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Elemento di novità dei convegni fiorentini era stata la tutt’altro che trascurabile presenza femminile127. La “resistenza alla guerra” espressa sotto il profilo culturale attenuava il carattere maschile del rifiuto del servizio militare. Tra i compiti che l’associazione assunse figurava dunque la raccolta di nomi «anche di donne» che manifestassero un rifiuto a partecipare alla guerra e alla sua preparazione128. Pur se rimasti sulla carta per le tare organizzative, ad alcune donne erano stati dati incarichi e compiti di rilievo: Silvia Maiorca fu nominata membro dell’ufficio di collegamento,

122 Lettera ad Aldo Capitini, Torino, 4/12/1947in AS, FC, b.73. Nella lettera Sarti esprimeva l’intenzione di dare alla campagna per l’obiezione di coscienza un’azione più incisiva proponendosi di «scrivere al distretto rinunciando ai privilegi che godo come ex-partigiano e spiegandone i motivi».

123Lettera a Maria Remiddi Jesi, 7 Novembre 1947 in Acs, Archivio Remiddi (da ora AMR), b.19, fasc.136.

124Lettera a Maria Remiddi Jesi, 19 novembre 1947, Ivi. In questa seconda lettera ribadiva «come pacifista integrale (…) che la lotta più efficace contro la guerra è dire NO ad ogni forma preparatoria di essa» e chiedeva a Maria Remiddi che dalla relazione sul convegno inviata in precedenza per il bollettino dell’Aimu, fosse tagliato il parere espresso sull’obiezione di coscienza per non suscitare alcun motivo di dissidio con Capitini.

125Bozza di Deposizione per Pietro Pinna in FC, Scritti, b.150, fasc.248. 126

Oltre al caso ricordato della Società fondata da Moneta, si può rammentare il tentativo poco fortunato del pubblicitario Dino Villani di raccogliere scrittori ed artisti attorno ad un’associazione chiamata i Volontari della Pace, nella cui bozza statutaria figurava tra i compiti degli aderenti quello «di impegnare la propria parola d’onore, di non accettare di prendere le armi, di non rispondere alle chiamate per l’arruolamento in caso di guerra e di non lavorare per la guerra durante un eventuale conflitto, qualunque siano i motivi che ad esso possano portare, compreso quello di difesa» (Lettera di Dino Villani a Aldo Capitini, Milano, 25-12-1947 in FC, b. 73). Altra iniziativa priva di sviluppi fu quella del giornale «La Pace Internazionale» che nel 1946 aveva inoltrato all’Onu alcune proposte perché gli Stati prendessero «impegni internazionali di riconoscere che i cittadini sono permanentemente esonerati dal servizio militare» e perché «una sola organizzazione internazionale avesse facoltà di avere corpi armati» da arruolare sulla base del volontariato (O.M.Monopoli, Esonero permanente dal servizio militare per tutti i cittadini del mondo «La Pace Internazionale», 19 maggio 1948).

127 Cfr. l’inchiesta realizzata al termine del secondo congresso fiorentino da Vittorio Gorresio su «L’Europeo», dal titolo estremamente rappresentativo, Legheremo i figli per non mandarli alla guerra. Nella serie di interviste Vittorio Gorresio offriva ai lettori una panoramica significativa delle iniziative delle associazioni femminili per la pace, concentrandosi proprio sulla tensione materna che le animava («L’Europeo», 28 dicembre 1947 in A. Martellini, Fiori

nei cannoni, cit., p.77).

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all’Aimu venne dato l’incarico di somministrare ai parlamentari il questionario sull’odc, ad Eugenia Bersotti venne affidata la redazione dell'organo pacifista che avrebbe collegato gruppi e iniziative. L’approccio inclusivo era connesso con lo stile di lavoro di Capitini, orientato a coinvolgere le rappresentanti delle associazioni pacifiste femminili. Anche lo spiritualismo pacifista nonviolento risentiva del topos retorico instauratosi tra pace e figura femminile. Alle donne Capitini attribuiva un’opera «preziosa e decisiva» trovando «in una comunità aperta che non vuole violenza né verso Est né verso Ovest e che, piuttosto di versare il sangue degli altri, è disposta (…) a soffrire lei per il bene del mondo, per indicare una via fuori delle guerre» la prospettiva materna di «soffrire amorevolmente come madri» al posto di «prendere le armi contro popoli da sentire egualmente fratelli e figli»129.

