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Oggetto e modalità di assunzione della prova relativa alla partecipazione all’opera rieducativa

CAPITOLO III Profili processual

3. Oggetto e modalità di assunzione della prova relativa alla partecipazione all’opera rieducativa

Ad oggi tende a prevalere il numero di condannati che accedono alle misure alternative direttamente dallo stato di libertà. Una prevalenza ancor più schiacciante in seguito alla legge 9 agosto 2013, n. 94, di conversione al decreto legge 1 luglio 2013, n. 78, che ha aperto la possibilità di chiedere la riduzione di pena prima di entrare in carcere.

Comunque sia, ai sensi dell’art. 54 O.P., presupposto probatorio per la concessione della liberazione anticipata, rimane la partecipazione all’opera rieducativa, quindi, più in generale, l’osservazione e il trattamento.

Anche qui si deve distinguere tra condannato detenuto e condannato libero. Nel primo caso, agevolmente, il magistrato di sorveglianza dovrà ricercare la prova relativa alla condotta tenuta in carcere per accertare se il comportamento del detenuto è rispettoso degli obblighi penitenziari e delle regole di condotta imposte dall’istituto.

                                                                                                                         

A questi fini, viene in rilievo, innanzitutto, tutta la documentazione predisposta dall’equìpe in cui sono sintetizzati i risultati dell’osservazione scientifica della personalità integrata, all’occorrenza, dalla consulenza dei tecnici del trattamento. Trattasi di un prova specifica, di cui il legislatore ne ha previsto l’obbligatorietà dell’acquisizione, esulando perciò la stessa dai canoni previsi all’art. 190 c.p.p142.

Anzi si deve ritenere che tale mezzo di prova sia di per sé idoneo a fondare la decisione del giudice.

L’art. 678, 2° co. c.p.p., parla in modo generico di “documentazione”, lasciando aperte le porte ad interpretazioni contrastanti in ordine alla possibilità per il giudice, di acquisire la relazione di sintesi, oppure all’obbligatorietà di assumere l’intera cartella personale dell’interessato.

La soluzione accolta dalla giurisprudenza di legittimità, propende per la sufficienza della relazione di sintesi che ha il pregio di offrire un quadro globale del soggetto, senza addentrarsi, peraltro, in profili specifici che comunque il giudice non sarebbe in grado di comprendere per mancanza di competenze.

Parte della dottrina sottolinea come, tuttavia, la seconda soluzione appaia più convincente sotto più punti di vista: nella relazione di sintesi, infatti, i profili valutativi finiscono inevitabilmente con il prevalere su quelli descrittivi; nella

                                                                                                                         

142   Testualmente   l’art   678,   2°   co.   <<Quando   si   procede   nei   confronti   di   persona   sottoposta   a  

osservazione  scientifica  della  personalità,  il  giudice  acquisisce  la  relativa  documentazione  e  si  avvale,   se  occorre,  della  consulenza  dei  tecnici  del  trattamento>>.  Il  legislatore  in  questo  caso  ha  sottratto  il   giudizio  di  necessità,  rilevanza  ed  ammissibilità  al  giudice,  imponendolo  per  legge.  

relazione conclusiva possono mancare dati fattuali che il giudice potrebbe invece reputare rilevanti, soprattutto quando il soggetto è stato posto a lunga carcerazione ed è stato ospitato in diversi istituti143; inoltre, il quadro estremamente sintetico del profilo del detenuto emergente dalla relazione, rischia di sterilizzare il contributo argomentativo del difensore e del pubblico ministero in udienza, soprattutto tenendo conto del fatto che dalla relazione non emergono eventuali disaccordi tra i diversi operatori trattamentali.

In terzo luogo, ad avallare questa impostazione in una visione sistematica, vi sono due dati normativi da prendere in considerazione: lo stesso art. 678, 2° co., che parla di documentazione, non di singoli documenti; se si attribuisce qui lo stesso significato che alla parola viene dato all’art. 134 c.p.p., è corretto ipotizzare che il legislatore abbia sottolineato l’esigenza per il giudice, di avere di fronte a sé un quadro quanto più ampio possibile; inoltre, la normativa in materia di misure destinate a tossicodipendenti e a soggetti affetti da deficienze immunitarie, richiedendo certificazioni144 dotate di un alto tasso di analiticità, è sintomo della volontà del legislatore di imporre l’acquisizione di tutti i dati elaborati in fase di monitoraggio delle condizioni del soggetto. Ciò sarebbe una conferma della voluntas legis orientata a garantire una piattaforma probatoria estesa e approfondita, anziché come una deroga alle regole probatorie ordinarie dettata dallo specifico oggetto di trattazione145.

