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Thanatos, Eros e la “più–che-metafora”.

Parte seconda: Analogia-Logica.

9. Thanatos, Eros e la “più–che-metafora”.

Forte come la morte è l’amore.343

Il versetto del Cantico dei Cantici (Ct. 8,6) è citato da Rosenzweig in apertura del Secondo libro della Parte Seconda, e segna l’emblematico passaggio dalla creazione alla rivelazione.

Come abbiamo avuto modo di vedere, il Primo libro si chiudeva infatti nell’idea della morte come apertura all’ “oltre”. La morte, riconosciuta nella dimensione della creazione come segno del suo adempimento e suggello della sua caducità, rinviava allo stesso tempo ad un ricominciamento in direzione di un’ulteriore dimensione, in cui i tre elementi prima chiusi in una dimensione monologica, si aprano alla reciproca alterità, intrattenendo rapporti viventi. E se, come già accennato, l’inizio e la fine della Stella rimandano alla metafora del passaggio dalla morte alla vita , dunque ancora una volta la morte si conferma sfondo teoretico fondamentale, nonché problematico, per la riflessione di Rosenzweig, confermato da alcune righe scritte a Margrit Rosenstock alla vigilia della stesura della Parte Terza. Egli scrive

[…] Pensi che io abbia scritto una chiara parola sulla morte? Io stesso non lo so; essa ricorre sempre continuamente, sempre continuamente in maniera diversa, ma in nessun luogo con definitiva chiarezza.344

La morte è talmente presente nelle pagine della Stella, e così diversamente modulata, che lo stesso Rosenzweig ha difficoltà ad imporle un “luogo” chiaro, poiché essa sotterraneamente si impone come filo conduttore e come possibilità plurivoca345. Dice ancora Rosenzweig

(La) morte, chiave di volta della creazione, che imprime, lei sola, a tutto il creato il marchio incancellabile della creaturalità. […]346

Essa si pone come metafora implicita che garantisce sostegno alla struttura dell’opera, ritornando a visibilità e chiara espressione nei momenti salienti della riflessione. “ La morte- ci

344 Lettera del 26 novembre 1918, in Gesammelte Schriften, op.cit., pag. 200.

345E’ ricchissima la letteratura secondaria in proposito, ci limitiamo a citare alcuni lavori: M.D. Oppenheim, Death

and Man’s Fear of Death in Franz Rosenzweig’s The Star of Redemption, in “ Judaism. A Quarterly Journal of

Jewish Life and Thought”, XXVII, 1978, 4, pag. 458-467; G.Zarone, Morte e verità dell’uomo metaetico. Le figure

di Nietzsche e Rosenzweig, in “ Filosofia e teologia”, VI, 1990, 2, pag. 349-358; K. Löwith, M. Heidegger and F. Rosenzweig or Temporalità and Eternity, in “ Philosophy and Pheomenological Research”, III, 1942, 1, pag. 53-77;

W.Marx, Die Bestimmmung des Todes im “ Stern der Erlösung”, in AA.VV. Der Philosoph Franz Rosenzweig,

op.cit.

dice P. Ricci Sindoni- ritorna nelle pagine della Stella come il nocciolo problematico ineludibile per la ricerca filosofica: essa rappresenta non solo o non tanto l’accettazione della propria ineludibile finitezza, ma soprattutto l’esperienza del proprio accesso all’esistenza e alla parola tramite la rivelazione”.347 E così come aveva trovato “luogo”, nella sua capacità trasgressiva, in opposizione alla tradizione filosofica che la negava, ora la vediamo incarnare di nuovo il tropo metaforico di Eros e Thanatos. Tale tropo è stato già utilizzato dal Nostro, nella genesi del “sé” meta-etico348, proprio per indicare il trionfo del “sé” nell’annichilimento dell’uomo nella specie, nell’universale. Ma se al di qua della Rivelazione, Eros era la maschera che nascondeva la vera essenza del daimon, cioè Thanatos, ora, nel passaggio verso la Rivelazione il tropo metaforico si capovolge, con un’ ulteriore Umkehrung, e rinvia al necessario passaggio da Thanatos ad Eros per cogliere la “interezza”349 della vita.

“Alla morte, chiave di volta della creazione, che imprime, lei sola, a tutto il creato il marchio incancellabile della creaturalità: la parola “ (è) stato”, a lei l’amore dichiara battaglia, l’amore, che conosce unicamente il presente, ardentemente desidera il presente”. Il linguaggio metaforico di Rosenzweig si fa calzante: “ La chiave di volta dell’oscura voluta della creazione diviene la pietra di fondamento della luminosa dimora della rivelazione”.350 Se la morte, nella sua valenza positiva, si pone come profezia della rivelazione, l’amore di Dio realizza pienamente quell’apertura a cui la morte rinvia; il nesso tra temporalità e realtà attraverso la sua espressione nel linguaggio è qui di nuovo ribadito con forza e il se il passato era la declinazione temporale inerente alla creazione, ora la rivelazione richiede il presente, il presente del dialogo tra un io e un “tu”.

