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utti i ragazzi a quell’epoca, finita la scuola, andavano a fare il pasto-rello. Io ero il più giovane dei miei fratelli, avevo 10 anni e adesso era giunto il mio turno. Abitavo a Stampa nella casa oggigiorno abitata dai signori Rodolfo Fasciati e Anna Giacometti.

I miei genitori avevano trovato per me un po-sto di papo-storello presso la famiglia contadina di Rogantini Giovanni a Borgonovo. Dovevo incominciare il 10 giugno.

Prima della partenza chiedevo a mia madre del-le informazioni su come fare il viaggio fino al maggese di Isola, perché io non v’ero mai stato.

La mamma la sera prima della partenza, venne vicino a me e mi volle spiegare il viaggio per Isola. La sua mano mi accarezzava i capelli, le sue parole erano pronunciate con una voce stra-na che non pareva la sua. Io mi sentivo venire il magone. Quando ebbi ascoltato tutti i suoi consigli le chiesi; “Mi hai parlato del lago di Maloja che costeggia la strada per arrivare a Isola, ma il lago di Maloja è più grande della nosta fontana?”

Lei mi guardò con uno sguardo bonario e aprendo le braccia mi disse: ”Ma piccolo mio, il lago è grandissimo, ci vanno le barche e la barca a motore, “al Vapurin”.

Il babbo mi raccomandò di comportarmi bene ed ubbidire, se non volevo perdere il posto.

Dopo tutte queste raccomandazioni dei geni-tori, la mamma disse: “Ti preparo il sacco con i tuo vestiti.”

La mattina del 10 giugno la diana fu alle ore 4.00. Il babbo mi chiamò, mi alzai, mi vestii e fui pronto per la partenza. Salutati mamma e babbo, partii.

Scendendo le scale con le mie scarpe chiodate

sentivo il rimbombo malinconico nel corri-doio, misi la mano sulla maniglia della porta per aprirla, mi pareva che non riuscissi a farlo.

Salendo la strada della Stampa, ogni dieci metri mi rivoltavo indietro, vedevo le braccia del babbo coperte da un bella camicia blu con righette bianche che mi salutava come per dirmi arrivederci. Arrivato in cima alla Stampa il bel colore blu della camicia si confondeva con un colore grigio e le braccia si muovevano lentamente.

Io rivolsi lo sguardo su tutte le case che vedevo:

quella della Sina, della Savina, dei genitorie dell’Emilia dando loro un saluto a modo mio.

Passata la vecchia scuola della Stampa mi voltai di nuovo, ma il mio paese di Stampa non si vedeva più, restava coperto dal muro dell’orto di Ada Clalüna.

Mi incamminai per Borgonovo, la mia prima meta. Passando sotto il muro del cimitero di San Giorgio, lungo la vecchia strada, accarezzavo con le mani l’intonaco del muro e volevo dare un saluto ai poveri morti, il nonno e la nonna.

Arrivato a Borgonovo, il paese del Giuanin, sa-lendo la strada fino alla casa della allora Elvezia Michel, scesi giù per la rampa che portava alla casa dei Rogantini.

La porta della casa era di colore verde-oliva e aveva una maniglia di ottone. Misi la mano sulla manigla e aprii la porta, i pollici fecero un grande cigolìo, mi fermai e dopo continuai.

Arrivato vicino alla cucina si sentivano voci di donne e uomini, bussai con grande delicatezza alla porta. Sentii rispondere un coro di voci, che mi diede l’impressione di sentire suonare assieme tutte le campane.

Risposero tutti in bregagliotto: “Vegn ent, vegn ent.”

183 Entrai impappinato e diedi il buongiorno a

tutta la compagnia. Mi si presentò il Giuanin, il capo famiglia, una persona grande con una faccia scura, ma bonaria e due baffi grigi e mi disse: “Vegn al me pastrett.”

Siamo poi scesi nella stalla, dove mi raccontò cosa dovevo fare. Mi chiese se sapevo dove era Isola. Mi feci forte e risposi di sì. ”Bene, tu vai con le capre fino a Isola.”

Le capre, non mi ricordo più bene, credo erano circa15. Sciolsi le capre dalle catene e le feci uscire dalla stalla. Dissi al Giuanin: “Io me ne vado.”

Lui rispose: “Vai pure.”

