l vento scivola sulle mie gote, un poco arrossate dal fresco di prima-vera, mentre osservo una semplice lapide che porta una semplice scritta: Theodor… †1947.
È morto non molti anni fa, Theodor, poco dopo la fine della Guerra. In parte, ci siamo resi complici della stessa avventura verso l’ignoto, spinti da chissà quale segreta forza che nei duri momenti sollevano l’uomo e lo conducono ad affrontare picchi e vette innevate.
Ti conobbi per destino, credo io, ti incontrai per puro caso, forse, ma ora che osservo la lapide quieta che giace ai miei piedi, non posso che ricordare di nuovo con un sorriso quelle poche ore che ci concedemmo sul s. Iorio, appena fuggite le guardie di frontiera italiane, dopo il mio grido ribelle nell’oscurità. allora ti lasciarono andare, i cani rognosi, e tu cedesti a terra, col peso della fatica sull’unico arto sano che ti sosteneva ancora. Ridemmo a lungo per lo stratagemma che ti salvò la vita, allora.
ero un povero uomo, e la mia maria, figlia coi due nipotini ancora piccoli, troppo soffriva la fame, la paura, la solitudine per la mobilitazione che aveva coinvolto tutti gli uomini maggiorenni abili al combattimento, spingendoli a difesa di quei brandelli di terreno lungo il confine svizzero.
la sera del 28 aprile 1945, emaciata e debole, probabilmente con la febbre, ma soprattutto denutrita come i tuoi figlioletti, ti lasciai nel letto e decisi di tentare l’impresa.
– Vado da Gianpiero s. – le dissi ad un certo punto.
– Cosa? – rispose lei impaurita, facendo leva un poco sui gomiti. – sei impazzito?
– non abbiamo altra possibilità – risposi.
– sei troppo vecchio per tentare – mi disse lei. – non andare, ti prego! – mi supplicò ancora. – Ce la faremo lo stesso. la febbre mi sta già passando e potremo continuare a dissodare i nostri terreni.
– Il maledetto Piano Wahlen – aggiunsi con disprezzo. – non riusciremo a sopravvivere a lungo in queste misere condizioni. Devo andare oltre confine… Dopodomani, se Dio vorrà, sarò già di ritorno.
– Fatti accompagnare da qualcuno, almeno – insistette mia figlia.
– no. Vado solo. sarà più facile passare.
mi diressi sul calar delle tenebre fuori paese da Gianpiero s. con una decina di chili di latte, burro e patate, che il consumato contrabban-diere accettò con scarso interesse, solo a seguito delle mie insistenze.
– sei un povero pazzo – commentò, riempien-domi la mia bricolla con 15 chili di sigarette.
– Che Dio abbia cura della tua pellaccia!
Partii su per la Via di camoss verso le undici, col favore delle tenebre. Il freddo era abbastanza in-tenso per la stagione, ma, ad ogni passo, pensavo a mia figlia a casa con la febbre, a suo marito raccolto in qualche bunker chissà dove, ai miei nipotini che accusavano già i primi sintomi della tisi. Il sacco mi pesava sulle spalle, le bretelle di cuoio premevano nella poca carne delle spalle, ma il freddo temperava il dolore e i pensieri smuovevano la mente dal mondo delle cose.
Prima di imboccare il sentiero che saliva verso il passo del s. Iorio, avevo incontrato due giovani guardie svizzere. erano i figli del doganiere P.
non fu difficile dissuaderli – benché l’ora tarda – che stavo semplicemente prendendo aria per alleviare un fastidioso mal di testa. Infatti, avevo già nascosto la bricolla sotto un fascio di rami, che recuperai appena esse se ne furono andate.
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superati i primi 10 chilometri di mulattiera, stretta e contorta, improvvisamente udii un rombo da lontano, in avvicinamento: un aereo militare. Probabilmente un aereo alleato sper-duto che rientrava alla base o che si dirigeva verso la Germania nazista per bombardare massicciamente Berlino. osservai nella notte la sagoma scura che fendeva il cielo di piombo.
C’era qualcosa di strano nel boato emesso dal velivolo. Infatti, stava perdendo quota con rumore sempre più assordante, finché lo vidi sparire dietro una vetta, sopra la Val Grono e pochi secondi dopo si udì un fragore tremendo, come un contorcersi di ferraglia. Qualcosa, poi, attirò subito la mia attenzione in cielo: dei ba-tuffoli grigiastri che ondeggiavano placidi verso terra. erano due paracaduti.