347 P.Ricci Sindoni, Franz Rosenzweig. Prigioniero di Dio, op.cit., pag. 125. 348 Vedi pag. 71 e ssgg. del presente studio.

349 “[…] La morte è allora l’aldilà? E’ chiaro che per prima cosa essa appartiene all’aldiqua, porta innanzitutto a compimento la vita conferendole interezza ( תוםה הז רואם). La pace, l’ “interezza”. La conclusione del libro di Cohen: il mondo diventa eternità). Ha tuttavia già a che fare con ogni momento della vita. Amore e morte. Nel respirare due tipi di grazia. Il lontano diventa vicino.” F.Rosenzweig, Anleitung zum jüdischen Denken, in

Gesammelte Schriften, op.cit., pag. 616.

[…]L’amore, che conosce unicamente il presente, vive del presente, ardentemente desidera il presente.[…]E’ l’amore ciò in cui sono rispettate tutte le esigenze qui poste al concetto di un rivelatore: l’amore dell’amante però, non quello dell’amata.351

Il monologo si è trasformato in dialogo nel momento in cui Dio, creando Adam, lo ha chiamato per nome352. Il Nome Proprio si delinea in questa dimensione come autonomia e specificità che chiama l’incontro. Dio, come amante, si rivolge all’uomo attraverso il comandamento dell’amore, che opera il completamento dell’ auto-rivelarsi divino avviato nella creazione: il Dio nascosto353 della creazione diviene nell’atto d’amore il Dio manifesto. Il dialogo, che si consuma in un imperativo, tempo presente per eccellenza e preposto alla subitanea obbedienza, paradossale, “ tu devi amare il tuo Dio”, nell’istante, riceve risposta ed ascolto dall’uomo -“sono qui”- , realizzando così la rivelazione divina, che a sua volta si modula come il divenir-adulto del muto sé dell’uomo che diviene anima e parla.

Rosenzweig dunque esprime questo nodo centrale della sua riflessione in una metafora: la metafora dell’amante e dell’amata. La relazione di Dio amante e dell’uomo amato, capace di sconfiggere la morte, viene descritta in maniera suggestiva e vale la pena di lasciar parlare l’Autore

351 F. Rosenzweig,La stella, op.cit., pag. 167 e pag. 173.

352 “ All’ “io” ri-sponde ( Ant-wortet) nell’intimo di Dio un “tu”[…] L’uomo, il quale al “ dove sei tu?” di Dio aveva ancora taciuto, come un “sé” caparbio e ostinato, ora, chiamato con il suo nome, due volte, con la più grande determinazione, quella che non si può fare a meno di ascoltare, risponde totalmente aperto, totalmente dispiegato, tutto pronto tutto…anima: “sono qui” ”. Ibi, pag. 186-188.

353 Molto si è discusso del presunto rapporto di Rosenzweig, nonostante il suo deciso rifiuto, più volte ribadito, nei confronti della mistica, con la Kabbalah. Facciamo riferimento in particolare alle riflessioni di S.Mosés, Systéme et

Révélation, op.cit., il quale sostiene un’influenza, mutuata soprattutto da Schelling, della teoria dello tzimtzum

sull’idea di creazione e rivelazione di Rosenzweig, nonché lo Studio di F.P. Ciglia, Scrutando la Stella, op.cit., che sottolinea il ruolo fondamentale, seppur sotterraneo, della mistica nel pensiero del Nostro, e la posizione invece critica di H.-J. Görtz, Tod und Erfahrung, op.cit. Sicuramente è possibile affermare con una certa sicurezza, in virtù ormai dei numerosissimi studi in merito, che la storia della mistica ebraica non permette una definizione univoca e che diversissime sono state le correnti che hanno concorso alla sua strutturazione, e che la critica che Rosenzweig muove alla mistica probabilmente non comprende quelle che sfuggono all’idea di rapimento estatico, le quali invece aspirano, in linea con l’influenza esercitata dalla filosofia greca, ad una dimensione fortemente speculativa. Si vedano in proposito, seppur con un differente approccio metodologico, le posizioni di M. Idel, Kabbalah. New

Perspectives, Yale, University Press, 1988 e G. Scholem, Die jüdische Mystik in ihren Hauptströmungen, Rhein-

Verlag, Zürich, 1957; G.Scholem, Zur Kabbalah und ihrer Symbolik, Rhein-Verlag, Zürich, 1960; G. Scholem,