Lasciato Borgonovo, salii verso Vicosoprano, dove ho visto qualche contadino che tornava dalla latteria. Continuai fino a Casaccia, tutto andò per il meglio, le capre andavano bene, io mi sentivo in forza. Partii verso Cavril e lì incominciò la salita del passo del Maloja. Ar-rivato circa in cima al passo, dove c’è la strada che porta a Orden, la colomba, una capra metà bianca e metà nera, si mise in ginocchio in mezzo alla strada. La capra era molto anziana, aveva circa 14 o 15 anni. Cosa potevo fare?

Vedo ancora oggi lo sguardo della colomba che mi pareva volesse dire: “Dovevi andare più piano. Le altre capre si erano allontanate e andavano in direzione delle palü del Kulm.

Il traffico stradale allora non c’era, io non ho visto neanche una macchina passare e mi sono messo anch’io a sedere sul muro del parapetto della strada.

Guardavo la povera colomba in mezzo alla strada che pareva una vecchietta che pregava. Guarda-vo le montagne: il Lunghin, il Lizun e la valle Maroz, uno splendido panorama. C’era una quiete unica, ad un tratto sentii i campannelli del cavallo del Giuanin. Salii in piedi sul muro del parapetto per vedere se vedevo il cavallo venire. Si sentivano questi suoni armoniosi delle capanelle, una sensazione unica potersi ricordare un passo del Maloja senza rumori.

Dopo un po’ di questo scenario di fiabe arrivò il Giuanin.

“Cosa è successo?”

Gli risposi con voce fioca: ”La colomba non cammina più.”

“Vieni qua, facciamo un po’ di posto e la met-tiamo sul carro dei fagotti.”

Mettemmo la colomba sul carro, e lui mi chie-se: “E le altre capre dove sono?”

Non lo sapevo esattamente e lui mi disse:” Va’

subito a vedere.”

Io mi inviai dove avevo visto le capre per l’ul-tima volta verso le paludi del Kulm.

Arrivato sui prati, vidi un’ultima capra in fondo al bosco che saliva. Mi misi a corre per raggiungerla. Le altre avevano preso il bosco.

Tirai assieme le capre e le feci andare fino in cima al bosco, pensando che le capre sapessero la strada per Isola. Arrivato in cima, vidi dall’al-to il lago, mi fermai meravigliadall’al-to a guardarlo, subito mi ricordai le spiegazioni della mamma che la strada per Isola fiancheggiava il lago.

Passai con le capre vicino alle prese dell’acqua del comune di Stampa, andai verso il Sasc Blanch e scesi verso la strada al Plan da Disla.

Giunto sulla strada di Isola, arrivava il Giuanin con il cavallo. Dal Plan da Disla vidi le casette di Isola tutte raggruppate, come un gregge di pecore, io mi sentivo contento.

Arrivato a Isola, intorno alle ore 14, scaricam-mo i fagotti, e mettemscaricam-mo le capre nella stalla.

La padrona, signora Pia Rogantini, una donna in età già avanzata che veniva da Sassuolo in Italia e parlava con un accento po, po che per me era estraneo, mi fece vedere la mia stanza per dormire.

La casa di Isola non aveva l’acqua, né la luce e solo un gabinetto a sbalzo.

La sera, al tramonto, guardavo il lago: mi metteva una nostalgia enorme.

Venne la notte e andai a dormire. La mia stanza era in una vecchia cucina, con la cappa del camino e uno zoccolo in pietra, dove giaceva una bissaca, (la bissaca è una fodera di panno, imbottita di foglie di pannocchie).

Armadio non ce n’era, c’era uno sgabello per mettere i vestiti, il resto restava nel sacco appeso a un chiodo. Tutto era oscuro, una piccola fi-nestrina, sul muro di facciata con una inferriata a croce portava, un pochino di luce.

Mi spogliai, preparai la bissacca, facendo una piccola nicchia per dormirci. Io avevo pure a casa un simile letto e conoscevo il procedi-mento.

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Mi coricai nel letto, sentivo un odore vecchio di fumo e di cucina. In principio dormii con le gambe rannichiate, come facevo a casa.

Durante la notte, allungando le gambe, sentii sulla pianta del piede qualcosa di freddo e che si muoveva. Gira e rigira, il coso nel letto non spariva. Dopo un po’ di tempo, decisi di alzarmi, non vedevo niente, levai la coperta e provai con la mano a scendere in fondo al letto.

Cosa ho scoperto?

Quando con la mano, riuscii a toccare questo coso, cominciai a capire cosa poteva essere.