                                                                                                                         

143  Cass.  Sez.  I,  27  ottobre  1993,  Fornaciari,  in  Cass.pen.  1995,  pag.  400.  

144  Si  veda,  ad  es.,  l’art  47  quater  2°  co.  O.P.,  oppure  gli  artt.  90  co.  4°  e  94  co.  1°  TU  Stup..  

145  Cfr.  M.Ruaro,  Trattato  di  procedura  penale,  volume  VIII,  La  magistratura  di  sorveglianza,  Milano  

Un’impostazione eccessivamente analitica, tuttavia, potrebbe alla situazione negativa per cui, fornendo gli operatori valutazioni oltremodo approfondite sulla personalità, arrivino ad anticipare il giudizio di meritevolezza, mentre il magistrato di sorveglianza verrebbe relegato al ruolo di controllo meramente logico - formale del giudizio personologico formato da altri.; questo in quanto, la cartella personale “include necessariamente la prova completa circa il fatto modificativo”146.

A questo punto resta da chiedersi: quid est nel caso in cui la documentazione dia atto che, a causa di carenze organizzative non è stato possibile completare l’attività di osservazione e trattamento?.

La questione è di estrema attualità, oggi in ben rari casi l’amministrazione penitenziaria è in grado di fornire un’adeguata osservazione e un’adeguata offerta trattamentale. Il giudice potrebbe rigettare l’istanza, rendendo responsabile l’interessato dei deficit penitenziari, oppure potrebbe accoglierla accontentandosi dell’assenza di rilievi disciplinari; meglio ancora, potrebbe operare un’istruttoria più avanzata, stante la possibilità di raccogliere altri elementi di prova, con ampia discrezionalità e senza vincoli di forma. La soluzione appena prospettata si rivela quella più in linea al fine di pervenire ad una decisione più giusta possibile.

Procedendo con l’analisi, resta da definire il contenuto della prova della partecipazione all’opera rieducativa nel caso di detenzione extra moenia.

                                                                                                                         

146   Vedi   E.Somma,   La   “giurisdizionalizzazione”   dell’esecuzione.   Processo   penale   e   processo   di   sorveglianza,  in  Pene  e  misure  alternative  nell’attuale  momento  storico,  A.A.,  Milano  1977,  pag.  184.  

Mancando in questa ipotesi l’attività specifica di osservazione e trattamento, è necessario il ricorso a prove differenti; verrà, quindi, data efficacia probatoria, non solo e non tanto alla documentazione fornita al giudice, ma anche alla prova orale da formare nel corso del procedimento.

La Corte costituzionale ha purtuttavia equiparato la detenzione carceraria ed extracarceraria quanto a onere probatorio e contropartita per la partecipazione all’opera di rieducazione. Nella sentenza 16 luglio 1991, n. 352, sovracitata, ha affermato il principio, di valenza generale, tale per cui il <<contenuto di

meritorietà della condotta suscettibile di dar luogo alla riduzione di pena, sia riguardato dal legislatore in termini di sostanziale omogeneità quanto ai relativi parametri di valutazione, pur se ampiamente diversificate possono in concreto apparire le situazioni di fatto alla cui stregua operare un simile apprezzamento (…) Essendo la detrazione di pena rivolta al fine di consentire un più efficace reinserimento del condannato nella società, e dovendo questi fornire la prova di partecipazione all’opera di rieducazione, starà al giudice valutare se nel comportamento serbato dall’interessato nel corso della custodia cautelare possano essere rinvenuti quegli elementi che la giurisprudenza indica come sintomatici della evoluzione della personalità verso modelli socialmente validi>>147.

Pertanto, afferma la Corte, <<i medesimi criteri di valutazione e gli stessi

parametri di riferimento alla cui stregua il giudice ritiene provata la

                                                                                                                         

147   Vedi   punto   4   e   5   del   “considerato   in   diritto”,   Corte   cost.,   sent.   16   luglio   1991,   n.   352,   in  

partecipazione del condannato alle opportunità offertegli nel corso del trattamento penitenziario, devono valere anche agli effetti della omologa delibazione che il giudice stesso è chiamato a compiere circa la condotta mantenuta dall’interessato nel corso della custodia cautelare, restando comunque salva la più ampia possibilità di acquisizione degli elementi di fatto sui quali tale apprezzamento deve oggettivamente fondarsi>>.

