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CAPITOLO I L’economia della conoscenza

1.3 La Knwoledge Based Economy

1.3.1 Una nuova concezione del sapere

Oggi, sta progressivamente prendendo forma quella che viene definita

«l’economia della conoscenza», cioè una moderna economia basata sulla crescente specializzazione, sull’apprendimento, sull’innovazione e caratterizzata da veloci cambiamenti nelle conoscenze tecnologiche, dove alcuni settori produttivi mostrano dinamiche più accentuate rispetto ad altri.

In realtà, tale fenomeno, come afferma Rullani (2004)25, non rappresenta una scoperta recente ma trova le sue origini nella ormai lontana rivoluzione industriale, laddove la conoscenza si manifestava nella produzione di valore ottenuta attraverso la propagazione degli usi disponibili, e dal successivo re-investimento dei profitti cosi conseguiti, nella produzione di ulteriore nuova conoscenza. La novità introdotta dalla modernità consiste «nel fatto che diventa conveniente – grazie alla natura riproducibile della conoscenza – investire in processi di apprendimento»26. Questa nuova concezione del sapere quale risorsa indipendente e soprattutto riproducibile, cambia radicalmente la logica della produzione dando vita ad una serie di cambiamenti strutturali dell’economia. La meccanicizzazione dei processi lascia il passo al fordismo, all’interno del quale, la conoscenza si concretizza nell’organizzazione scientifica, per poi svilupparsi nell’economia dei distretti generando la propagazione territoriale della stessa ed infine nella c.d. New Economy dove la divulgazione delle informazioni assume un carattere dominante.

Il primo a parlare di Knowledge economy (o economia della conoscenza) fu Peter Drucker nel 199327 annunciando l’ingresso nella nuova società della conoscenza, nella quale la risorsa economica fondamentale non è più rappresentata dal capitale, né dalle risorse naturali o dal lavoro, ma dalla conoscenza e dai soggetti che la generano. Secondo Drucker, una delle più importanti sfide che ogni organizzazione deve affrontare è la capacità di costruzione di procedure sistematiche per gestire i propri processi di

25 Rullani E. (2004), Economia della conoscenza. Creatività e valore nel capitalismo delle reti, Carocci, Milani.

26 Rullani E. (2004), Intervista, L’economia della conoscenza, Universita Ca’ Foscari, Venezia 27 Drucker P. (1993), Post capitalist society, HarperCollins, New York

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trasformazione. Pertanto, l’impresa deve essere in grado di abbandonare la conoscenza divenuta obsoleta ed apprendere come crearne nuova attraverso:

➢ Il miglioramento continuo di ogni attività;

➢ Lo sviluppo di nuove applicazioni a partire dai propri successi; ➢ Un processo organizzativo di innovazione continua.

I caratteri distintivi rinvenibili in questo cambiamento che coinvolge l’intero sistema economico, possono essere riassunti come segue:

➢ Un aumento dello stock di capitale intangibile nello stock di capitale reale; ➢ L’espansione delle industrie ad alta intensità di conoscenza;

➢ Una crescente importanza dell’occupazione qualificata.

Per secoli il progresso tecnologico è sempre stato neutrale rispetto ai fattori produttivi ma come ci fanno notare Abramowitz e David (1996)28 con il passare del tempo, si registra un cambiamento in questa neutralità, sintomo del crescente ruolo assunto dalla conoscenza. Infatti, nel diciannovesimo secolo, l’innovazione ha generato una distorsione a favore del capitale tangibile, traducendosi nel minore ricorso al fattore lavoro nel processo produttivo. A partire dagli anni 20 del secolo scorso, invece, il progresso ha determinato un’inversione di tendenza tradottosi con l’aumento del ricorso al capitale intangibile. Pertanto, il contributo apportato dal capitale fisico all’aumento della produttività diminuisce notevolmente. In particolare, nel 1973 lo stock di capitale intangibile diviene equivalente allo stock di capitale fisico e tale rapporto raddoppia tra il 1929 e il 199029.

