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Parte seconda: Analogia-Logica.

10. Pensiero, speranza e preghiera.

362 P. Ricci Sindoni, Franz Rosenzweig. Prigioniero di Dio, op. cit., pag. 133. 363 F. Rosenzweig, La stella,op.cit., pag. 215.

364 “[…]Così la parola del filosofo si mostra come una continuazione o uno sviluppo della parola che, secondo la tradizione ebraica, è ispirata da Dio stesso. Come quello della Bibbia e delle fonti ebraiche, però, il linguaggio del filosofo non può che essere metaforico- di una metafora che non è il semplice involucro sensibile di un significato determinato, ma allude in quanto segno a un significato mai esattamente determinabile – nel momento in cui si riferisce a Dio.”. I Kajon, Il pensiero ebraico del Novecento, op. cit, pag. 71.

Ama il tuo prossimo. Questa, ci assicurano ebrei e cristiani, è la sintesi di tutti i comandamenti. Con questo comandamento l’anima, ormai dichiarata adulta, lascia la casa paterna dell’amore divino ed esce a percorrere il mondo.365

L’interazione tra uomo e mondo, qui delineata di nuovo da una metafora, apre l’ultima parte della Parte Seconda, in cui il linguaggio umano diviene protagonista nel passaggio “dalla risposta” nella rivelazione alla “parola”366 nella redenzione.

L’amore per il prossimo qualifica questa relazione e pone l’uomo nella dimensione della responsabilità, tema carissimo a Levinas, nei confronti del mondo, scoprendo la sua più alta realizzazione nel riferimento a Dio- nella frase “ Dio è buono”- che avvera quella “implicazione reciproca” tra uomo e mondo , che solo nel “ terzo” trovano la loro redenzione.367

Solo nella parola di Dio dunque, nella parola dei Salmi e dunque nella preghiera, questa redenzione viene realizzata e la comunità dei fedeli trova la propria preghiera sempre operante il legame con Dio, aprendo uomo e mondo alla dimensione dell’eterno. Rosenzweig giunge a tali conclusioni attraverso un’ articolata riflessione, di cui varrà la pena sottolineare i punti salienti.

Il problema di un nuovo accesso al mondo, tramite l’amore di Dio, è il primo problema affrontato. “Come si sfonderà però ora la porta che anche adesso, dopo che l’uomo ha percepito la chiamata di Dio ed è divenuto beato nel suo amore, ancora gli preclude l’accesso al mondo?”368. Rosenzweig è molto chiaro: l’anima, uscita dalla gelosa chiusura del sé, era ora aperta e dedita a Dio. Ma a lui solo. “ Essa non dorme più il sonno rigido del “sé”, ma è risvegliata da Uno soltanto e per Uno soltanto.[…] Infatti come Dio, finchè appariva soltanto creatore, era divenuto invero più privo di figura di quanto non fosse prima, nel paganesimo, e pareva sempre più esposto al pericolo di inabissarsi di nuovo nella notte di un Dio nascosto, così ora l’anima, nella misura in cui è solamente anima amata, analogamente è ancora invisibile e

365 F. Rosenzweig, La stella, op.cit., pag. 221. 366Ibi, pag. 224.

367 Cfr, ibi, pag. 246. 368Ibi, pag. 228.

priva di figura, ancor di più di quanto non lo fosse, un tempo, il “sé” ”369 . L’anima è dunque, nella rivelazione, aperta allo sguardo e alla parola, ma esclusivamente in direzione dell’amore di Dio, per cui, in effetti, rimane invisibile al mondo, più invisibile del “sé” tragico, che almeno possedeva una sua visibilità e udibilità370. La mancanza di figura, “ il mantello dell’invisibilità e l’anello di Gige”, è per Rosenzweig inquietante e senz’altro portatrice di rovina, così come quando questa dimensione è rappresentata dal mistico, che nella “sua fiducia piena di superbia”371 nell’esclusivo rapporto col “suo” Dio, si rende invisibile e ri-nnega (giacchè non può negarlo) il mondo. 372 Ed è questa la gravissima colpa del mistico: quella di trattenere il “ sé” verso il suo cammino verso la figura; esso stesso non è vera figura, “ è a malapena un uomo a metà, è solo il recipiente delle estasi da lui esperite”373. E così l’anima amata, che era uscita dal mutismo del paganesimo, si trova nella dimensione di essere amata da Dio, in una dimensione però che appartiene al Gestaltlose, al non configurato, e dunque ciò non basta. L’uomo deve divenire santo, anticipa Rosenzweig, e nel suo aprirsi a questa dimensione, quella di uomo totale, esso diviene visibile ed udibile. E così la tragedia moderna, “la tragedia del santo” sostituisce quella antica, senza più coro, senza più monologhi374, caratterizzandosi come tragedia di caratteri contrapposta a quella d’azione, tendendo tuttavia ad una meta sconosciuta a quella antica, ovvero alla “tragedia dell’uomo assoluto nel suo rapporto con l’oggetto assoluto”.375