Nel caso di detenzione extramuraria, quindi, la prova della partecipazione, potrà essere sodisfatta facendo riferimento alle informazioni della polizia e alle inchieste socio-familiari svolte dal servizio sociale. Meno complete le prime, risolvendosi semplicemente nell’elencazione di denunce o condanne, le seconde, che potenzialmente sarebbero più complete ed idonee a fondare un giudizio, sono vanificate dal fatto che vengono formulate o pervengono con scarsa tempestività. Ciò porta inevitabilmente a rimettere il giudizio al potere discrezionale del magistrato di sorveglianza; nella prassi ciò significa che alla base della valutazione sulla prova, venga posta la buona condotta, ovverosia la assenza di recidiva, di pendenze penali, di infrazioni disciplinari e via dicendo. In aggiunta allo scarso contenuto in ordine al quale si ritiene raggiunta la prova, si tenga a mente che l’annosa durata dei processi, fa scattare a favore del soggetto che si presenta davanti all’organo di sorveglianza a distanza di anni dalla commissione del fatto di reato, una presunzione iuris tantum del mutamento della personalità.

Con riferimento all’art. 47 co. 12 bis O.P., poi, la prova di un concreto recupero sociale, desumibile da comportamenti rivelatori della evoluzione in positivo della personalità, resta da dire che essa si sostanzi negli stessi termini di cui sopra.

Passando all’analisi della modalità di assunzione della prova, il magistrato di sorveglianza acquisisce la documentazione relativa all’interessato, chiedendo, se lo ritiene necessario, parere a tecnici del trattamento, che possono intervenire anche per iscritto. Per dottrina concorde, si deve ritenere che non sussistano limiti ai mezzi di prova, per cui il giudice potrà muoversi liberamente, con l’unico limite dato dal minimo di garanzie che devono coesistere nella formazione dialettica della prova. Da ciò, peraltro, se ne deduce, che essendo il procedimento di sorveglianza concepito de plano, ossia in assenza di contraddittorio, il magistrato di sorveglianza non potrà assumere prove che invece lo richiedano. Ne potrebbe derivare, pertanto, un giudizio probabilmente inadeguato, in quanto fondato su un materiale probatorio che nel concreto potrebbe risultare scarno. Ecco perché, la Corte di cassazione ha precisato come in sede di reclamo, il tribunale di sorveglianza è investito ex novo della questione, non sussistendo limiti alle prove, in quanto viene qui soddisfatta la garanzia del contradditorio; nel procedimento di sorveglianza <<ben possono essere valutati i fatti storicamente accertati che possono

dimostrare che non sussistono le condizioni per fruire del beneficio penitenziario>>148.

Una previsione particolare è dettata dall’art. 4 bis, comma 3 bis O.P..

La particolarità è data dal fatto che, mentre nel primo comma si prevedono divieti relativi ai benefici penitenziari, esclusa la liberazione anticipata, nel comma 3 bis, invece si richiamano genericamente le misure alternative alla detenzione previste dal capo VI, prescrivendo che queste non possano essere concesse ai detenuti o internati per delitti dolosi, quando il procuratore antimafia, nazionale o distrettuale, comunica l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata.

Le ipotesi prospettabile sono due: o si ritiene comunque esclusa, superando il dato letterale, la liberazione anticipata, non ritenendola, in realtà una misura alternativa alla detenzione, e quindi, concedendola anche quando sussistano legami con la criminalità organizzata; oppure il contrario. In base a quest’ultima impostazione, si esclude, correttamente, che la specifica disciplina di cui al comma 1°, da deroga possa diventare una norma di carattere generale; si esclude anche l’ipotesi opposta, ovverosia che attribuendo in via di interpretazione alla norma generale lo stesso contenuto dell’eccezione, la vanifichi. La Corte di cassazione, i più occasioni, ha osservato come, secondo i canoni interpretativi dell’art. 14 delle preleggi, in assenza di deroghe espresse, non sia concepibile una diversità di trattamento

                                                                                                                         

148  Cass.  Sez.  I,  19  febbraio  2001,  n.  6715,  in  www.normattiva.it  

per alcune misure previste dall’art. 4 bis O.P.; pertanto, il divieto di cui al comma 3 bis, opera anche per la liberazione anticipata149

Quindi analizzando la norma in commento, essa costituisce una ipotesi di esclusione del beneficio della libertà anticipata. Il presupposto è l’esistenza di attuali collegamenti con la criminalità organizzata, che forma oggetto dell’informativa che il procuratore antimafia trasmette al magistrato di sorveglianza. in particolare, la comunicazione dà notizia della sussistenza di un comportamento contrario a quello partecipativo richiesto dall’art. 54 O.P., affinché il magistrato di sorveglianza rigetti l’istanza di liberazione anticipata. Peraltro, il giudice non è vincolato in toto dalla comunicazione del procuratore: di per se essa si sostanzia in una informazione che non esclude la concessione del beneficio, permanendo l’obbligo dell’organo di sorveglianza, di acquisire gli elementi di cui all’art. 678, co. 2 c.p.p..