– Ce l’hanno fatta per un pelo! – commentai tra me e me, incamminandomi su per l’erta via.
ammiravo le gesta dei soldati aviatori anche se spesso – come ci riferivano le notizie alla radio - gli aerei alleati sganciavano nel buio e nell’ignoto i loro fagotti incendiari, colpendo in
aperta campagna o, per sbaglio, persino stracci di territorio elvetico.
stavo rimuginando quei pensieri, quando inciampai in qualcosa di pesante e duro sul sentiero. Un camoscio, pensai subito. Invece si trattava di un cadavere di uomo. Circa trent’an-ni. la bricolla ancora in spalla. Indurito per il freddo. Una tempia sfondata per la caduta.
Probabilmente era scivolato centinaia di metri più su. Gli sfilai subito i vestiti di dosso – ora rabbrividisco a questa idea – e li infilai assieme alle sigarette nella bricolla. avrei potuto venderli in Italia. al povero ragazzo certamente non servivano più.
Camminavo ormai da più di cinque ore. Do-vetti fermarmi a riposare. le mie gambe di sessantenne tentennavano per lo sforzo, come a voler dissuadermi dall’andare avanti. Il freddo si era fatto più insistente, aggressivo. “non devo mollare!”, pensai più di una volta. “Devo andare avanti!” Poi, di nuovo all’improvviso, sentii un paio di colpi sparati in aria. mi gettai bocconi per la paura. Di sicuro erano solo dei
La vista dal Passo San Jorio (2014 mslm) spazia fino al Lago Maggiore
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colpi di avvertimento, nulla di più. Dovevo essere vicino alla vetta, nei pressi della frontiera italo-svizzero sul s. Iorio. nascosi subito sotto dei rami e dei mucchietti di neve marcia la mia bricolla e strisciai per un centinaio di metri, spinto da una nuova energia, alimentata da un’insana paura.
arrivai fino al ciglione di una roccia e vidi una sorta di radura. nello spiazzo erboso, dal quale erano provenuti gli spari, notai due sagome oscure – certamente due guardie di confine – che tenevano per la giubba un uomo. Questo si esprimeva in italiano, ma con accento straniero e segnalava in continuazione la sua gamba destra.
Rimasi allibito. l’uomo aveva una gamba di legno e un bastone. Pure lui portava una bricolla sulle spalle. le guardie lo strattonavano con in-sistenza da una parte e dall’altra, frastornandolo di parole e insulti. Gli strapparono la bricolla di dosso e la svuotarono al suo piede. V’erano almeno cinquanta bottiglie di grappa.
– Volevi fare una festa a sorpresa, eh? – lo schernì una guardia.
– Già, una festa con qualche sgualdrinella rus-sa… – rincarò il secondo.
non sopportai a lungo quella scena impietosa.
non so ancora oggi cosa mi spinse ad alzarmi in piedi e gridare con tutto il fiato che avevo nei polmoni.
– Indietro o sparo! Brutti porci schifosi!
le guardie (due giovanotti italiani), che teneva-no più alla loro vita che ai loro doveri militari, se la diedero a gambe e non ci infastidirono più.
mi avvicinai all’uomo, che era rimasto fermo e immobile come una pietra secolare. mi osserva-va con timore, ma la mia andatura e la mia età lo rassicurarono. Claudicante mi raggiunse allora con certa agilità e mi strinse la mano.
– mi chiamo Theodor – disse subito con grati-tudine e con buon accento italiano. – sono un ex soldato russo. – mi hai salvato la vita, amico.
– In fondo, ho salvato anche me stesso… – ri-sposi, ricambiando la sua stretta.
Ci sedemmo per terra e, per festeggiare la fuga delle guardie, mi offrì una bottiglia di
grap-Il Passo del San Jorio dal versante italiano
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pa e io aprii un pacchetto di sigarette. Fumammo e bevemmo per parecchio tempo (incuranti del peri-colo) per scaldarci dall’aria fredda che spirava leggera sulla vetta.
– avresti veramente spara-to? – mi chiese ad un certo punto Theodor.
– e con cosa? – domandai allora io con una sonora risata. – Con questa?
Presi una sigaretta, la impu-gnai e feci il gesto di sparare nell’oscurità. anche il russo si mise a ridere di gusto,
tracannando una lunga sorsata di grappa.
– non sono un vero muncich… – affermai.
– Questa roba – disse egli dopo aver nuovamente bevuto – non assomiglia neanche un po’ ai nostri distillati di vodka, ma riscalda il cuore lo stesso.
