Pietro Pinna: radiografia di un caso
4. Sulle orme di Pietro Pinna: libertari e anarchic
Soltanto sette giorni dopo la riforma di Pinna, nello stesso C.A.R. di Avellino in cui aveva presentato la sua seconda obiezione, avveniva il cambio della guardia. Elevoine Santi, uno studente di architettura, di famiglia operaia, nativo e residente di Sala Bolognese, «barba fratesca e sguardo profetico, impolitico e saggio»450, presentò la sua obiezione di coscienza al comando campano. Come Pinna, Santi non proveniva da partiti o associazioni. Tra il giovane e il gruppo dei Resistenti alla Guerra non c’erano stati nemmeno i labili contatti permessi dalla presenza a Ferrara di Balboni. La sua scelta era maturata attraverso le esperienze personali vissute in diversi campi di lavoro: nel 1948 aveva partecipato come manovale al campo volontario di Praly diretto dal pastore valdese Tullio Vinay, nell’estate del 1949 al campo di Vercheny organizzato dal Servizio Civile Internazionale per ricostruire una zona devastata dalla guerra. In quest’occasione Santi era entrao in contatto Garry Davis e soprattutto l’obiettore francese Bernard Moreau, di cui era diventato amico. In seguito aveva ancora prestato la sua opera a Fossoli, nella città dei Ragazzi costituita da don Zeno Saltini451.
Non ho il piacere di conoscerla personalmente – scriveva in due lettere pressoché identiche inviate a Capitini e Marcucci - ma so quanto ha fatto per Pinna e per questo (…) mi rivolgo a lei. Il mio caso è identico (…). L’obiezione di coscienza che Pinna ha sentito già militare, io sento ancor prima di essere chiamato alle armi. Sono stato studente universitario sino all’anno scorso e per tale motivo ho subito due rinvii al servizio militare, ma ora ho abbandonato gli studi, perché solo nel lottare per la pace trovo attualmente la mia strada e la mia ragione di vita. L’umanità è la mia famiglia e sono contrario a fare qualsiasi atto (…) che non sia consono ai principi della mia coscienza. Sono membro del Servizio Civile Internazionale ed ho lavorato nei cantieri del S.C.I. (…) e mi sento pronto in luogo del servizio militare di fare anche un servizio più faticoso e più pericoloso che dia benefici seppur relativi all’umanità, ma mai un servizio che aiuti chi combatte come sembra voglia approvare il nostro Parlamento. Non le espongo qui le mie idee, i miei principi: sono certo che li comprenderà benissimo.452
La lettera non indugiava nella condivisione di un intimo percorso interiore. Vi era qui soltanto la richiesta di un giovane che aveva già maturato una decisione e cercava un contatto con persone di cui era venuto a conoscenza per fama e dalle quali confidava di ricevere un aiuto. Le stesse motivazioni, presentate in una lettera al Presidente della Repubblica e al Ministero della Difesa, di
448 Un esempio è l’articolo di E. Zazo, La vedova di Wilson ha scritto al padre di Pinna, «Milano Sera», 30 agosto 1949.
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A. Capitini, Gli Italiani hanno carattere?, Milano Sera, 9 ottobre 1949.
450 Lettera di Guido Ceronetti ad Aldo Capitini, Torino 19/1/1950 in AS, FC, b.75. 451 Cfr. Sicor (Bruno Segre), Gli obiettori di coscienza, «Crimen», 14 novembre 1950.
452 Lettera di Elevoine Santi ad Edmondo Marcucci, Sala Bolognese, 12-1-1950 in FM, sc.11, b.1 fasc. 4. Una lettera pressoché identica Santi la scrisse ad Aldo Capitini in AS, FC, b.1503.
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cui «L’Incontro» pubblicò alcuni stralci, erano mosse da una concezione più pratica. Della tensione religiosa che aveva animato il ferrarese, in cui forti erano le risonanze della spiritualità capitiniana, qui non c’è traccia453. L’attenzione era rivolta all’azione fattiva da mettere a disposizione dell’umanità:
la morte di un qualsiasi individuo è un lutto per me perché è uno della mia famiglia che è morto. Se gli uomini in certi momenti diventano dei lupi, questo non mi obbliga a diventarlo anch’io (…). Usando il treno, accendendo la luce elettrica o se mi salvo della morte con la penicillina scopro che altri hanno lavorato e lavorano per me ed io devo aiutare l’intera umanità. Con la guerra si distrugge l’umanità; gli eserciti, anche in pace, sono quelli che preparano questa distruzione. Per questo, io mi rifiuto di servire nell’esercito, finché l’esercito è uno strumento di guerra. Non è vigliaccheria che mi spinge a questo passo: io chiedo di fare un servizio più duro e pericoloso per un periodo più lungo purché il mio servizio sia di utilità ad una parte di cittadini di questo mondo senza danneggiare nessun altro. (…) Per questo motivo, pur presentandomi alla chiamata, dimostrando di avere intenzione di servire la nazione, disubbidirò ad ogni ordine che sia in contrasto con la mia coscienza. Finché non esiste una legge in difesa del diritto di non uccidere, la mia coscienza mi obbliga a disobbedire ad ogni comando di superiori militari454.