Una nuova forza quindi sale dalle profondità dell’anima devota a Dio, che continuamente in questo stato rischia di dissolversi, e nel fervore del santo, trova la sua figura e la sua saldezza, segnando il definitivo passaggio dalla rivelazione alla redenzione. Questa forza, che non è

369F. Rosenzweig, La stella, op.cit., pag. 145, pag. 222.

370 “ Certo l’uomo pagano, il “sé”, era chiuso in se stesso, ma non per questo chiuso nei confronti dell’esterno, era visibile; non trovava, è vero, alcun accesso al mondo, ma il mondo trovava un suo accesso a lui e, benché egli fosse muto, gli si poteva tuttavia rivolgere la parola. Il coro della tragedia antica non è altro se non questo ripetuto incalzare del mondo esterno verso l’eroe, questo appello rivolto alla sua figura muta e marmorea”. F. Rosenzweig,

La stella, op.cit., pag. 222.

371Ibi, pag. 223.

372 Si vede ora, con più chiarezza, quale sia il tipo di mistica oggetto di critica da parte di Rosenzweig.Vedi nota

312.

373Ibi, pag. 224.

374 “Per l’eroe moderno i monologhi sono semplici punti di sosta, istanti in cui egli, dalla sua vita effettiva tanto movimentata quanto attiva, che vive nei dialoghi, guadagna in qualche modo la riva e per un poco diviene spettatore”. Ibi, pag. 226.

destino, bensì daimon che “orienta” la vita, “ non può esser altro che l’amore del prossimo”376. L’amore del prossimo si declina come un qualcosa di necessario che si rinnova in ogni istante, e che è comandato, poiché riconduce direttamente all’amore verso Dio.

In contrapposizione alla legge morale, che necessariamente è solo formale e perciò rispetto al contenuto è non solo ambigua, ma illimitatamente equivoca, il comandamento dell’amore del prossimo, che è chiaro ed univoco quanto al contenuto e che scaturisce dalla libertà indirizzata del carattere, ha bisogno di un presupposto al di là della libertà: fac quod jubes et jube quod vis; il fatto che Dio “ comanda ciò che vuole” dev’essere preceduto, giacchè qui il contenuto del comandamento è di amare, dal divino “esser già fatto” ciò che egli comanda.377

Solo l’anima che è amata da Dio accoglie il comandamento dell’amore del prossimo sino al suo compimento. Tale atto d’amore, che si compie e consuma nell’istante, senza alcuno scopo, nell’istante ricomincia sempre da capo, è esente dalla delusione, poiché la delusione permette al contrario all’anima di non cristallizzarsi in reiterati schematismi e di non divenire schiava di qualsivoglia aspettativa di successo che trasformi l’atto d’amore in azione finalizzata, così come ad esempio avviene, nell’Islam, nell’idea di obbedienza alla “ via di Allah”378, o come è stata declinata, ritrovando “stranamente il suo esatto corrispettivo nella religiosità laica della libera sottomissione alla legge universale che l’epoca moderna ha cercato di sviluppare per se stessa”,379 nell’etica kantiana e dei suoi successori fautori della coscienza comune.

L’amore del prossimo è diretto al mondo ed in quanto tale diviene il polo significativo di tale direzionalità, attraverso il ruolo vicario 380 che è proprio del prossimo, in quanto rappresentante, nell’attimo, del mondo tutto.

