiva situazione di mercato riguardante i rapporti tra impresa dominante e dipendente. L’assenza di alternative concretamente praticabili che caratterizza la dipendenza economica, infatti, fa sì che l’impresa in posizione di forza diventi il partner obbligato dell’impresa dipendente.
In tale ottica, si può affermare che tra le due imprese si viene a creare un “contatto speciale”, il rapporto di dipendenza appunto, di natura non contrattuale ma economica, tale da generare nell’impresa dipendente un affidamento alla conclusione del contratto di cui necessita per proseguire la propria attività; e ciò, a differenza dell’art. 1337 c.c., indipendentemente da ogni relazione prenegoziale180.
Così V. PINTO, op. cit., pag. 415.
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Così V. PINTO, op. cit., pag. 415
Seguendo tale argomentazione ci sembra di poter affermare che la responsabilità da abuso di dipendenza economica possa, dunque, sia per quanto attiene agli abusi “contrattuali”181 sia per quanto attiene agli abusi “extracontrattuali”, essere inquadrata nella clausola generale di cui all’art. 2043 c.c., di cui rappresenta un’applicazione specifica, e alla stregua della quale occorrerà valutare la condotta, l’ingiustizia del danno e l’elemento soggettivo.
Riteniamo che la ricostruzione dell’abuso di dipendenza economica quale
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fattispecie antitrust e non come mera disciplina di tutela del concorrente debole si appalesi in tutta la sua importanza proprio in relazione al profilo del risarcimento del danno in caso di “abuso” contrattuale. In assenza di una corretta comprensione ed applicazione del concetto di abuso di dipendenza economica, si rischia, di fatto, di lasciare senza tutela situazioni che a tale fenomeno devono essere ascritte. Emblematico, in tale ottica, appare il caso giurisprudenziale Juventus/Indaba (Corte di Appello di Torino, 6 luglio 2000, n. 1061, in Danno e resp., 2001, pag. 46 con nota di S. BASTIANON, Antitrust e risarcimento del danno tra Cassazione e
giurisprudenza di merito). Oggetto del giudizio era un contratto stipulato fra la
Juventus F.C. e la società di viaggi Indaba Incentive Company, il quale prevedeva, tra le altre clausole, la fissazione di un prezzo minimo di rivendita dei biglietti per la final di Champion’s League giocata a Monaco il 26 maggio 1997 e la subordinazione dell’acquisto dei biglietti all’acquisto di un pacchetto turistico, comprendente un soggiorno a Monaco, privo di collegamento con il prodotto primario, secondo una tipica operazione di tying. La Corte, in tale fattispecie, ritenne che tale contratto costituisse un’intesa illecita ai sensi dell’art. 2 l. antitrust, nonché un abuso di posizione dominante posto in essere dalla Juventus tramite l’imposizione di dette clausole, in violazione di quanto disposto dall’art. 3 l. antitrust. Il giudice riconosce la possibilità di concedere il risarcimento, oltre che a terzi, anche ad una parte dell’intesa, se ha subito un danno e non lo ha traslato ai terzi. Nella fattispecie concreta tuttavia la Corte di Appello rilevava la colpevolezza della parte che chiedeva il risarcimento, la quale era consapevole di partecipare ad un’intesa illecita. Essa, anzi, rilevava la Corte, l’aveva accettata in vista di un lucro futuro e di conseguenza doveva essere escluso il risarcimento del danno. Tale conclusione, tuttavia, è viziata dall’assunto, non dimostrato, secondo il quale la controparte partecipa alla concertazione anche quando, di fatto, in considerazione della propria situazione di dipendenza, si trova costretta ad accettare l’accordo “proposto” dal soggetto dominante sotto la minaccia del mancato rinnovo dei rapporti commerciali in corso e senza, peraltro, trarne vantaggio se non quello di evitare il tracollo finanziario. Ove, infatti, non si parta dall’aprioristica posizione secondo la quale, al di fuori di ipotesi di vizi della volontà, qualunque soggetto che partecipi ad un accordo lo faccia liberamente, cosa, viceversa da escludere in caso di abuso di dipendenza economica, emerge con chiarezza il diritto di tale soggetto ad essere risarcito dei danni dallo stesso eventualmente subiti.
In particolare essa va a collocarsi in un settore di illeciti in cui l’attività lesiva dell’agente è riconducibile o alla preesistenza di “contatti giuridici speciali” tra soggetto attivo e passivo della condotta lesiva nelle ipotesi di interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto o di rifiuto di vendere o acquistare tra soggetti tra cui preesista un rapporto, ovvero alla posizione di potere spettante all’impresa relativamente dominante per la propria posizione sul mercato o per le caratteristiche particolari del prodotto o del servizio che lo stesso offre.