Il binomio donna-pace instauratosi nel dopoguerra è stato largamente indagato dalla storiografia recente, sia come conseguenza dell'uscita dalla dimensione privata per una partecipazione alla vita pubblica130, sia nella costruzione di una rappresentazione che affidava alla donna un compito di custodia di fronte al bellicismo maschile appena sperimentato. Esso divenne funzionale alla contesa elettorale, entrando nell’animata campagna politica delle grandi associazioni femminili di massa come l’Unione Donne Italiana (Udi) e, in misura minore, il Centro Italiano Femminile131

.

Solo all’interno di un mondo pacifista indipendente, estraneo alle contingenti necessità dei partiti, tuttavia l’endiadi poteva svilupparsi in una forma originale, individuando un contributo peculiare che la donna poteva portare al rapporto tra l’uomo e la guerra, fino a promuovere un’istanza in cui era preponderante l’interesse maschile, come l’obiezione di coscienza, femminilizzandolo: alla donna spettava il compito di sottrarre alla guerra l’opera materna che questa distruggeva132. La

129Le donne per la pace in A. Capitini, Italia nonviolenta, Perugia. Centro Studi Aldo Capitini, 1981, p.52.

130Cfr. P.Gabrielli, Il 1946, le donne, la Repubblica, Roma, Donzelli, 2009 e A. Martellini, Fiori nei cannoni, cit., pp.77 e ss. Non va comunque dimenticato che l’emersione di un impegno politico femminile rimaneva una presenza minoritaria nella società italiana: come rileva Gloria Chianese il desiderio di ritornare a una vita familiare dopo i cinque anni di guerra era maggiormente avvertito rispetto all’esigenza di rinnovamento « che poteva essere condivisa soltanto dai settori di donne che, in qualche modo avevano partecipato ai momenti di lotta» (G. Chianese, Storia sociale della

donna in Italia (1800-1980), Napoli 1980, p.102).

131Il Partito comunista fu quello che meglio intese la rimuneratività della connessione tra archetipi femminili e conservazione della pace. Questo la tradusse nell’affidamento alle donne comuniste della promozione di manifestazioni commemorative dei caduti (are votive, cortei) e di raccolta firme nei pressi delle caserme. Significativamente già il secondo congresso dell’Udi del 1947 ebbe come tema: «Per una famiglia felice, pace e lavoro». «Le donne soprattutto» scrissero le donne dell’Udi in una lettera inviata a quelle del Cif sul finire del 1950 «hanno la possibilità e il dovere di dimostrare con i fatti, che le guerre non sono più inevitabili da quando i popoli hanno affermato il loro diritto di sovranità e di autodecisione, da quando esse stesse, le donne, si sono assunte spontaneamente e coscientemente le loro nuove responsabilità politiche e sociali» (FM, B.21, fasc. 1/b., lettera dell’Unione donne italiane, La pace è una sola, 28 dicembre 1950 riportato in A. Martellini, Fiori nei cannoni, p. 82). Sulla minor attenzione delle donne cattoliche al tema della pace Anna Scarantino vide una scelta esplicita di non trattare un tema «solo in apparenza “innocente”, ma al contrario considerato parte di una scelta frontista» (A. Scarantino, Donne per la pace, cit., p. 75). Dal punto di vista propagandistico anche la Dc adoperò largamente la connessione tra donna e pace, come evidenziava una cartolina di propaganda delle elezioni del 1946 dove era raffigurata una donna con i capelli bianchi seduta e sullo sfondo un soldato colpito a morte vicino a un reticolato. La didascalia diceva: «Non avremmo avuto la guerra se tu, madre, avessi potuto votare» (G. Cecere (a cura di). Cartoline. Una storia raccontata per immagini, Fabbri, Milano 2000, riportato Ivi, cit., p. 145).Sull’impegno delle donne all’interno del Partito comunista si veda in particolare: M.Mafai, L’apprendistato

della politica, Roma, Editori Riuniti, 1979; P.Gabrielli La pace e la mimosa. L’unione donne italiane e la costruzione politica della memoria (1944-1955), Roma, Donzelli, 2005, M. Michetti, M. Repetto, L. Viviani, Udi. Laboratorio di politica delle donne, Cooperativa Libera Stampa, Roma, 1984, G.Ascoli, L’Udi tra emancipazione e liberazione (1943- 64) in AA.VV., La questione femminile in Italia dal ‘900 ad oggi, Milano, Franco Angeli, 1977; Unione Donne Italiane, A. Manoukian (a cura di) La presenza sociale del Pci e della DC, Bologna, 1968, A. Guiso, La colomba e la spada, cit.pp.173-177. Sulla storia del Cif nel dopoguerra, cfr F. Taricone, Il Centro Italiano Femminile. Dalle origini agli anni Settanta, Franco Angeli, Milano 2001; C. Dau Novelli (a cura di), Donne del nostro tempo. Il Cif, Studium,

Roma,1995. Su un confronto tra Cif e Udi Cfr. P. Gabrielli, Il club delle virtuose: UDI e CIF nelle Marche

dall’antifascismo alla guerra fredda, Ancona, Il lavoro editoriale, 2000 e P. Gabrielli, L.Cicognetti e M.Zancan, Madri della Repubblica. Storia, immagini e memorie, Roma, Carocci, 2007.