Ma se ora la porta si è aperta sul mondo, per proseguire la metafora del Nostro, ciò che ci appare, se da una parte non è più il mondo “incantato” dell’antichità e dall’altra non dev’essere a sua volta il mondo “disincantato” dalla tecnica, è ora guidato da un nuovo rapporto col mondo stesso, che l’uomo comunica attraverso il linguaggio rivelato. Ciò che a questo punto appare, ci

376 F. Rosenzweig, La stella, op.cit., pag. 230. 377Ibi, pag. 231.

378Ibi, pag. 232. 379Ibi, pag. 234.

dice Rosenzweig è “ una difficoltà […] la cui soluzione però getterà luce su tutta la strada finora percorsa”381. La difficoltà risiede nel fatto che se tanto nell’uomo che in Dio il “sì” precedeva il “no”, ovvero Dio prima creò e poi si rivelò e l’uomo prima accolse la rivelazione e poi si avventurò nel mondo, ovvero ancora ciò che è avvenuto una volta-per-tutte precedeva ciò che accade istantaneamente, nel mondo avviene all’opposto, ovvero “ l’atto autonegantesi in cui si rivela l’istantaneità del mondo, il suo esser-intero in ogni attimo, viene qui per primo; ma la globalità del suo essere, nella piena durata del tempo adempiuto/colmato [erfüllt] deve ancora sorgere”382. Il mondo che appare è un mondo incompiuto e solo un’inversione temporale può cogliere questo suo divenire. La redenzione trasforma il mondo nella figura del regno, che in tal modo perdura in un crescere di vitalità e che mostra come il mondo sia stato creato non compiuto sin dall’origine, ma con la determinazione di doverlo divenire.

E’ sempre futuro, ma, come futuro già sempre è. E’ sempre in egual misura tanto già presente che futuro. Non c’è ancora una volta per tutte. Eternamente viene. Eternità non è un tempo infinitamente lungo, bensì un domani che potrebbe altrettanto bene essere oggi.383

Eternità è dunque un futuro, che senza rinunciare alla sua ulteriorità, è tuttavia presente, anche oggi, anche ora. La crescita del regno è necessaria, e la sua cifra temporale si apre all’irruzione dell’eternità. Infatti è proprio questo l’inedito rapporto con la temporalità, in cui la redenzione si qualifica come attesa verso l’avvenire, verso questa irruzione che potrebbe essere oggi, ora.

In questo importante passaggio si approfondisce meglio il rapporto tra linguaggio e temporalità. Il mondo e l’anima bussano alla porta del futuro, l’uno crescendo, l’altra agendo, atti che entrambi precorrono l’istante anticipandolo. “ Ma che cosa anticipano? Semplicemente anticipano l’altro”384, giacchè l’anima, agendo verso il prossimo, anticipa nella volontà il mondo intero e la crescita del regno, nella speranza, è tutta in vista dell’atto d’amore. Uomo e mondo non possono sciogliersi l’un l’altro, sono indissolubilmente legati; “ essi, insieme, possono

381F. Rosenzweig, La stella, op.cit., pag. 235. 382Ibi, pag. 235.

383Ibi, pag. 241. 384Ibi,pag. 245.

soltanto essere sciolti/ redenti (egli scioglie) [er-löst] da un terzo che li redime l’uno nell’altro, l’uno mediante l’altro”385. Tale implicazione reciproca, ci avverte Rosenzweig, avviene solo qui e non prima, ove il movimento che si generava era a senso unico ( da Dio al mondo, da Dio all’uomo), e “ la redenzione dell’anima nelle cose e delle cose mediante l’anima avviene nel duetto cantato all’unisono da entrambi, nella frase che risuona dalle voci comuni di entrambe le parole. Nella redenzione il grande “e” chiude l’arco del Tutto”.386 Lontano da ogni forma sintetico-idealistica, l’ “e” in questione porta a compimento il contenuto dell’ “e” premondano e porta alla costituzione di una proposizione-matrice che porti a relazione le parole-matrici della creazione, “buono”, e della rivelazione, “io”. Ma questa sintesi, come abbiamo avuto modo di vedere, è resa tale solo ed esclusivamente dal “terzo”, Dio, e per questa ragione, uomo e mondo realizzano la reciproca correlazione solo cantando assieme, metaforicamente in un duetto cantato all’unisono da entrambi387, la proposizione-matrice della redenzione “ Dio è buono”. Questa proposizione, punto focale della riflessione rosenzweighiana sulla redenzione, si carica di ulteriore significatività, poiché si pone ad un doppio livello di fruibilità: essa può infatti essere intesa dal pensiero, come proposizione apofantica, e allo stesso tempo può essere colta come preghiera corale della comunità che loda Dio. Vediamo come. Che la proposizione-matrice, “ tetto sulla casa del linguaggio” sia “ vera in sé” è un’affermazione che per Rosenzweig è certezza, a prescindere dalla bocca con cui essa sia pronunciata , e garantisce quel criterio di oggettività guadagnato all’interno del processo espressivo e che si mantiene tale in tutti i casi possibili, giacchè Dio è vero per ogni cosa. Per questo sua modalità essa regge tutte le differenti forme linguistiche, che a loro volta hanno come fine l’esplicitazione di questa proposizione- matrice: non più esclusivamente narrazione come nella creazione, non più solo dialogo come nella rivelazione, la grammatica della redenzione sottolinea la sua cifra apofantica, che però