Ursprung und Anfänge der Kabbalah, W. de Gruyter & Co.Verlag, Berlin, 1962; G. Scholem, Über einige Grundbegriffe des Judentums, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1970, i quali riflettono sulla componente teosofica

della mistica ebraica. Interessanti anche le riflessioni di R. Goetschel, La Kabbale, Presses Universitaires de France, Paris, 1985, e A. Safran, La Cabale, Payot, Paris, 1960,

Solo l’amore dell’amante è questa dedizione di sé, rinnovata ogni istante; egli solo si dona nell’amore. L’amata accoglie il dono. Questo, il fatto che essa accolga il dono è il dono con cui contraccambia, ma nel ricevere ella rimane presso di sé e diviene quiete totale, e anima in se stessa beata. Ma l’amante- egli strappa il suo amore dal tronco del suo sé, come albero si libera dai suoi rami ed ogni ramo si distacca dal tronco e non ne sa più nulla, negandolo; ma l’albero se ne sta là nello sfarzo dei suoi rami, che gli appartengono benché ciascuno di essi lo neghi, non li ha lasciati andare, non li ha lasciati cadere a terra come frutti maturi; ogni ramo è un suo ramo tuttavia è, totalmente, un ramo a sé stante, spuntato in un punto che è soltanto suo e stabilmente legato a quel punto. Così l’amore dell’amante è piantato nell’attimo della sua origine e, poiché esso è quell’attimo, deve negare tutti gli altri attimi, deve negare la totalità della vita; esso è, nella sua essenza stessa, privo di fedeltà perché sua essenza è l’attimo e, per essere fedele, esso deve rinnovarsi ogni istante, ogni istante(Augenblick) deve divenire per lui il primo sguardo(Blick) d’amore.354

Solo grazie all’istante l’amore può cogliere “realmente” un “ tutto di vita creata”, solo grazie all’istante esso trasforma la sua infedeltà “ nella più stabile fedeltà”, “ infatti solo l’instabilità dell’istante lo rende capace di esperire sempre di nuovo ogni istante come un nuovo istante e di portare così la fiaccola dell’amore attraverso l’intero regno della notte e del crepuscolo della vita creata”.355

Solo grazie all’esercizio della parola, modulato secondo un’ impostazione differente da quella del λογος, rigida ed univoca, e soprattutto radicato nel tempo, è possibile intravedere, in questo delicato snodo teoretico, un significativo sbocco speculativo. E così, di nuovo, il linguaggio di Rosenzweig si carica di metafore e di analogie: solo la metafora ha qui spazio illuminante sufficiente per permettere al filosofo la sua opera speculativa, in modo tale da permettergli un’affermazione paradossale

L’aldilà si trova dunque qui nel mezzo dell’aldiqua. E rimane però un aldilà.356

Giungiamo così ad un passo fondamentale, che chiarifica ulteriormente il pensiero di Rosenzweig nei confronti del ruolo della metafora.

354F. Rosenzweig, La stella,op.cit., pag. 173-174. 355Ibidem.

Se infatti egli utilizza, e lo abbiamo visto, la metafora dell’amante e dell’amata per descrivere la relazione dialogica tra Dio e uomo, ed anzi “la metafora dell’amore attraversa, come metafora, l’intera rivelazione”, è’ altresì affermato, immediatamente dopo, che, a ben guardare, “ dev’essere ben più che metafora”.357

Questo passo ha indotto molti critici a valutare il pensiero rosenzweighiano come molto lontano da qualsivoglia impostazione di tipo ermeneutico358, e a mettere in discussione il valore dell’impianto metaforico del linguaggio che egli di fatto utilizza. L’idea di rifiuto della metafora in queste pagine potrebbe condurre ad interpretare la posizione di Rosenzweig, declinandola in una opposizione frontale tra il μεταφορειν ed il rivelare.

Ma il filosofo non dice di mettere da parte la metafora, ma parla di una “ ben più che metafora”. Il suo linguaggio, dicevamo, come poi anche il linguaggio biblico,359 si arricchisce di analogie, metafore e, nello specifico della relazione d’amore tra Dio e uomo, esplicitata ad esempio magistralmente nel Cantico dei Cantici, di “ ben più che metafore”. In che senso dunque? Leggiamo

La metafora dell’amore attraversa, come metafora, l’intera rivelazione. Presso i profeti è la metafora più ricorrente. Ma dev’essere ben più che metafora. E tale è solo quando compare senza un “ ciò significa”, quindi senza un rinvio a ciò di cui dev’essere metafora. Non è sufficiente, dunque, che il rapporto di Dio con l’uomo venga raffigurato con la metafora del rapporto tra l’amante e l’amata: nella parola di Dio dev’esserci immediatamente il rapporto dell’amante con l’amata, cioè il significante senza alcun rimando al significato.360

Qual’ è, dunque la declinazione di metafora che egli mette in discussione? Proprio quella che si identifica e si costruisce sull’opposizione di proprio- improprio, secondo la classica concezione metafisica di un linguaggio collegato ad una filosofia di tipo univoco, la quale consideri il

357 F. Rosenzweig, La stella, op.cit., pag. 212.

358 Si veda ad esempio A. Fabris, Linguaggio della rivelazione, op.cit., che però aggiunge, mostrando la problematicità di una posizione critica che tenda a svalutare tout court il ruolo della metafora: “ Resterà da vedere che ruolo gioca e come si configura il linguaggio umano- costituzionalmente metaforico e richiesto come tale dallo stesso processo dialogico instaurato da Dio[…]”, pag. 118.

