CAPITOLO SECONDO
IL DIRITTO DELLA CONCORRENZA NEL SISTEMA EUROPEO
2. La normativa italiana antitrust ed il rapporto con la normativa europea
2. La normativa italiana antitrust ed il rapporto con la normativa europea.
La normativa italiana antitrust risale ad un’epoca recente, precisamente all’emanazione della legge n. 287/1990101
, ed è il frutto di un lungo iter parlamentare i cui inizi possono farsi risalire agli anni Cinquanta. La prima proposta di legge in subiecta materia, che prevedeva un sistema di controllo dei consorzi di imprese, fu presentata nel 1950 dall’allora Ministro dell’Industria, Togni. A tale progetto seguirono, negli anni Cinquanta e Sessanta, numerose iniziative che, tuttavia, non raggiunsero l’approvazione parlamentare102. Si deve all’uopo rammentare che, in questa epoca storica, era ancora relativamente diffusa l’opinione secondo cui le imprese a partecipazione statale potevano costituire uno strumento sostitutivo di una disciplina della concorrenza, sufficiente ad eliminare il rischio di monopoli privati. Ai principi concorrenziali e della libertà di mercato si contrapponevano, invero, da un lato, l’esigenza di un rafforzamento della struttura industriale del Paese e, dall’altro, la funzione dell’intervento pubblico in economia come strumento di politica economica necessario a garantire una situazione di equilibrio sociale.
Dopo un lungo periodo di assenza di proposte legislative, una rinnovata attenzione al diritto antitrust si è manifestata nel corso degli anni Ottanta, con l’acuirsi dell’esigenza di un adeguamento delle istituzioni economiche e politiche alla
101 Legge 10 ottobre 1990, n. 287, recante Norme per la tutela della concorrenza e del mercato, in GU del 13 ottobre 1990, n. 240.
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Si ricordi: la proposta “Norme per la tutela della libertà di concorrenza e di mercato” di Malagodi e Bozzi, presentata alla Camera nel 1955 e poi riproposta, in una nuova versione, nel 1959; un progetto di disciplina della concorrenza elaborato da Tullio Ascarelli e portato alla discussione dal deputato Villabruna; un disegno di legge sulle intese industriali e commerciali presentato dai deputati Lombardi e La Malfa nel 1958; una proposta di legge per la tutela della libertà di iniziativa economica presentata dai deputati Carcaterra e Foschini nel 1959; la proposta di legge sul “Controllo dei monopoli” avanzata nel 1960 da Giorgio Amendola; il disegno di iniziativa governativa sulla “Tutela della libertà di concorrenza” proposto nello stesso anno dall’allora Ministro dell’Industria Colombo, successivamente modificato e ripresentato in Parlamento dal Ministro Medici nel 1964.
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crescente integrazione internazionale. In particolare, l’accelerazione del processo di integrazione europea (a seguito della presentazione del Libro Bianco sul completamento del mercato interno da parte della Commissione in occasione del Consiglio europeo di Milano del giugno 1985 e dell’entrata in vigore dell’Atto Unico Europeo il 1° luglio 1987) e gli intensi processi di ristrutturazione dell’apparato produttivo nazionale hanno determinato un maggiore interesse per le forze della concorrenza e, conseguentemente, verso iniziative legislative tese a favorire il funzionamento del mercato.
Tale fenomeno ha interessato anche gli altri Paesi industrializzati103, per effetto di una diffusa crisi delle politiche industriali interventiste che, limitando la flessibilità dei mercati, avevano palesato la loro inadeguatezza a fronteggiare i radicali cambiamenti economici del decennio precedente.
Nel 1983, una Commissione nominata dal Ministro di Grazia e Giustizia Morlino e presieduta da Giuseppe Ferri ha proposto l’introduzione di una legge sullo “Statuto dell’impresa”, contenente anche norme per la tutela della concorrenza improntate alla disciplina comunitaria. Sebbene tale iniziativa non abbia avuto un seguito immediato, l’acquisita consapevolezza delle lacune istituzionali dell’Italia in materia di tutela della concorrenza ha portato l’allora Ministro dell’Industria Valerio Zanone a nominare, nel novembre 1986, una Commissione di studio sulla concorrenza presieduta da Franco Romani.
A tale intervento governativo ha fatto seguito la rinascita di un interesse per la materia anche in ambito parlamentare. Nel settembre 1987, infatti, la X Commissione Permanente del Senato, presieduta dal Senatore Roberto Cassola, ha avviato un’“Indagine conoscitiva sulla internazionalizzazione delle imprese e le concentrazioni industriali”, conclusasi con una Relazione, ai sensi dell’art. 50 del Regolamento del Senato, da cui emergeva una posizione nettamente favorevole all’adozione di una normativa antitrust.