– Come sei giunto in questo posto? – gli chiesi allora.
e lui mi raccontò la sua storia. era un soldato russo, della steppa siberiana. Chiamato a resiste-re all’invasoresiste-re nazista, nel gennaio del 1943 era stato ferito gravemente in battaglia, nei pressi di stalingrado, alla gamba destra. Ricoverato urgentemente in un ospedale di fortuna, gli salvarono la vita ma non la gamba, che gli fu amputata sotto la rotula. Da allora gli avevano impiantato una gamba di legno e lo avevano fornito di un bastone. Grazie ad una organiz-zazione Umanitaria era stato espatriato verso una svizzera neutrale. si era trovato dapprima a Basilea, poi a lucerna e infine era stato inviato a Roveredo, al centro per profughi Immacolata Concenzione. mi raccontò di valorose battaglie vinte dai russi in patria, si esaltò informandomi sulle virtù terapeutiche della vodka e mi parlò a lungo delle ragazze russe: cuore di ghiaccio ma cosce calde. Poi si mise di colpo a piangere per la nostalgia. si era avventurato da solo su quelle vette per darsi una ragione di vita. all’Imma-colata si sentiva come un recluso, reietto in un mondo che lo aveva emarginato, tra profughi
che non capiva e a cui non interessava. Ben accolto dalle suore, si era però subito reso conto che neanche la svizzera era quell’isola felice di cui si discorreva all’estero. Il piano di razio-namento e di oscuramento varati dal governo svizzero avevano imposto ai cittadini un regime di sofferenza e privazione. si era allora deciso ad aiutare i profughi, contrabbandando grappa.
mentre raccontava, udimmo dei passi che spez-zavano dei rametti per terra. mi alzai di scatto allarmato, ma il russo mi rassicurò.
– sono i fratelli m., provenienti da Chiavenna.
loro sì che sono dei veri contrabbandieri.
scambiammo con i fratelli m. sigarette, grappa e i vestiti del cadavere con riso, pasta, caffè ed olio di oliva. Caricate le pesanti bricolle sulle spalle, salutati i due giovani, affrontammo la discesa verso valle, incuranti del freddo, i cuori gonfi di gioia per la missione riuscita.
lungo la Via dei camosci, incontrammo diffi-coltà a superare lo Sperone di roccia (così era semplicemente chiamato dai contrabbandieri della regione) che invadeva prepotente un pezzo del sentiero. andai avanti io con la bricolla più piccola e aiutai Theodor a passare ma, oltre alla sua mole enorme e alla sua sbornia, scivolava continuamente col grave rischio di cadere di sotto. Infine ce la facemmo e fumammo ancora una sigaretta, nascondendola dentro il berretto che portavamo a riparo dal fresco. ora la via
La caserma della Guardia di Finanza al valico del San Jorio
137 era sgombra e in poche ore saremmo giunti in
paese, lui a Roveredo, io a Grono.
affrettammo il passo. nonostante la gamba di legno e il suo bastone, la sua marcia era soste-nuta. Claudicante, ma quasi spedito.
a due chilometri da Roveredo ci attese un pic-chetto di guardia. erano i due figli del doganiere P. che ci avevano già intravisti da lontano con un cannocchiale. Ci gridarono di fermarci, ma noi iniziammo a correre alla rinfusa verso i prati della campagna. Ci seguirono a distanza, sparando in aria colpi di avvertimento. non ci fermammo, continuammo a fuggire con le bricolle che ballonzolavano da una parte all’al-tra come dei pesi morti. Infine, il russo cadde di schianto perché gli si era spezzato una parte di gamba di legno. mi fermai anch’io, mentre da dietro stavano sopraggiungendo le guardie.
– scappa! scappa! non pensare a me! – mi urlò con rabbia.
– no – dissi semplicemente. e mi sedetti a terra con lui.
– non muovetevi! non muovetevi! – gridarono le due guardie in coro, brandendo le pistole. – Che avete nelle bricolle?
– Pasta, riso e caffè – dissi.
– Venite con noi! – ci intimarono, aiutandoci ad alzarci e conducendoci verso la dogana. mentre camminavamo, stanchi ma stranamente soddi-sfatti, alla radiolina infilata nella cintura di una delle guardie si udì improvvisa e limpida la voce di un giornalista:
Popolo svizzero, ci giunge ora in data 30 aprile 1945 la notizia del ritrovamento del cadavere di adolf Hitler da parte delle valorose truppe sovietiche. Il tiranno si è suicidato nel bunker della Cancelleria di Berlino. la guerra è finita!
la guerra è finita! …
Ci eravamo fermati per strada come ebeti.
avevamo ascoltato senza fiatare la comunica-zione radiofonica, insicuri su cosa provare in quell’istante, se gioia o rammarico, se fratellanza oppure scherno. Ricordo solo le parole di uno dei doganieri, accompagnate da un profondo sospiro incredulo.
andate… siete liberi…
(Questo racconto è stato insignito del terzo premio al concorso letterario Festival dei Festival sulla “montagna” di lugano nel giugno 2007).
L I R I C A