Una lettura portata all’automatismo del divieto di concessione, introdurrebbe una ingiustificabile pregiudiziale, attribuendo un diritto di veto in capo al procuratore nazionale o distrettuale antimafia, e subordinando l’attività del potere giurisdizionale, destinato ad incidere sulla libertà personale, ad una semplice comunicazione; contro ogni garantismo giurisdizionale fissato dalla Costituzione.

L’attribuzione del dovere di comunicazione da parte del procuratore antimafia, su iniziativa o su segnalazione del comitato provinciale

                                                                                                                         

149    Cass.  Sez  I,  18  giugno  1993,  Pernorio,  in  Cass.pen.  1994,  pag.  1947.  Conforme  Cass.  Sez  I,  11    

dicembre  2003,  dep.il  27  gennaio  2004,  in  www.normattiva.it    

per l’ordine e la sicurezza pubblica, si giustifica per il fatto che essi sono gli stessi organi che sono massimamente in formati in materia150.

4. La decisione

Sull’istanza di liberazione anticipata decide il magistrato di sorveglianza con ordinanza, adottata in camera di consiglio senza la presenza delle parti, comunicata o notificata senza ritardo ai soggetti di cui all’art. 127 c.p.p..

Si prevede inoltre, che la decisione non possa essere presa dal magistrato di sorveglianza, prima che siano passati almeno quindici giorni dalla richiesta del parere al pubblico ministero e anche in assenza di esso.

Avverso l’ordinanza, è prevista la facoltà di proporre reclamo entro dieci giorni, di fronte al tribunale di sorveglianza. Si apre in questa ipotesi, un ordinario procedimento di sorveglianza dove si recuperano le garanzie giurisdizionali, in primis il contraddittorio tra le parti, e nel quale l’organo che ha preso la decisione impugnata non può fare parte del collegio giudicante. Plurime sono le perplessità suscitate dalla previsione di questo procedimento irrituale di cui all’art. 69 bis O.P..

Intanto, l’opzione legislativa diretta alla previsione di un procedimento de plano, volto a semplicità e snellezza delle forme, non è poi riscontrata rispetto alla forma che deve assumere la decisione; in altre parole sarebbe stato più appropriata la previsione di una decisione sotto forma di decreto motivato.

                                                                                                                         

Sul piano applicativo, poi, suscita curiosità la previsione di quindici giorni dalla richiesta del parere al pubblico ministero, prima di poter prendere una decisione: un termine più lungo di quello previsto perentoriamente per proporre reclamo avverso l’ordinanza che definisce il procedimento; altrettanto lungo se si tiene conto del fatto che il condannato potrebbe già aver scontato l’intera pena, comprendendo l’eventuale riduzione, e invece si trova costretto in istituto penitenziario in attesa di un tempo che si presume necessario in vista di un parere che potrebbe anche non essere concesso151. Sul piano, inoltre, delle garanzie costituzionali, non si può fare a meno di notare che un procedimento de plano non lascia un minimo spazio al contradditorio tra le parti. La Corte costituzionale, ha peraltro salvato il dettato normativo, non ritenendolo una lesione al diritto di difesa tra le parti, in quanto, il fulcro del giusto processo se è vero che manca nel giudizio del magistrato di sorveglianza, lasciando più spazio in questo primo momento all’altrettanto principio costituzionale di economia processuale, viene pienamente recuperato in sede di reclamo. Pertanto, a parità di tutela rispetto al sistema previgente, si è aggiunta la possibilità di una decisione anticipata e rapida, capace, comunque, di dar luogo ad un contradditorio eventuale e differito152.

Un altro problema applicativo, riguarda il regime di esecutorietà del provvedimento. In mancanza di una previsione ad hoc, l’unico elemento per

                                                                                                                         

151   Vedi   F.P.C.   Iovino,   op.cit.,   pag.   246;   si   veda   anche   M.Canepa,   S.Merlo,   Manuale   di   diritto   penitenziario,  cit.  ,  pag.  565.  

ritenere che l’ordinanza sia immediatamente esecutiva, è intendere il richiamo operato dal 1° comma dell’art. 69 bis, come implicitamente riferito anche all’8° comma dell’art. 127 c.p.p153.