103 In particolare Stati Uniti, Francia e Regno Unito, che hanno adottato diffuse politiche di deregolamentazione nella convinzione che le dinamiche della concorrenza potessero favorire l’efficienza anche in alcuni casi di monopolio naturale. Negli stessi Paesi, inoltre, sono state effettuate ampie revisioni delle tradizionali politiche della concorrenza al fine di renderle strumenti più efficaci di una strategia di liberalizzazione dei mercati: in tal senso, ad esempio, in Francia è stata adottata la nuova legge sulla concorrenza nel 1986, mentre negli Stati Uniti le Merger Guidelines del 1982 e le successive revisioni del 1984 hanno introdotto nuovi criteri di valutazione delle operazioni di concentrazione tra imprese al fine di penalizzare solo gli effettivi comportamenti anticoncorrenziali.
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Successivamente alla presentazione, il 05 agosto 1987, del disegno di legge recante “Normativa antimonopolio ed a tutela della libera concorrenza” da parte del deputato Amato, nella primavera-estate del 1988 sono stati portati alla discussione in Senato due ulteriori disegni di legge: il primo, intitolato “Norme per la tutela del mercato, è stato presentato dal senatore Guido Rossi; il secondo, concernente “Norme per la tutela della concorrenza e del mercato”, è stato proposto dall’allora Ministro dell’Industria Adolfo Battaglia.
Il testo di legge definitivo, recante “Norme per la tutela della concorrenza e del mercato”, ricalcava essenzialmente le disposizioni di cui al disegno di legge Battaglia, a sua volta sostanzialmente ispirato al Rapporto conclusivo della Commissione Romani. A seguito di un’ampia discussione parlamentare, la legge n. 287 veniva approvata dalla Camera nel luglio del 1989 e varata dal Senato il 27 settembre 1990. La normativa, secondo quanto previsto dall’articolo 1, è stata emanata in attuazione dell’articolo 41 della Costituzione104
, a tutela e garanzia del diritto di iniziativa economica, con la precisazione che esso non può essere esercitato “in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”105.
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Con l’approvazione dell’art. 41 anche la Costituzione repubblicana, nel 1947, ha esplicitamente riconosciuto la libertà di iniziativa economica dei privati. Massimo Severo Giannini scrisse che questo articolo della Costituzione “non è tra i più perspicui” (in questi termini, in Diritto pubblico
dell’economia, Bologna, Il Mulino, 1992, p. 175), ma ne elaborò una convincente e tuttora insuperata
sintesi, distinguendo la previsione del I comma, quale garanzia costituzionale del diritto d’impresa come diritto del privato, e le previsioni dei commi II e III, quali garanzie costituzionali del pubblico potere di sottoporre il diritto d’impresa e/o l’esercizio di questa a potestà pubblicistiche, nel caso in cui vi sia inerenza di interessi pubblici (in questi termini, in op. cit., p. 176-177, in cui alle nozioni di “utilità sociale” e di “fine sociale” – presenti nel testo dell’art. 41 – viene attribuita la capacità di comprendere ogni di interesse pubblico). Tale ricostruzione riconobbe nel contenuto dell’art. 41 della Costituzione la pari dignità della iniziativa economica privata e della vigilanza pubblica sulle attività economiche. Nel dibattito in sede di costituente, il testo dell’art. 41 era emerso come una soluzione compromissoria, connotata di “larvato dirigismo” (in questi termini, G. AMATO, Il mercato nella
Costituzione, in Quaderni costituzionali, 1992, p. 12). In III sottocommissione si era, infatti, potuto
registrare un conflitto fortemente ideologizzato tra diverse visioni del rapporto tra Stato (pubblici poteri) ed economia, che aveva visto svilupparsi un confronto serrato tra le aree culturali social-comunista, liberale e cattolica. In altri termini, nella fase genetica dell’art. 41 della Costituzione non si rinviene una cultura del mercato ma l’esigenza di difenderlo dalla potenziale affermazione di concezioni politiche ispirate al collettivismo e, quindi, negatrici del mercato. Questa visione compromissoria ha portato all’affermazione di un modello di “economia mista”, considerato espressivo del “modello economico della democrazia sociale” (cfr. G. BOGNETTI, Il modello economico della
democrazia sociale e la Costituzione della Repubblica, in Verso una nuova Costituzione (a cura del
gruppo di Milano), Milano, 1983, I, p. 162 ss.). Sui lavori dell’assemblea costituente relativi all’art. 41 v. anche R. NIRO, Profili costituzionali della disciplina antitrust, Padova, Cedam, 1994, p. 97 ss.
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Il ritardo nell’adozione della legge italiana antitrust ha consentito di accogliere – sul piano sostanziale e procedimentale – il portato dell’esperienza comunitaria. La legge n. 287/1990 contempla, invero: 1) il divieto di intese che abbiano per oggetto o per effetto di impedire o falsare il gioco della concorrenza in maniera sensibile all’interno del mercato nazionale, o in una sua parte rilevante (con possibilità di esenzione); 2) il divieto dello sfruttamento abusivo di una posizione dominante sul mercato nazionale, o in una sua parte rilevante; e 3) il controllo preventivo sulle operazioni di concentrazione, prive di dimensione europea, che interessino imprese i cui fatturati superino determinate soglie.