Doveva essere una rana, “ün ciatt” secondo le mie conoscenze.

Lo presi con tutte e due le mani e lo lasciai partire dalla finestrina.

Dopo mi sono coricato di nuovo, perché ero stanco morto e dormii fino al mattino.

A Isola restai tutta l’estate solo con la signora Pia, gli uomini scendevono a valle a falciare il fieno e il guaime.

Il giorno dopo la sveglia non suonò, ma sentii battere tre colpi sul soffitto con il manico della scopa. Erano le ore 4.00 del mattino. Saltato fuori dal letto, mi vestii e scesi in cucina. Diedi il buongiorno, alla signora Pia che mi diede una bacinella di alluminio, con dell’acqua fredda, per andare fuori di casa, sul muretto a lavarmi.

Come lavarsi? Con le mani. Portavo l’acqua sulla faccia, come fanno i gatti.

Per asciugarmi, mi aveva dato un asciugamano, fatto con resti di stoffe di materassi, una bella stoffa decorata a strisce dai magnifici colori.

Fatto la toilette, si partì per la stalla, erano circa le ore 4.30.

Arrivati alla stalla delle capre mi disse: ”Mun-gi le capre, e dopo vieni ”Mun-giù nella stalla delle vacche e pulisci la stalla.”

Mi diede alcuni consigli su come dovevo fare a mungere.

Mi disse: “Puoi mungere a pollice o a branche.

Mungere a pollice voleva dire tenere il pollice chiuso sul palmo della mano e con le altre dita prendere la mammella e schiacciarla contro il pollice. A branche, si prendeva la mammella con tutte le quattro dita e si premevano sul palmo della mano. Pulito le mammelle, munsi a branche.

Dopo la mungitura di sette capre, presi “la

granfia” nelle mani e non riuscii più a mungere le altre. Scesi nella stalla delle vacche e dissi che io non riuscivo più a mungere. Lei mi rispose. “Pulisci la stalla, e vai dopo a finire, vedrai che va.”

Guardai fuori dalla stalla, se ci fosse una carriola per il letame. La carriola c’era, ma che carriola! Era una carriola in legno, anche la ruota era di legno e aveva un peso che era enorme. Puntai la carriola nella stalla e comiciai a caricarla di letame. La prima volta la riempii sopra la metà, avendo vicino la signora che mugeva le vacche, mi dava l’impressione che mi controllasse e io volevo fare bene il mio lavoro.

Spinsi la carriola sul letamaio, tramite una tavola, che portava al centro del letamaio.

Feci tutte le manovre possibili per arrivare in cima. La tavola era bagnata, le mie scarpe non tenevano sulla superfice liscia e bagnata.

Arrivato in cima, non sapevo come fare a svuotare la carriola. Puntai la carriola fino che la ruota scese dalla tavola. In questa posizione la carriola, restava un po’ più bassa.

Prendendo con le braccia i manici della car-riola, comiciai ad alzare la carriola con tutta la forza che avevo, ad un tratto la carriola si ribaltò nel letamaio, ma non da sola, prese con sé al pastrett dal Giuanin.

Mi sono ritrovato nel letame fresco e con una fatica enorme riuscii ad uscire. Mi alzai e vidi la signora Pia sulla soglia della stalla che mi guardava e mi disse: “Vai al fiume Drögh a lavarti. Questo accadeva circa alle ore 5.30 del mattino.

Mi incamminai, verso il fiume insudiciato di colaticco di letame e sentivo i primi galli cantare: un chichirichì che si perdeva in un cielo grigiastro.

Arrivato al fiume Drögh, sulla scogliera mi spo-gliai. Scesi giù nel fiume, mi lavai come potei in un’acqua talmente fredda che sento ancora oggi i brividi. Dopo, salii a prendere i vestiti e ritornai al fiume a riscacquarli. Alla fine dovetti rimettere di nuovo i vestiti bagnati, e continuare il lavoro: finire la stalla e mungere le capre.

Finito il tutto si passò alla colazione del mat-tino. Una colazione semplice ma con prodotti genuini. Dopo si doveva portare le mucche al pascolo, ma il lavoro continuava.

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Al “pastrett” Giorgio con una turista, Isola 1947

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In autunno, il tempo dei mirtilli, portavo con me due secchi di 10 lt che dovevo riempire.

Riempiti i secchi di mirtilli, ciascuno di 10 lt, dovevo portarli a casa – al pastrett dal Giuanin aveva solo 10 anni –, immaginatevi!