Tali tendenze vengono confermate e incoraggiate anche in seguito all’espansione delle aziende ad alta intensità di conoscenza. Lo sviluppo di queste ultime, infatti, ha contribuito in misura via via maggiore all’incremento del prodotto interno lordo. Un segnale forte lo si registra nel 1980 negli Usa, dove il contributo apportato, passa dal 29% nel 1958 al 34% nel 198030. Sebbene vi sia una forte disparità in termini di investimento in R&S, istruzione pubblica e programmi informatici tra i vari Paesi OCSE, nel corso del tempo si è registrata una certa convergenza in termini di crescita annuale dei suddetti

28 Abramovitz M., David P.A. (1996) “Technological Change and the Rise of Intangible Investments: The US economy's growth-path in the twentieth century”, Industrial and Marketing, Vol. 41

29 Foray D. (2006), L’economia della conoscenza, Il Mulino, Bologna 30 Foray D. (2006), L’economia della conoscenza, Il Mulino, Bologna

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investimenti. In Italia la spesa in R&S è passata dal 2005 al 2015 da 1.74% a 2.03% del PIL31.

Quindi, ciò che distingue l’economia basata sulla conoscenza è la necessità di mantenersi al passo con il continuo e rapido cambiamento dovuto all’evoluzione spesso imprevista e imprevedibile della tecnologia e delle scoperte scientifiche che spinge tutti coloro che sono impegnati nelle varie occupazioni a sviluppare nuove capacità, abilità e profili professionali; tutto ciò va ben oltre il costante aggiornamento delle conoscenze tecniche poiché appartiene alla capacità di comprendere e addirittura anticipare il cambiamento stesso. Ciò che più conta, pertanto è l’intensità del ritmo con cui essa viene creata e la sua velocità di diffusione. Due sono le modalità principali con cui si crea innovazione e si vengono così a determinare delle “fratture” rispetto alla situazione precedente: attraverso un lavoro di ricerca e sviluppo istituzionalizzato off line, cioè non collegato ai regolari processi di produzione di beni e servizi; oppure l’apprendimento on line, dove gli individui apprendono sul lavoro e così perfezionano il modo di esercitare le loro attività di produzione.

L’economia basata sulla conoscenza è improntata a una crescente specializzazione e ciò comporta una notevole frammentazione della conoscenza. Di conseguenza vi è necessariamente un problema di coordinamento fra le varie attività altamente specializzate. David e Foray indicano come soluzione a tale questione, quella già trovata da Alfred Marshall, ovvero ridurre i costi di trasporto e favorire la concentrazione locale di attività virtuali, ossia di veri e propri «distretti della conoscenza». Ma le nuove tecnologie non risolvono automaticamente il nodo dell’integrazione della conoscenza, è necessario piuttosto stabilire e sviluppare comunità interdisciplinari composte da un insieme eterogeneo di soggetti.

Lo sviluppo tecnologico e la continua innovazione, danno vita a nuove forme di sapere che necessitano di essere continuamente aggiornate, contestualizzate e rielaborate affinché non deperiscano. Da tale necessità nasce l’esigenza di gestire e coordinare le forze e le relazioni con la collettività di appartenenza al fine di produrre conoscenza innovativa la cui valenza complessiva è maggiore rispetto ai risultati ottenuti dai singoli. Anche i tradizionali centri deputati alla ricerca, come le università, beneficiano della collaborazione con l’industria, non solo per alimentare il trasferimento di informazioni ma soprattutto per elaborare processi innovativi. In questo scenario in costante divenire è

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opportuno domandarsi se i consueti modelli organizzativi sono adeguati a sostenere lo sviluppo delle nuove dinamiche finalizzate alla creazione di valore e in caso contrario capire come adattarsi per beneficiare del cambiamento.