132 La ricerca sul ruolo delle donne nelle associazioni pacifiste indipendenti è più frammentaria. Fondamentale è il contributo di Anna Scarantino, Donne per la pace,cit. Pur se concentrata sull’esperienza dell'Associazione

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simbologia era già stata presente nell’universo antimilitarista di inizio secolo, ma era ora declinata in un’etica di nuova responsabilità di fronte alla passiva accettazione manifestata dalla donne nella recente guerra.

Le principali anime culturali di una riflessione che fiorì in articoli e pamphlet nel mondo laico e anarchico furono Maria Remiddi e Anna Garofalo133. Indipendentemente una dall’altra trattarono il rapporto tra la donna e la guerra in due romanzi, editi nell’immediato dopoguerra, nei quali adoperavano lo stesso espediente narrativo di un racconto in prima persona, al tempo presente, condotto da una madre che si confrontava nel proprio animo con la guerra combattuta dal figlio134. I titoli presentavano tuttavia la diversa situazione delle protagoniste: In guerra si muore era il monito che la madre avrebbe voluto annunciare al figlio per strapparlo al compito di soldato che stava svolgendo e metterlo in salvo. Pianto di Ecuba, chiara rievocazione della madre troiana che nella tragedia euripidea assisteva alla morte della patria e dei propri figli, percorreva la rielaborazione del lutto di una donna raggiunta dalla notizia della scomparsa in guerra del figlio135. Le protagoniste incarnavano le due dimensioni drammatiche della guerra che una madre poteva vivere: la convivenza quotidiana con il timore della morte del figlio e il confronto con la sua perdita. Diversa, nei soliloqui delle due donne, era tuttavia la lettura del conflitto. Nel Pianto di Ecuba la madre parlava per squarci di una guerra metastorica, non calata negli eventi appena trascorsi. Protagonista era l’opera materna che ogni guerra annientava136

. I quadri, nei quali la narrazione si sviluppava, erano stadi psicologici di consapevolezza che ella maturava, fino al punto in cui non decideva di mettersi in cerca della «madre di colui che ha ucciso mio figlio, la responsabile del fatto orrendo, colei che ha partorito e cresciuto l’assassino» per incontrare invece la voce di un’altra madre che le gridava: «Tu hai ucciso mio figlio! Tu hai partorito e cresciuto l’assassino!»137

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Il percorso della madre di In guerra si muore era più oscillante e contraddittorio. La condanna si rivolgeva primariamente alla guerra fascista. L’opera materna era resa vana dal sacrificio del proprio figlio per una causa sbagliata, una «balorda congiura di forsennati», ordito nei confronti dell’immolazione generosa dei soldati. Diversa sarebbe la percezione della madre di fronte a un’altra guerra, «una guerra giusta», come ancora era percepita la Grande Guerra138

. Allora invece «anche la cosa più bella che egli potrebbe fare, quella di morire per la patria, non è che un povero gesto inutile. Non servirebbe a niente. L’Italia ormai non la salva più nessuno»139. Talvolta tuttavia lo spreco di vita determinato dall’inutilità di questa guerra e la tragedia generale di ogni guerra si confondevano nella disperazione della madre. Nel passo che dava il titolo al libro, questa avrebbe voluto trattenere il figlio in partenza gridandogli: «Non essere eroico. Per carità! Sei pazzo? Dove

internazionale delle madri unite per la pace e sul profilo biografico della sua principale animatrice, Maria Remiddi, emerge in essa il dettagliato panorama del movimentismo pacifista femminile, autonomo rispetto ai grandi movimenti femminili di massa, l’Udi e il Cif.