L’aspetto più particolare della decisione di Santi fu tuttavia la motivazione “politica” che lo portò alla rapida risoluzione. In quanto studente universitario egli avrebbe potuto godere ancora del beneficio del rinvio, ma aveva preferito rinunciare all’iscrizione al quarto anno di architettura, per dare un impulso decisivo, attraverso un nuovo caso che mettesse in subbuglio l’esercito, all’approvazione della legge Calosso-Giordani. Era questo un segno del clima che l’obiezione di Pinna aveva generato nell’ambiente pacifista. All’inizio del 1950 era abbastanza diffusa la convinzione che il «bill» sarebbe presto passato455. Per Ceronetti cominciava anzi ad essere tempo perché il gruppo pacifista appena sorto cominciasse a riflettere su come portare avanti la propria azione quando non avrebbe più potuto contare sul clamore suscitato dagli obiettori incarcerati. Pietro Pinna aveva infatti aperto la via a nuove obiezioni e il suo gesto, «per quanto legalmente punito, non potrà più essere minimizzato o circoscritto». Pertanto «parlamentari meno angusti» avrebbero approvato «senza esitazione» la legge per spegnere i riflettori sulla politica militare del governo. A quel punto «l’adeguazione del Paese al programma suicida di riarmo continentale» sarebbe potuta procedere indisturbata e per il movimento pacifista sarebbe stato assai più arduo far sentire una voce senza poter contare sull’epico scontro «tra l’umile soldato chiuso nella sua roccaforte morale e il Golia statale». «Ammettete l’obiezione di coscienza» scriveva il poeta su «Ali», «e l’avrete praticamente soppressa perché le prigioni non testimonieranno più contro la vostra follia. Onore alla legislazione italiana che apre le porte ad uno dei più sacri diritti della persona umana, ma una volta privati dell’arma dolcissima del sacrificio, come si concreterà la nostra azione ulteriore? La voce di Pietro Pinna poté suscitare tanto interesse e rianimare la nostra fede declinante perché veniva dal fondo di una galera»456.
Vi era in questa lettura una sorta di astrazione del riconoscimento dell’odc dal contesto politico che stava prendendo corpo: l’obiezione di coscienza veniva esaminata fuori dal clima sempre più cupo che la guerra fredda stava calando sulla contrapposizione politica, nel quale sarebbe stato impossibile un riconoscimento. Né era compresa l’insofferenza dello Stato Maggiore verso un istituto che contestava alcuni principi cardine, come la gerarchia, il riarmo, un esercito a larga intelaiatura, la gestione autonoma e separata delle cose militari. L’obiettore di coscienza rappresentava una contestazione radicale alle parole di un generale come Camillo Caleffi che poco prima dell’obiezione di Pinna aveva affermato che «nel passaggio dall’ordinamento fascista a
453 Pur rifiutando la propria appartenenza alla Chiesa cattolica, l’obiezione di Pinna si fonda su una religiosità profonda. Nella sua biografia scritta molti anni dopo, Pinna raccontava il proprio contrasto angoscioso con Dio stesso, «concordemente presentato come consenziente alla necessità di guerra» vissuto nella solitudine della cella. (P. Pinna,
La mia obiezione di coscienza, cit., p. 10).
454 Elevoine Santi, L’obbiettore di coscienza n.2, «L’Incontro», n.1.gennaio 1950. 455 Lettera di G. Ceronetti ad Aldo Capitini, Torino, 14/12/1949, in FC, b.686. 456
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quello democratico, nell’esercito non sarebbero state intaccate la subordinazione e l’obbedienza, poiché la combinazione di questi due elementi avrebbe conservato l’irresponsabilità morale del soldato di fronte ai crimini commessi in tempi di guerra e di pace»457. La buona riuscita della tattica adoperata in occasione del secondo processo Pinna, sembrava infine sufficiente per impedire che nuovi casi di obiezione ottenessero la stessa celebrità. In occasione del processo di Elevoine Santi la tattica fu replicata ed estremizzata dal tribunale napoletano, già palcoscenico del precedente verdetto.
