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Obsolescenze, neoformazioni, dialettalismi, lingue “da contatto”: per quale italiano formare oggi?

1 “Divisi si va uniti (verso l’estinzione)”: frammentazione vs compattezza nelle iniziative di formazione

3. Obsolescenze, neoformazioni, dialettalismi, lingue “da contatto”: per quale italiano formare oggi?

“Italiano dell’uso medio”, “italiano nuovo”, “nuovo italiano”, “italiano neostandard”, “italiano imbastardito” o ancora, addirittura, “lingua sel- vaggia”: sono soltanto alcune delle definizioni rinvenibili a più riprese nei

1. I cenni al contributo scientifico del prof. Coluccia rinvenibili nel corso del testo pro- vengono dalla lectio introduttiva I Lincei per una nuova didattica nella scuola: una rete

nazionale tenuta a Bari in occasione dell’apertura del corso di formazione di cui qui si dà conto. Il testo della lezione è in corso di stampa: ma ho ritenuto opportuno e insieme do- veroso inserire i giusti riferimenti alla riflessione dello studioso, prima fonte di ispirazio- ne della mia stessa.

manuali di educazione linguistica, nei testi di glottodidattica, ma anche nei percorsi di programmazione curricolare (cfr. Dardano, 2005; Ciliberti, 2012; Balboni, 2012). Tralasciando per un istante tutte le possibili defini- zioni di tutte le possibili accezioni, la realtà sta forse nel fatto che nessuna di queste definizioni o accezioni sia (per quanto aneli ad esserlo) esaustiva: per dirla con le parole di Coluccia, “si è formata una lingua media, parlata e scritta, attraversata da tendenze e fenomeni che non rientrano nello stan- dard”. Posto che sia possibile parlare di un concetto univoco di standard, l’italiano standard contemporaneo deve, a dire degli studiosi, relazionarsi con una serie di interpolazioni e ingressi più o meno disciplinati dalla nor- ma, da un lato; dai contesti d’uso, dall’altro. Alla base di questi confronti vi sarebbero alcuni fenomeni, che se riguardano in generale tutte le lingue cosiddette vive, influenzano l’italiano in misura sempre più cospicua, so- prattutto a causa dell’accettazione passiva di questo tipo di adeguamenti che per lunghi anni ha predominato rispetto al processo di salvaguardia subentrato da alcuni anni. Di questi fenomeni, ve ne sono due classificati come “normali”, anzi, forse si dovrebbe dire normativi, perché legati al carattere naturalmente evolutivo di una lingua: si tratta delle neoformazio- ni, ovvero dell’ingresso nel patrimonio sintattico e lessicale di neologismi; e del processo contrario, quello cosiddetto dell’obsolescenza, che regola e determina l’uscita di scena di parole e costrutti considerati non più adatti ai contesti comunicativi contemporanei (Dardano, 2005; Serianni, 2015). V’è da dire forse, a questo proposito, che negli ultimissimi anni il processo di obsolescenza si è fatto particolarmente aggressivo nei confronti della nostra lingua, e ha determinato la messa in disuso di numerosi costrutti e lemmi che in realtà, a ben guardare, risultano di facile comprensione e “consultazione” (oltre che semanticamente attuali) ad un’ampia fetta di parlanti madrelingua. Questo fenomeno ha fatto nascere, di recente, una controtendenza, ovvero quella a salvaguardare il maggior numero di co- strutti possibile al fine di evitare un processo che, per quanto dotato di in- tegrazioni, finisce per essere comunque di impoverimento (ne è un esempio l’iniziativa “Adotta una parola”, anch’essa parte della Rete dei Lincei per

l’italiano: Coluccia, 2016). Oltre alla formazione di neologismi e alle lima-

ture dell’obsolescenza, almeno altri due processi devono essere annoverati tra i responsabili della complessa articolazione del sostrato dell’italiano. Il primo tra questi è il contatto dell’italiano cosiddetto standard con la realtà dialettale, che in Italia è assai variegata e, cosa importante, forte e non minacciata dal processo di estinzione. Non è un caso che in Italia si parli di “italiani regionali”, a significare la dignità che il contatto con le varietà regionali e con i dialetti propriamente intesi conferiscono comunque, nel- la concezione “italica”, alla lingua parlata (Dardano, 2005). A seguire in questa rapida carrellata vi è poi il fenomeno che, senza ombra alcuna di esagerazione, preoccupa su ampia scala studiosi e linguisti, rappresentato

dal contatto dell’italiano con le lingue “altre”, con particolare riferimento all’inglese.

Ciascuno dei processi qui brevemente descritti ha il risultato di porre il docente di fronte a una serie di questioni che riguardano essenzialmente l’educazione linguistica in quanto presupposto indispensabile a qualsivoglia percorso di multidisciplinarietà e trasversalità didattica. Questioni sicura- mente non nuove o originali, ma con altrettanta certezza non superate o risolte: a quali caratteristiche dare predominanza nel processo di insegna- mento? Fino a che punto presentare come “naturali”, e dunque praticabili, fenomeni che comunque determinano mutamenti in gran parte irreversibili nel patrimonio linguistico e negli usi possibili della lingua?