Le norme nazionali sono sostanzialmente conformi a quelle europee, salvo talune differenze minori.
Per quanto attiene al divieto di intese restrittive, in particolare, il legislatore nazionale vieta soltanto le intese idonee a restringere la concorrenza “in maniera consistente”, recependo in tal modo l’interpretazione giurisprudenziale a livello europeo106
.
Riguardo alle condizioni per l’ottenimento di una deroga, la normativa italiana impone all’Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM) di considerare anche la “necessità di assicurare alle imprese la necessaria concorrenzialità sul piano internazionale”, criterio che ad oggi, in realtà, non risulta essere mai stato preso in considerazione. Non consta, peraltro, che l’AGCM abbia mai adottato provvedimenti di esenzione a intere categorie di intese, pur avendone il potere, in questo differenziandosi dall’azione della Commissione europea.
Il potere di esenzione individuale continua a costituire monopolio dell’AGCM, mediante un sistema di notificazione preventiva da parte delle imprese partecipanti all’intesa. Ciò si spiega in considerazione dell’assetto esistente al momento dell’adozione della legge, ad oggi non ancora modificata per riflettere i cambiamenti introdotti a livello europeo a partire dal 2004.
Da ultimo, si deve considerare il fatto che – diversamente dalla normativa europea, il cui obiettivo risiede nella tutela della concorrenza nel mercato comune e del commercio intra-comunitario – la legislazione italiana antitrust ha ad oggetto la protezione del mercato nazionale.
106 La giurisprudenza europea ha delimitato il campo di applicazione dell’art. 101 TFUE alle sole intese in grado di restringere la concorrenza in maniera “significativa”.
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Tuttavia, la legge n. 287/1990 precisa che l’interpretazione delle norme sostanziali nazionali deve essere “effettuata in base ai principi dell’ordinamento delle comunità europee in materia di disciplina della concorrenza”.
Sul piano del rapporto tra normativa nazionale e normativa europea, il legislatore italiano restringe il campo di applicazione della normativa italiana antitrust alle sole fattispecie che non ricadono direttamente nella disciplina europea della concorrenza. Il diritto nazionale, pertanto, si applica in via complementare e residuale alle fattispecie che non assumono rilevanza europea e i cui effetti ricadono nel territorio nazionale. Qualora l’AGCM ritenga di intervenire nei confronti di una infrazione e rilevi un pregiudizio al commercio tra Stati membri, essa è tenuta ad agire esclusivamente sulla base del diritto europeo107.
In materia di intese e di abusi, il diritto europeo della concorrenza si applica a tutte le fattispecie che possono procurare pregiudizio – anche solo “potenziale”, purché “sensibile” – al commercio intra-comunitario.
Per le concentrazioni, invece, il campo di applicazione è definito da soglie minime di fatturato, che individuano le concentrazioni di dimensione comunitaria rispetto alle quali sussiste un obbligo di notifica esclusivamente alla Commissione europea. Le autorità nazionali della concorrenza non sono, in tal caso, competenti a valutarla neanche alla stregua dei propri sistemi nazionali di controllo108.
Gli stessi criteri del pregiudizio al commercio intra-comunitario e della dimensione comunitaria sottendono all’applicazione della normativa europea di concorrenza a comportamenti realizzati al di fuori dell’Unione europea e/o da imprese situate in Stati terzi.
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Secondo il Regolamento (CE) n. 1/2003, se decidono di intervenire sulla base del diritto nazionale della concorrenza e la fattispecie può arrecare pregiudizio al commercio intra-comunitario, le autorità nazionali della concorrenza sono tenute ad applicare anche il diritto europeo. Qualora gli effetti dell’intesa/abuso si producano in vari Stati membri, potrebbe configurarsi l’intervento di una pluralità di autorità nazionali di concorrenza: v., sul tema, Comunicazione della Commissione sulla
cooperazione nell’ambito della rete delle autorità garanti della concorrenza, in GUCE (2004), C
101/3, secondo la quale l’autorità competente a trattare la fattispecie è – in applicazione del criterio del “centro di gravità” – quella nel cui territorio viene attuata o ha origine l’infrazione, con effetti sensibili sulla concorrenza, sempre che l’autorità abbia sufficienti poteri investigativi e sanzionatori.
108 Trattasi del c.d. principio dello “sportello unico” o “one-stop shop”, che consente di evitare alle imprese coinvolte in concentrazioni transfrontaliere l’onere di dover richiedere l’autorizzazione ad autorità diverse ed in base a regolamentazioni nazionali differenti, garantendo inoltre il medesimo trattamento a tutte le concentrazioni.
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