Il processo si tenne l’8 febbraio, a distanza di meno di un mese dalla presentazione dell’obiezione da parte di Santi. Dal punto di vista della legalità formale, fu addirittura peggiore del precedente: «borbonico, sbrigativo, duro» lo definì Marcucci, teste della difesa458, mentre Segre lo descrisse come un «vero scandalo»459. La difesa fu informata della data del processo appena una settimana prima. Durante l’udienza, il presidente non lasciò parlare l’imputato460
, al punto che fu il pubblico ministero, lo stesso che aveva esercitato l’azione penale durante il processo Pinna, ad intervenire per asserire il diritto dell’accusato di difendersi. I teste a discarico portati dalla difesa461
non furono ammessi con la motivazione «che avrebbero tentato di inquadrare la figura dell’imputato secondo un punto di vista esclusivamente morale»462. «Il trucco legale è in questo,» spiegò Segre a Capitini. «Mi diedero la sensazione che il processo fosse per direttissima (…), cosicché io non ebbi tempo per citare i testi. Quando fui là, dovetti accontentarmi di portarmeli in udienza ed il presidente li rifiutò e non già perché la loro deposizione potesse capovolgere l’esito, ma perché si voleva, giusta le istruzioni ministeriali, far passare sotto il massimo silenzio il processo»463. Persino i testimoni dell’accusa (i militari a cui Santi aveva presentato l’obiezione) ricevettero una reprimenda dal presidente per l’offerta fatta al giovane di un impiego non combattentistico, in cambio della sua rinuncia464. La seduta in camera di consiglio della Corte durò una decina di minuti appena «segno che la sentenza era già pronta»: un anno di reclusione, senza alcun beneficio di legge, secondo la richiesta del p.m.465. Nel pomeriggio a Segre venne impedito di visitare il suo assistito nel carcere di Sant’Elmo. Il mese successivo Santi sarebbe stato trasferito al reclusorio di Gaeta, presto assurto a famigerato simbolo della detenzione degli obiettori di coscienza.
Se contrariamente al processo napoletano di Pinna la procedura antidemocratica del tribunale di Napoli fece cattiva impressione sul pubblico numeroso466, la stampa locale fu generalmente maldisposta nei confronti del giovane. «I giornali reazionari di Napoli, questa città dove tutto è rimasto fascista, dove si ragiona in termini del più ripugnante nazionalismo e si sognano le “quadrate legioni” sotto la luna di Posillipo, hanno scritto cose che la decenza mi vieta di riassumere», scriveva Ceronetti467. Anche l’avversione poteva tuttavia essere inteso come segno
457«Il Messaggero», 10 dicembre 1948 riportato in A. Martellini, Fiori nei cannoni, cit., p.58.
458 Lettera di Edmondo Marcucci a Maria Remiddi, Jesi, 4 marzo 1950 in AMR, FR, b.19. Segre che di Santi fu l’avvocato difensore parlò di «un vero scandalo».
459Lettera di Bruno Segre ad Aldo Capitini, 14 febbraio 1950 in FC, Corrispondenza, b.1533. 460 G. Pioli, Il cambio della guardia degli obiettori di coscienza, «Umanità Nuova», 5 marzo 1950.
461 Oltre a Marcucci erano presenti il Segretario Nazionale del Servizio Civile Internazionale, Luciano Franzoni, il ministro evangelico Arnaldo Carsaniga, l’ingegnere Corrado Mastrocinque, «fervido mazziniano e gandhiano»
462 Lettera di Guido Ceronetti ad Aldo Capitini, Torino, 13/2/1950 in FC, b.686. 463Lettera di Bruno Segre ad Aldo Capitini, 14 febbraio 1950 Ivi, b.1533.
464 G. Pioli, Il cambio della guardia degli obiettori di coscienza, «Umanità Nuova», 5 marzo 1950. Marcucci ricordava inoltre come fosse risultato che uno dei teste militari dell’accusa, un maggiore, avesse cercato di dissuadere Santi dicendogli che la guerra è il progresso dell’umanità. Durante il processo egli disse di non ricordare, ma che altre autorità maggiori della sua erano di quell’avviso (E. Marcucci, Sotto il segno della pace, cit., p.134).
465 Lettera di Bruno Segre ad Aldo Capitini, Torino, 14 febbraio 1950 in FC, b.1533. 466
E.Marcucci, Sotto il segno della pace, cit. p.134.