Questi interrogativi aumentano il loro peso se vengono riferiti al rap- porto, cui già si è fatto cenno, che l’italiano mantiene con la lingua inglese: vi è addirittura chi ha parlato di morbus anglicus, intendendo con questo riferirsi nello specifico al ricorso assai frequente, e assai spesso immotiva- to (e dunque deleterio), che i “nuovi” utenti della lingua italiana (che coin- cidono in grossa parte con gli alunni cui il corpo docente deve rivolgersi) fanno a parole, frasi e sintagmi di questa lingua, pur avendo a disposizione gli esatti corrispettivi italiani, tutti – per usare un’espressione “forte” – in corso di validità, dunque non prossimi all’obsolescenza. Una vera e propria malattia con cui i docenti di discipline italianistiche (ma non solo) devono confrontarsi costantemente, e con la quale rapportarsi in modo pacifico e didatticamente costruttivo non è semplice come sembra (il rischio più fre- quente, per il docente che opponga resistenza all’uso ripetuto di anglicismi, è quello di apparire egli stesso “votato all’obsolescenza”, con tutte le ri- percussioni immaginabili nel processo didattico) (cfr. almeno http://sspina. blogspot.it/2015/03/60-anglicismi-nella-stampa-italiana-dal.html).

Tuttavia, anche senza entrare nel merito dell’invasione degli stranieri- smi, il docente di italiano si trova, oggi, a dover rendere conto di fenomeni linguistici che, sebbene non sanciti normativamente, hanno con tutta evi- denza preso il sopravvento, imponendosi, quasi, rispetto a quanto previsto, appunto, da un neostandard normativo. Fenomeni come il “che polivalente” (reso quasi un canone poetico, quest’ultimo, poiché a più riprese rinvenuto in testi di cantautori contemporanei: “voglio una vita spericolata, voglio una vita che non è mai tardi, di quelle che non dormi mai”, cantava ad esempio Vasco Rossi già nel 1983; e non ci spingiamo qui ad esaminare i casi di che polivalente rinvenuti addirittura in opere quali Il convivio o Il

canzoniere); l’uso dei pronomi oggetto lui, lei, loro come pronomi ogget-

to, reso “legale” già dal Manzoni dei Promessi sposi; il pronome gli usato come plurivalente (non solo con il valore di “a lui”, ma anche di “a lei” o “a loro”); le complesse particolarità della morfologia nominale (nei casi in cui, ad esempio, uno stesso significante viene declinato al maschile e al femminile e spiegato con accezioni differenti) – fenomeni di questo genere,

si diceva, non sempre sono accettati come “normali” evoluzioni d’uso da parte degli studenti, e viceversa non è sempre facile nemmeno spiegare perché il loro uso “ad oltranza” non è esattamente un motivo di vanto, per un parlante madrelingua.

Il discorso si complica ulteriormente quando dalla dimensione della lingua parlata si passa a quella, già di per sé più complessa, della lingua scritta: più complessa perché legata a più stretto nodo al rispetto dei canoni formali (e proprio per questo più stabile, meno “malleabile”). Passare dalla lingua orale a quella scritta comporta spesso un ragionamento in termini di “o bianco o nero”: ovvero, il docente si trova a dover decretare senza possibilità di esitazioni o ripensamenti cosa sia giusto e cosa sia sbagliato nell’uso linguistico. Questo, almeno, è quello che prevederebbe la gram- matica cosiddetta normativa, quella che più fedelmente aderisce al rispetto, senza eccezioni, del sostrato formale della lingua. A ben guardare, però, questo tipo di prospettiva, data la sua connotazione forse eccessivamente “categorica”, finisce per riportare la riflessione linguistica allo status quo antecedente – per trovare un riferimento documentale – alla formulazio- ne delle Dieci Tesi e alla conseguente riforma della grammatica (Loduca, 2016). Sarebbe forse preferibile – ed è questo che il percorso di aggiorna- mento tracciato dalla rete dei Lincei suggerisce esplicitamente – adottare, nei confronti delle dimensioni, già di per sé problematiche, dell’errore e dello sbaglio, un approccio “medio”: ovvero, per dirla ancora con le parole di Coluccia trovare una sorta di “zona grigia”:

Tra l’uso linguistico sicuramente corretto e quello sicuramente sbagliato esiste una “zona grigia” caratterizzata da oscillazioni reali anche notevoli, intorno alla cui praticabilità gli utenti manifestano notevoli incertezze. Quindi, tripartizione piut- tosto che bipolarità. La lingua non è un tribunale ma piuttosto una piazza, nel- la quale si muovono persone diversamente vestite e in diverso atteggiamento (…).

La strada più produttivamente praticabile sarebbe dunque quella di valutare l’accettabilità di alcuni fenomeni (quali quelli poc’anzi menzionati ad esempio), oltre che in base alla variabile cosiddetta diastratica – ovvero la variabile riconducibile al livello di lingua adoperato – anche tenendo conto di una sensibilità collettiva dei parlanti, che non di rado non sembra dipendere tanto dallo status sociale quanto piuttosto da una costante e con- sapevole (dunque sensibile, come si diceva) esposizione alla lingua viva, nelle sue forme di oralità (formalizzata e non) e di scrittura.

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