359 Dice I. Kajon, Il pensiero ebraico del Novecento, Donzelli, Roma, 2002: “ Il linguaggio umano […] ha saputo già esprimere e rappresentare tale realtà: Rosenzweig si richiama spesso nella Stella della Redenzione alla Bibbia e alle fonti ebraiche – dal Pentateuco, ai Profeti, al Cantico dei Cantici, ai Salmi, alla letteratura rabbinica, fino alla liturgia e ai pensatori medievali – per analizzare i vari aspetti di tale realtà umana”. pag. 71.

funzionamento metaforico del linguaggio come arresto del concettuale e la ponga dunque in termini di complicità al proprio, protagonista indiscusso nella costruzione di senso. Se la metafora è esclusivamente una figura tropologica sostitutiva di un termine improprio ad uno proprio sulla base della somiglianza, è evidente il rifiuto da parte di Rosenzweig della sua “utilità”, laddove in contrapposizione con la filosofia tradizionale, indifferente al linguaggio, egli ribadisce l’importanza del linguaggio come creatore di senso. Rosenzweig, dunque, in certo qual modo anticipando tematiche care al dibattito ermeneutico contemporaneo, mette in discussione la concezione “tradizionale” di metafora, appesantita da pregiudizi e soprattutto da un certo modo di fare filosofia, che relega nella zona d’ombra dell’improprio tutto ciò che sfugge al controllo del concettuale e che, attraverso il rinvio al proprio- “ciò significa”- addomestica il linguaggio ad esclusiva referenzialità orizzontale. Il linguaggio, luogo di polisemie e metafore, è un problema per la filosofia dell’univoco, della perfetta trasparenza, e un pericolo, tanto da ottenere un dominio separato, in un gioco di opposizioni che hanno preservato il dominio del proprio attraverso il rinvio alla sua sfera.

In una concezione filosofica in cui il linguaggio acquisisca un ruolo non più di opposizione, ma di complicità con la sfera teoretico-concettuale, in cui anzi esso non si ponga più come limite, bensì come arricchimento, le “ ben più che metafore” non hanno bisogno di alcun rinvio al proprio: esse divengono un modo di conoscere e significare essenzialmente. Dunque il linguaggio, parafrasando Derrida, è scandalo per la filosofia, ma allo stesso tempo deve porsi come sua più grande risorsa, poiché non inerisce ad alcuna sospensione di codice, ma è incremento nella costruzione di senso. 361 E Rosenzweig dunque considera la metafora come un processo di significazione primario, non parafrasabile, “ che accoglie su di sé la ricchezza e l’inventività dei nomi rivelati nella Scrittura, entro cui il significante non debba più ricorrere al rimando verso un differente significato esterno, ma esprimere l’inesprimibile, per così dire, il senso che sta “oltre”, l’infinità della lingua cioè che spinge verso la sua unità originaria, come in

seguito svilupperà Benjamin e come si ritroverà analizzato in modo non dissimile da Benveniste e dalla Arendt”.362

Lontano ormai dal pregiudizio che vuole la metafora come semplice accessorio ornamentale, il Nostro afferma

[…] per l’amore la metafora non è affatto un orpello accessorio, bensì essenza. Tutto ciò che è transitorio può essere anche solo metafora, ma l’amore non è “solo” metafora, bensì è in tutto e per tutto ed essenzialmente metafora.363

La sua eccedenza oltre il proprio diviene la sua costituzione essenziale, la sua capacità di giungere allo strato profondo della rappresentabilità se rinvia, rinvia sempre ad un origine fusionale tra parola di Dio e parola dell’uomo364.

Il linguaggio diviene tesoro inesauribile per la filosofia, e la sua trasgressività polisemica strumento irrinunciabile alla conoscenza “essenziale”. L’amore di Dio per l’uomo, che trova parola nella rivelazione, non è “solo” metafora, è “in tutto e per tutto metafora”, in un senso che ormai appare chiaro, e Rosenzweig procede dunque alla scoperta di questo linguaggio comune di Dio e dell’uomo, che trova un’ulteriore momento significativo nell’analisi semantica, e filosofica, del Nome e dei nomi, e che garantisce l’orientamento verso la Redenzione.