385 F. Rosenzweig, La stella, op.cit pag. 246. 386Ibi, pag. 246.

387 “ E, poiché ne deve risultare una proposizione pronunciata contemporaneamente dalle due parti, un vero canto a due voci, allora quell’ “io” non può rimanere “io”. Uomo e mondo devono poterlo cantare all’unisono; in luogo dell’ “io” divino, che solo Dio stesso poteva pronunciare, deve fare la sua comparsa il nome divino, che anche uomo e mondo possono portare nel loro cuore, e di lui si deve dire: è buono”. Ibi, pag. 248.

nell’approfondirsi dell’interazione tra le parole-matrici non appare sufficiente a significare, e deve quindi rivolgersi alla dimensione della preghiera che esaudisce la dimensione linguistica guadagnata.

[…] la grammatica questa volta si presenta come un canto che cresce strofa dopo strofa. Ed è un cantare originario, che è sempre un cantare di più persone insieme;[…] Non si canta insieme in ragione di qualche contenuto determinato, ma si cerca un contenuto comune per poter cantare insieme. La proposizione-matrice, se deve essere il contenuto del canto comune può presentarsi solo come una giustificazione di tale comunanza; “ Egli è buono” deve fare la sua comparsa come “ perché Egli è buono”.388

La dimensione del conoscere viene arricchita da quella della ri-conoscenza, di quel rendere grazie a Dio che instaura quel legame con Dio, che uomo e mondo attuano in modo duale, utilizzando un dativo, e che permette loro di trascendere e redimere se stessi nell’eterno. Se il concetto rosenzweighiano di eternità è stato variamente discusso 389, quello che in questa sede preme sottolineare è il fatto che la temporalità è comunque strettamente legata alla responsabilità reciproca di uomo e mondo che declina tale idea in una serrata dialettica con, per usare un’espressione di B. Casper390, il “mio tempo”, con tutto ciò che è più proprio e che cor- risponde continuamente nella preghiera alla speranza dell’av-venire. La preghiera è così l’anticipazione del compimento, in realtà nella sua forma sempre esaudita, poiché sempre realizzante il ponte tra il “tempo a me disponibile” e una “pienezza del tempo”391 che ci trascende. Nell’istante della preghiera uomo e mondo trascendono la propria sfera temporale per entrare nella dimensione dell’eterno, corrisposto, raggiunto, e corealizzato con l’anticipazione della venuta del regno. Uomo e mondo non sono passivamente condotti, come in un’estasi mistica, in questa dimensione, ma attraverso la preghiera concorrono attivamente alla sua venuta e divengono determinanti per la redenzione di Dio stesso. La proposizione “ perché è buono”,

388F. Rosenzweig, La stella, op.cit., pag. 249.

389 Si veda ad esempio P. Ricci Sindoni, Franz Rosenzweig. Prigioniero di Dio,op.cit., pag. 138-141, la quale esprime una posizione diversa da quella di S. Mosès, Système et Révélation, op.cit., pag. 141.