Il condannato non ha diritto ad essere informato dell’avvio del procedimento, stante l’unico obbligo per il magistrato di sorveglianza, di avvisare, attraverso la richiesta di un parere, il pubblico ministero. ben potrebbe darsi, quindi, la situazione in cui il destinatario della decisione, che non abbia egli stesso proposto l’istanza, venga a conoscenza del procedimento, solo quando questo sia terminato; ovverosia, quando l’ordinanza, depositata in cancelleria, è comunicata a cura della stessa alle parti.

Entro dieci giorni dalla comunicazione o notificazione dell’ordinanza, il pubblico ministero, il condannato, il difensore e le altre parti interessate, cioè quelle che avrebbero potuto promuovere l’azione( con l’ovvia esclusione di un reclamo ex officio), possono proporre reclamo dinanzi al tribunale di sorveglianza competente. Prima di analizzare la procedura con cui l’organo collegiale decide, è necessario individuare la natura del reclamo.

A tal proposito, si sottolinea come sia difficoltoso l’inquadramento sistematico di questa categoria, dovuto all’assenza di solide coordinate normative; pertanto si deve ricercarlo attraverso un lavoro interpretativo che tenga conto della ragion d’essere dell’istituto, onde evitare conseguenze disfunzionali.

                                                                                                                         

153  Testualmente  l’art.  127  c.p.p.<<il  ricorso  non  sospende  l’esecuzione  dell’ordinanza,  a  meno  che  il   giudice  che  l’ha  emessa  disponga  diversamente  con  decreto  motivato>>.  

Ricorrendo ad un’argomentazione teleologica, si può innanzitutto risolvere il problema relativo alla natura: dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere che il reclamo rientri tra i mezzi d’impugnazione, essendo, quindi, necessaria l’enunciazione di motivi, pena l’inammissibilità. Questo, in quanto, delimitando il potere cognitivo del giudice ad quem, si salvaguarda il principio di ragionevole durata dl processo; il tutto confermato dalla previsione, nel procedimento di sorveglianza, di un filtro preliminare finalizzato alla valutazione della non manifesta infondatezza dell’opposizione.

Avverso il decreto di inammissibilità, adottato dal presidente del tribunale di sorveglianza, è proponibile ricorso entro quindici giorni.

Quando il reclamo non sia ritenuto manifestamente inammissibile, il presidente del tribunale fissa l’udienza camerale con decreto che deve essere notificato o comunicato agli aventi diritto. Si apre così il procedimento di sorveglianza, disciplinato dagli artt. 666 e 678 c.p.p..

L’art. 69 bis O.P. fa divieto al magistrato di sorveglianza che ha adottato l’ordinanza impugnata, di comporre il collegio giudicante.

Tale divieto si giustifica, dal punto di vista formale, dalla sua strutturazione in forma non giurisdizionale; da un punto di vista sostanziale, comunque, a prescindere dal carattere non giurisdizionale e dalla forma di ordinanza della decisione, il contenuto è quello della sentenza, in quanto idonea a definire il giudizio, ed a produrre, se non impugnata, gli effetti preclusivi del giudicato.

È pertanto in linea con le scelte ordinamentali di tutela della imparzialità, indipendenza e terzietà del giudice154, la mossa legislativa di esclusione.

La presenza del condannato all’udienza non si rivela necessaria ai fini dell’ammissibilità della richiesta, non potendo, nel caso della liberazione anticipata, nemmeno essere considerata sintomatica di un disinteresse ai fini della misura; in quella sede è difatti richiesto un giudizio su fatti pregressi più che sulla persona.

Nel procedimento di reclamo, in tribunale ha una cognizione piena, senza limiti per li eventuali motivi proposti. Anche nel procedimento di sorveglianza, sono poste norme finalizzate alla speditezza; viene ad esempio riconosciuto al presidente del collegio, il potere di acquisire la documentazione ex art. 678 2° co., in corso di udienza, in contraddittorio tra le parti. Parallelamente, il collegio, può, anche su impulso di parte, chiederne l’integrazione.

La decisione presa dal tribunale assume la forma di ordinanza motivata, che può essere redatta dal presidente del collegio, dal magistrato di sorveglianza a latere, ma anche, in base ad un circolare del CSM, da uno dei due membri laici. La Corte di cassazione, ha precisato, che le argomentazioni posta a fondamento della decisone, devono essere specifiche, concrete e non si devono risolvere in meri rinvii alle informazioni assunte155.

                                                                                                                         

154  Corte  cost.  sent.  12  novembre  1991,  n.  401,  in  Giur.cost.  1991,  pag.  3487.   155  Cass.  Sez  I,  27  ottobre  1994,  Bonicoli,  in  Cass.pen.  1994,  pag.  3109.