467 L’acrimonia nei confronti della città veniva più che altro dall’esperienza vissuta durante la precedente visita a Pinna. Nel caso di Santi commenti e racconti erano di seconda mano. Egli avrebbe voluto partecipare al processo, e si era anche proposto, senza fortuna, ad alcune testate che avevano manifestato in passato una certa attenzione all’odc, come «Milano Sera», offrendo un «servizio accurato» in cambio di un rimborso delle spese di viaggio.
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salutare: «non c’è troppo da lamentarsene, purché se ne parli: “Batti, ma ascolta”»468
affermava Pioli. In realtà anche il battere cominciava a farsi più tenue rispetto ai mesi precedenti. A Torino, Ceronetti constatava amaramente come la sola «Gazzetta del popolo» avesse riportato la notizia, un trafiletto di poche righe a piè di pagina469, mentre il corrispondente de «La Stampa», favorevole all’imputato, «non si ebbe pubblicato il pezzo e il giornale uscì senza notizia»470
. Il clima meno favorevole della stampa, si accompagnava ai primi segni di cedimento del gruppo che tanto si era prodigato per Pinna: «quel ragazzo è stato proprio abbandonato» scriveva ancora Ceronetti dieci giorni dopo, in una nuova lettera a Capitini, ricusando l’ottimismo espresso appena due mesi prima. «Neppure i suoi s’interessano troppo di lui, Mondolfo mi ha risposto nicchiando, Calosso elogia il ritorno in Somalia del tricolore italiano, Giordani tace, la commissione legislativa sonnecchia, in Francia si votano leggi eccezionali per la difesa del Paese, questa volta il loro successo è completo – almeno in apparenza – e l’opinione pubblica dà segni sempre più palesi della sua inesistenza»471.
Mentre l’interesse sembrava declinare, i casi aumentavano. Due mesi dopo un impiegato al comune di San Remo, studente marconista, si presentava all’addetto alla vestizione del Deposito C.E.M.M. di La Spezia e all’ordine di indossare la divisa di marò rispondeva di non essere intenzionato a prestare servizio militare472. Era la prima volta che un’obiezione di coscienza veniva presentata alla marina. Soprattutto era la prima volta che un’obiezione di coscienza si ispirava a ideali rigorosamente anarchici.
Il caso Pinna era scoppiato in mezzo al ricostituirsi dell’antimilitarismo anarchico dopo la fioritura di inizio secolo, suscitando reazioni opposte. «Umanità Nuova» aveva ospitato un dibattito tra autorevoli figure dell’anarchismo francese e italiano sui casi più dibattuti di quel periodo. Veniva in particolare riportato l’intervento di Fontaine ad una manifestazione parigina a favore di Moreau nel quale riprendeva anche il caso Pinna lamentando che il giovane venisse trattato come il primo obiettore, senza considerare il fatto che « in passato abbiamo avuto centinaia, talvolta migliaia di casi di obbiezione di coscienza rivoluzionaria, dal movimento di massa dei renitenti siciliani dopo la formazione dello Stato unitario, fino alla condanna di centinaia di disertori anarchici o sovversivi durante la prima guerra mondiale». Giovanna Berneri, vedova dell’anarchico Camillo, tracciava invece un solco tra le passati diserzioni anarchiche, pur mosse da un’istanza antimilitarista e l’atto pubblico dell’obiettore di coscienza. Al contrario delle obiezioni non tutti gli atti di diserzione avevano una giustificazione morale, né potevano essere considerati espressione di una élite rivoluzionaria. D’altronde nessuno dei disertori anarchici del passato aveva saputo suscitare l’emozione sollevata da Pinna e il suo rifiuto era passato senza lasciare traccia: «Chi si è sottratto al servizio militare con un rifiuto pubblico ed aperto, affrontando perciò un processo e la prigione, ha giovato a diffondere lo spirito antimilitarista infinitamente più di chi si è accontentato di evitare il servizio militare o con la diserzione o con l’astuzia. Chi diserta salva la sua coscienza. Chi rifiuta pubblicamente salva se stesso, ma nello stesso tempo incita ed aiuta anche altri a trovar coraggio di salvarsi. (…) Facendosi processare egli ha illuminato un poco il buio di tante coscienza di uomini e donne comuni che si sono detti, per la prima volta, che ci si poteva dunque rifiutare al compimento di un dovere odioso come quello del servizio militare, che si poteva davvero dire di NO alla guerra»473. Tra Fontaine e Giovanna Bernieri vi era un secondo motivo di dissidio, la vera base della diversa valutazione del passato. Anticipando il dibattito che avrebbe coinvolto
468G. Pioli: Il cambio della guardia degli obiettori di cocienza, «Umanità Nuova», 5 marzo 1950. 469
Lettera di Guido Ceronetti a Aldo Capitini, Torino, 10/2/1950 in FC, b.686. 470 Lettera di Guido Ceronetti a Aldo Capitini, Torino, 13/2/1950 Ivi.