Cosa succedeva, con questi mirtilli?

Il giorno dopo la signora Pia pulito i mirtilli, li metteva nel secchio, lo strato superiore, di mirtilli freschi con la panna per dare l’impres-sione, che tutti erano così freschi.

Dopo le signore Pia e Caterina Merlo si in-camminavano fino al lago dove c’era il ponte del vaporino, io e il pastorello del Merlo, raggiungevamo il ponte del vaporino con i secchi di mirtilli. Le due signore salivano sul vaporino, prendevano i secchi pieni di mirtilli e si lasciavano portare fino a Sils presso la baracca dei barcaioli. Il pastore del Merlo ed io riprendevamo la corsa, passavamo per il pascolo Lagna che scendeva fino al lago attra-versavamo il Drögh e arrivavamo sulla stradina che da Isola portava alla baracca dei barcaioli.

Lì c’erano le due signore padrone che ci aspet-tavano. Si riprendevano i secchi, dei mirtilli e si saliva, una stradicciola di terra naturale che portava all’Hotel Waldhaus a Sils. Qui inco-minciava la scena di vendita: i due “pastrett”

si dovevano sporcare il viso per sembrare due poveracci. Le due vecchie si presentavano vestite di nero, con un fazzoletto sulla testa, una specie di burga che lasciava solo intravedere gli occhi.

Adesso veniva la scena all’entrata dell`albergo.

Le due signore anziane camminavano davanti e noi due ragazzi, a una distanza di 3 m ciascuno, per allungare “il corteo”, le seguivamo, era tutto organizzato dalle due signore.

All’entrata c’erano tanti forestieri sdraiati sulle sedie a sdraio. Ci guardavano con occhi com-mossi e si alzavano dalle sedie.

Arrivato all’interno, il signor Kinberger ci faceva entrare in una stanzetta separata dove av-veniva, la vendita dei mirtilli. Ci offriva il tè e un pezzo di torta. Le due vecchie piangevano la miseria e riempivano i secchi di piatti rovinati che non potevano più essere usati per servire i pasti ai clienti, ma che noi dovevamo riportare a Isola, dove li usavamo ancora a lungo.

Ecco ora un’altra pratica che voglio raccontarvi:

Quando si andava con le mucche lungo la

strada del bosco di Isola venivano pure la Pia e la Caterina e ci insegnavano come dovevamo fare per raccogliere la legna.

Di legna per terra non se ne trovava a quei tempi, il bosco era tutto pulito.

Le due vecchie giravano prima il bosco in lungo e in largo e cercavano dove le piante avevano dei rami secchi. Dopo, fatto il loro giro, ci chiamavano.

Adesso si passava all’azione. Come levare i rami dagli alberi?

Le due anziane donne avevano in tasca un gomitolo di corda e un coltellino, si allontana-vano dalla pianta, per circa 10 m e guardaallontana-vano.

Tagliavano dal gomitolo la corda che circa ci voleva e noi pastorelli dovevamo cercare un sas-so per poi legarlo ad una estremità della corda.

Fatto questo, si passava al tiro; si doveva tirare il sasso sul ramo secco, dove loro ci avevano detto. Non tutte le volte funzionava, ma se funzionava, il sasso girava diverse volte attor-no al ramo secco e la corda si fissava al ramo.

Fissata la corda al ramo, si doveva tirare la corda e cercare di rompere il ramo. Se si aveva la fortuna di romperlo subito, il lavoro era finito, altrimenti ci venivano in aiuto le due vecchie a tirare fino alla rottura. Io penso che oggigiorno non vedremo più di queste belle scene nei boschi.

Passata la stagione d’estate, in autunno, ci preparammo per la partenza verso valle.

Mettemmo via tutti gli attrezzi per bene.

Chiudemmo le persiane di legno, quelle del piano terreno, le coprimmo di letame fresco affinché l’acqua non potesse entrare. Fatto questa procedura, demmo un’occhiata al tutto e partimmo per Borgonovo.

Arrivato a Borgonovo, la sera al Giuvanin mi chiamò e mi disse: “Adesso ti do la tua paga.”

La paga per tutta l’estate consisteva di 30 fran-chi e una formaggella che io ho messo nel mio sacco. Quindi salutai al Giuanin e la Pia che mi dissero: “Ün altr’an, vegn pö anca.”

Ho potuto impare tanti trucchi dalle nostre due astute e simpatiche vecchiette. Questo accadeva nel 1947.

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