390 B. Casper, Analogia temporum et orationis, in AA.VV. Pensare l’essere, a cura di V. Melchiorre, Marietti, Genova, 1989.

rendimento di grazie e anticipazione- “eternità […] già oggi” 392- del futuro, temporalizzazione fondamentale nella redenzione, come il passato lo era stato per la creazione e il presente per la rivelazione, trova il suo “luogo” nel linguaggio dei Salmi, nella parola di Dio. Non potendo essere la profezia393 la forma specifica della redenzione, in quanto operante un legame non proprio, allora bisognerà scorgere altrove tale forma propria alla redenzione, che sia in grado di esprimere il non-essere-ancora-accaduto [ Nochnicht-geschehen-sein] ed il dover-tuttavia- accadere-un-giorno[ Doch-noch-einst-geschehen-werden].

“E questa- dice Rosenzweig- è la forma del canto comune della comunità”394, giacchè salmo in ebraico non vuol dire altro che canto di lode. L’analisi di Rosenzweig si concentra particolarmente, dopo un accenno ai salmi precedenti in cui la comunità ancora non è un tutti, bensì un “noi” che aspira ad un tutti395, su quel gruppo di salmi che va dal centoundicesimo al centodiciottesimo, ed in particolare sul salmo centrale di questo gruppo, il centoquindicesimo, il quale “unico tra tutti i salmi […] comincia e si chiude con un possente e marcato “noi” ”396, che viene sospinto sino al compimento della immediata prossimità del nome divino, in una fiducia piena di speranza che “ è la parola fondamentale in cui avviene l’anticipazione del futuro nell’eternità dell’attimo”397 e che, nella preghiera, trasforma la comunità del “noi” nella comunità messianica del “noi tutti”, “ piccoli e grandi”.398 Come il mondo cammina verso la redenzione, così l’uomo, nella comunità, in una crescita di benedizioni, nell’atto d’amore della preghiera viene a congiungersi col mondo stesso della creazione e con il suo crescere, e la morte viene finalmente vinta. Solo il “noi” della preghiera riesce a superare la mortalità, la redenzione

392 F. Rosenzweig, La stella, op.cit., pag. 252

393 “ La profezia è il legame che congiunge questo mondo del miracolo (giacchè questo è il nome con cui ci siamo rivolti alla rivelazione, mondo del miracolo, al quale anche la creazione e la redenzione appartenevano come miracolosi contenuti della rivelazione), nella sua viva fattualità, con il pre-mondo e l’inframondo della fattualità ottusa ed incompiuta”. Ibi, pag. 268.

394Ibi, pag. 268-269.

395 “ Questo tuttavia è la parola dei Salmi”, ibi, pag. 269. 396Ibi, pag. 270.

397Ibidem. 398Ibi, pag. 271.

non conosce la vita morta: “ i “noi” sono eterni; davanti a questo grido di trionfo la morte precipita nel nulla. La vita diventa immortale nell’eterno canto di lode della redenzione”399.

Nel salmo si realizza dunque quell’approssimarsi che però mantiene la distanza, che da una parte si manifesta nella sua realizzata visibilità e nella verità della prossimità instaurata da Dio e uomo ( “ Dio deve esaudire la preghiera[…];la verità è palese, visibile agli occhi di ogni vivente”400) e dall’altra mostra la diacronia di questo incontro che vive nel non ancora del presente e che solo l’eternità dell’attimo ricompone in Unità. Quell’unità fatta a pezzi da Rosenzweig in quanto totalità fagocitante e omniconclusiva, viene qui guadagnata da una diversissima prospettiva e con altrettanto diverse modalità e prospettive: nella redenzione Dio realizza la sua totalità nello dissolversi di tutti i nomi nel suo “ Uno” senza più nome. “ Il Tutto dei filosofi, che noi consapevolmente avevamo fatto a pezzi, qui, nel sole accecante della mezzanotte della redenzione giunta a perfetto compimento, si è infine, sì, veramente in-fine unito per divenire l’Uno”401. Il limite al pensiero è qui reso in tutta la sua invalicabilità, e così il linguaggio del filosofo non può che farsi metaforico al fine di garantire proprio quella sovra- determinazione di senso attenta al non ripetibile ed alla dimensione dell’evento e dunque decisamente distaccata da qualsivoglia totalità autoreferenziale.

399 F. Rosenzweig, La stella,op.cit., pag. 271. 400Ibi, pag. 270.