471 Lettera di Guido Ceronetti ad Aldo Capitini Capitini, Torino, 25/2/1950 in FC, b.686. Ceronetti aveva scritto a Mondolfo deputato del neonato Psu di Romita, che conosceva personalmente, nella speranza che facesse un’interrogazione sul processo di Santi per «agitare le acque parlamentari» dato che, a suo giudizio, quelle del Psli stavano diventando stagnanti. Lettera di Guido Ceronetti ad Aldo Capitini, Torino, 13/2/1950 in FC, b.686.
472 F.B. Terzet, Un obiettore di coscienza condannato a La Spezia, «La Gazzetta», 4 aprile 1950. 473
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l’antimilitarismo dei primi anni Settanta, Fontaine preferiva all’obiezione di coscienza rivoluzionaria «la presenza rivoluzionaria nell’esercito e l’insubordinazione», mettendo in guardia dalla trasformazione dei «problemi di tattica» in «problemi di dottrina»: questi casi non andavano confusi con «coloro che, sotto la formula “il fine giustifica i mezzi”, simulano non soltanto di fronte al nemico, ma mentono ai loro compagni e mentono a loro stessi«. Giovanna Bernieri rifiutava categoricamente questa impostazione, anche al rischio di essere annoverata tra «gli anarchici sorpassati». Ella riteneva impossibile «disgiungere l’azione dai principi», perché «il fine vero della nostra azione porterà sempre l’impiego dei mezzi reali di cui ci saremo serviti via via per costruirlo. Non si costruisce un edificio bianco con dei mattoni neri».
Dove il dibattito dottrinario ebbe uno sviluppo più animato, fu tra le vivaci federazioni anarchiche ricostituitesi in Liguria nel dopoguerra, nelle quali la forte presenza di una componente giovanile rendeva il problema della leva era particolarmente sentito. Tra queste una delle più vitali era il gruppo di Sanremo a cui Ferrua apparteneva. Nella sua biografia egli ricordò come nelle discussioni la questione militare avesse anzi avuto il sopravvento su tutte le altre nelle riflessione del suo gruppo474: a partire dal 1946 volantini che sostenevano la neutralità perpetua e ripristinavano paradigmi diffusi a inizio secolo come l’abolizione della leva obbligatoria e dell’esercito o la contestazione dell’idea della caserma come scuola, avevano cominciato a riapparire sui muri della città. Un anno prima dell’obiezione di Pinna, San Remo aveva conosciuto l’opposizione al servizio militare di un altro anarchico Libereso Guglielmi, conosciuto come il giardiniere della famiglia Calvino e immortalato dallo scrittore Italo nel racconto Un pomeriggio Adamo. Una certa tradizione anarchica e lo stesso Ferrua considerano ancora oggi Libereso una sorta di proto-obiettore di coscienza. Guglielmi venne in realtà imputato per renitenza alla leva nel giugno del 1948 per non essersi presentato al distretto né il giorno fissato dalla cartolina precetto, né nei cinque giorni successivi. I suoi sentimenti antimilitaristi erano noti, tuttavia sia nell’interrogatorio che nel dibattimento processuale, egli giustificò la sua mancata presentazione con la necessità di prendersi cura dei bisogni della famiglia e del padre malato475. Anche a distanza di anni, in alcune interviste, lui stesso pur definendosi obiettore di coscienza motivò il suo rifiuto con le ristrettezza della madre, per cui aveva preferito essere un buon figlio e un cattivo soldato, dato che «la patria non sa nemmeno che esisto», mentre «mia madre (…) si e sacrificata per farmi arrivare a vent'anni»476. Libereso, essendo già stato riconosciuto «meno atto per torace e peso», venne difatti assolto dal Tribunale e rimandato a casa. Il suo esempio tuttavia, anche per il carisma che egli aveva nella federazione sanremese, lasciò traccia.
La scelta di Ferrua attecchiva in un fermento antimilitarista preesistente sul quale si erano innestati gli echi del caso Pinna e le conseguenti riflessioni che coinvolsero il mondo anarchico. Il gesto dell’obiettore ferrarese faceva intravedere la possibilità di aggiornare la tradizionale renitenza