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Nell’anarchismo il tema fu toccato in particolare daVanna Ablondi, compagna dell’obiettore Piero Ferrua. Nel 1951 avrebbe scritto sulla rivista del gruppo Anarchismo: «Ed è a noi donne, soprattutto che tocca il compito più arduo. Siamo noi che non dobbiamo permettere che ci strappino dalle carni i nostri figli; noi, che con dolore li partoriamo e con amore li facciamo crescere, non dobbiamo lasciare che quando questi sono sulla soglia della vera vita, quando sono sul punto di diventare uomini, che ce li portino via, ce li mandino ad uccidere contro i figli di altre madri che soffrono e piangono come noi. E’ il nostro sangue che deve ribollire che deve vincere qualsiasi ostacolo per salvare quest’umanità corrotta, sanguinante, per salvare i nostri figli, per salvare i figli di tutto il mondo. Se nei limpidi occhi di un giovane, se nelle sue parole calde di entusiasmo, se nella sua voce ferma e decisa, gli uomini, i malvagi, non hanno saputo apprendere la verità, la vera legge della vita, ebbene tocca a noi donne farci capire, a noi donne di tutti i paesi, a noi madri di tutto il mondo» V. Ablondi, Parole di una donna ai giovani, «Anarchismo-Vespro Schicchiano» – maggio1950-marzo 1951.

134 Cfr A. Scarantino, Donne per la pace, cit., p.45 135

M. Remiddi, Pianto di Ecuba, Roma, Gismondi, 1947 p.5. 136 Ivi pp.19-20.

137Ivi, pp.47-48. 138Ivi, p.57. 139

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vai? Lo sai che in guerra si muore? Ti ammazzeranno! Resta qui con me! Rifiutati! Questa è una guerra maledetta! E’ mostruoso andare alla guerra a vent’anni, così bello, vestito di lucido panno bleu»140. La madre di Anna Garofalo, pur non condannando la guerra in quanto tale, vedeva nella guerra fascista un inesorabile scarto novatore: instillando la speranza di una sconfitta della patria, «a desiderare con ogni nostra forza l’arrivo del vincitore che fu il nostro nemico di ieri (…)», «un nemico che ha dovuto farci molto male e a cui non sappiamo volerne per il male che ci ha fatto»141, ne aveva riformulato il senso. I giovani del futuro «forse (…) ne avranno abbastanza della patria, non vorranno nemmeno sentirla più nominare. (…) Vorranno vivere, vivere, vivere. Vorranno dimenticare. Si aprirà per loro un immenso campo, oltre il ristretto orizzonte del loro paese per cui hanno tanto sofferto: il mondo. Si accorgeranno di conoscere così poco, vorranno muoversi, viaggiare, confondersi agli uomini di altre nazioni, vedere il buono e il cattivo che c’è in ogni ordinamento e in ogni costume. Vorranno vivere per loro, per loro soltanto. Ameranno la casa, i fiori, i bambini, la donna, il libro. Ameranno pazzamente la loro individualità»142. L’italiano uscito dal fascismo «più controllato, più dignitoso»143 avrebbe necessitato di un altro lessico: «Sono stanca della parola eroe,» affermava la protagonista nella parte centrale del libro. «E’ stata troppo adoperata che ha perduto il suo vero significato. (…) Quando la guerra sarà finita avremo sete di un linguaggio piano, civile, pacato. (…) L’uomo adatto a comandare gli altri uomini ci sembrerà colui che per dignità di vita e per altezza di mente può servire da esempio. Se è per mano di un uomo eccezionale che siamo caduti tanto in basso (…) noi fin da ora ci prepariamo a credere nell’uomo di poche parole, di atti realistici che non prometterà nulla e che pian piano riassetterà questo fallimentare bilancio»144.

Per entrambe le madri del romanzo il dolore sperimentato apriva una nuova consapevolezza. La madre di In guerra si muore maturava la preveggenza dello sguardo femminile, che i «tecnici della guerra» ignoravano:

Mi sono sentita dire dai tecnici della guerra, dai militari che vedono un solo settore: - eh, le donne fanno presto a giudicare, ma la guerra dobbiamo farla noi. E infatti è così. Ma quando sarà scritta la storia di questi anni ci sarà forse chi onestamente dirà che le donne avevano visto chiaro, terribilmente chiaro, più degli uomini. Perché esse sono tutto istinto e in questa guerra, mentre i militari facevano calcoli e si curvavano sulle carte, esse dovevano mandarci i loro figli, i loro uomini e sentivano strapparsi la pelle. Non misuravano tanto il numero delle divisioni, il tonnellaggio, il terreno. Odoravano l’aria, tastavano il polso, dicevano semplicemente: non va. Come sempre, non furono interrogate145.

Per la madre di Pianto di Ecuba la scoperta d’aver generato un assassino apriva la presa di coscienza dello stato di colpa per aver «sentito figlio quello solo partorito dalle viscere nostre e non sentir che tutti erano figli nello spirito146. Limitandosi a pregare «perché tu rimanessi in vita», senza calcolare «quante altre vite umane costava mantenere la tua vita147», ella aveva commesso un peccato di viltà. «Una forza misteriosa piegò le anime nostre a crudeli sottomissioni, senza mai un ansito ribelle. Fralezza di muscoli, levità d’ossa ci persuase che tutto era più forte di noi: l’uomo che ci sostava da presso e la legge lontana. (…) Piccole fummo e deboli e vili, adatte a minime cose e incapaci alle grandi»148. La guerra passata lasciava tuttavia come eredità l’annuncio di una nuova maternità ribelle: 140Ivi, p. 13. 141 Ivi, pp- 7-8. 142Ivi, p.57. 143 Ivi, p. 54 144 Ivi, p.66. 145Ivi p. 29.

146M. Remiddi, Pianto di Ecuba, cit. Ivi, p.64. 147Ivi,p.47-49.

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Perché io dopo averti insegnato ad aver pietà del passero sul nido e della lucertola fra le pietre, ti feci partire armato per uccidere i tuoi simili? Perché io che temevo la pioggia sopportai che tu andassi sotto il fuoco? Perché non mi distesi sulla soglia e non ti dissi: Calpestami se lo puoi? Perché non ti minacciai di farmi trovare fracassata sulla strada, al tuo primo passo fuori dall’uscio. Perché non ti trascinai, anche contro la tua volontà, su una montagna deserta? (…) Non facemmo questo. Eppure tutte lo avremmo fatto, se la voce del destino che ora è compiuto, ci avesse parlato al cuore e se avessimo potuto mirare, con gli occhi dell’avvenire, il sangue che ora si è sparso149.

La consonante sensibilità sviluppata dalle scrittrici nelle loro opere, si tradusse nell’impegno dell’Associazione Madri Unite per la Pace a cui veniva affidato il compito di fare delle donne «un fronte unico, duro, compatto contro il pericolo di guerre future»150. Se nella guerra appena trascorsa la donna non era state solo vittima, ma anche complice per la sua mancata ribellione, emancipazione femminile e mobilitazione per la pace erano paradigmi connessi: «Facciamo insieme un bel sogno,» scriveva Maria Remiddi su «Ali». «Immaginiamo fra mille o duemila anni una sezione di scolari sopra una pagina di un libro di storia che dica presso a poco così: “Verso la metà del XX secolo si cominciarono ad avvertire le benefiche conseguenze della donna nelle attività politiche. La violenza che caratterizzò durante tutti i secoli precedenti i rapporti sociali diretti esclusivamente dagli uomini tende a diminuire”. Magnifico sogno! Pensiamo ora che se questo sogno non si avvera qualcuno potrà dire che l’aver tolto la donna al fuso o alla canocchia fu inutile»151. L’associazione esprimeva la nuova antropologia materna sorta dalla guerra che non rientrava in nessun canone: avrebbe rifiutato l’atavica rassegnazione di Maruzza dei Malavoglia, ma al tempo stesso anche il modello eroico che il fascismo le aveva imposto con «la propaganda dei tempi di guerra» per « accattivarsi lo spirito» pervertendone il ruolo biologico di prima responsabile della vita umana. Ad essere eroica sarebbe ora stata una donna che, ricondotta alla propria natura, l’avrebbe rivendicata con l’affermazione«[del]la pace in un mondo di violenza», quindi a un contesto di «lotta: lotta senza sangue (…), ma lotta»152

. La madre che «cessa di nascondere il suo feroce interesse a che sia conservata la vita del figlio, ma anzi impernia su questo interesse ogni sua visione delle cose prende chiaramente e apertamente l’atteggiamento della ribelle»153

affermava Anna Garofalo.

L’ambito di intervento prevalente dell’Aimu rimase tuttavia quello tradizionalmente affidato alla donna: l’educazione in primo luogo, dentro la famiglia o nella scuola (per esempio sostenendo l’abolizione del giocattolo guerresco), attraverso cui sviluppare una specifica azione di cura e tutela verso gli uomini. Verso i figli più che verso i mariti154. Più difficile fu la trasposizione di questo approccio teorico o pedagogico in una istanza politica. Quando in seguito alla relazione di Eugenia Bersotti (Eughenes) al secondo congresso fiorentino, intervenuta anche come delegata dall'Aimu155,