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Walter Benjamin: un ebreo out-sider.

BENJAMIN E L’ALLEGORIA

1. Walter Benjamin: un ebreo out-sider.

“La vérité, pour être multiple, n’est pas double”. Charles Baudelaire.

Queste le parole di G.Scholem, amico ed interprete del pensiero benjaminiano:

Esiste una profonda differenza tra la maggiorparte degli autori ebrei che sono diventati celebri nella letteratura tedesca, e un piccolissimo gruppo, che è però di altissimo livello. Per quelli del primo gruppo, come ad esempio nell’ultima generazione Arthur Schnitzler, Jakob Wassermann,

Franz Werfel, Stefan Zweig, il fatto di appartenere alla cultura tedesca, ovvero al popolo tedesco, è cosa ovvia. A questa inquietante e tragica illusione […] soltanto pochi tra i cervelli di prim’ordine dell’ebraismo di lingua tedesca sono sfuggiti. Tra costoro si annoverano Freud, Kafka e Benjamin. Quasi per l’intera loro esistenza essi si sono serbati indenni dalla fraseologia tedesca, anzi dall’esprimere “noi tedeschi”, e scrissero con piena coscienza della distanza che, in quanto ebrei, li divideva dai loro lettori tedeschi.451

G. Scholem, mediatore eccellente delle “due tradizioni” che investivano l’ebreo tedesco a ridosso della II guerra mondiale, ovvero quella dettata dall’ideale illuministico della Bildung e quella apocalittica- poi colta dalla destra tedesca nazionalista e razzista- che autori come Bloch e Buber452 tentarono di assoggettare al proprio pensiero, riuscendo a coniugare il suo interesse per il misticismo ebraico all’esercizio dello spirito critico, sottolinea l’esperienza dell’estraneità, “anzi dell’esilio”453, che la maggiorparte degli altri autori, esclusi i tre citati nell’esiguo gruppo, si sono sforzati di negare.

Walter Benjamin risulta da questo quadro come preservato dalla terribile illusione di trovarsi in Germania come nella propria “patria”, per quanto egli si sappia legato alla lingua tedesca e alla sua cultura.

Erano, nel vero senso della parola, uomini di un altro paese: e lo sapevano.454

Quanto accennato finora ci pone di fronte al complesso problema dell’elemento ebraico in questo pensatore poliedrico quanto capace di aprirsi al confronto con la crisi della sua epoca, dilaniata dalle guerre mondiali e testimone del nazismo ( di cui lo stesso Benjamin rimase fatalmente vittima).

451 G. Scholem, Walter Benjamin in Über Walter Benjamin, Suhrkamp, Frankfurt a. M., 1968, tr. it. Walter

Benjamin in Walter Benjamin e il suo angelo, Adelphi, Milano, 1978, pag. 99.

452 Come ci suggerisce anche G. Mosse nel suo Il dialogo ebraico tedesco. Da Goethe a Hitler, op. cit.: “ […] E così Bloch ad esempio tentò di utilizzare la tradizione apocalittica per dare al marxismo una dimensione esplosiva” e prosegue “ […] I racconti chassidici ( di Buber, n.d.A) suscitarono un grande entusiasmo tra i giovani ebrei alla vigilia della I guerra mondiale, proprio perché vi avevano trovato una cultura ebraica che poteva placare la loro fame di mito. Buber forma una tradizione ebraica affascinante già familiare grazie ai mistici tedeschi. Egli nobilitò l’imbarazzante passato del ghetto mettendo sullo stesso piano il misticismo ebraico e una rispettabile tradizione tedesca mistica ed apocalittica, agghiddando i chassidim a uso e consumo degli ebrei emancipati[…]”, pag. 52. 453 G. Scholem, Walter Benjamin, op.cit., pag. 100.

Il dialogo ebraico- tedesco, caratterizzato da un forte ottimismo che incarnava perfettamente l’ideale della Bildung illuministica e che aveva garantito efficacemente il processo di emancipazione ebraica ( poiché trascendeva le differenze di religione e nazionalità in favore di una “crescita” individuale), aveva talmente influenzato e direzionato la cultura di Weimar455, che proprio un giovane Benjamin scriverà “ […] soprattutto nello studio di Goethe uno trova la propria essenza ebraica”456. Per il Nostro infatti nello studio di Goethe si rivela la natura dell’ebraicità; non a caso G. Scholem ci rammenta che fu proprio lo studio di Goethe e Hölderlin, nonché la traduzione in tedesco di Proust e Baudelaire, a spingere Benjamin a voler affrontare lo studio della lingua ebraica, proprio nel tentativo di dare risposta a quelle domande sorte durante tali attività457.

L’ebreo che comprendeva la cultura tedesca e che aveva interiorizzato Goethe, Fiche e Humbolt si sarebbe più facilmente garantito una coscienza nazionale ebraica: questa la convinzione di quegli ebrei che, come Rosenzweig, non ebbero modo (e chi ebbe modo dovette amaramente ricredersi) di esperire la latente discriminazione che di lì a pochi anni avrebbe investito la cultura tedesca.458 Gli ebrei della Repubblica di Weimar raggiunsero infatti pienamente il loro obiettivo di emancipazione.

Benjamin, che nasce a Berlino il 15 luglio 1892, proviene infatti da una borghesia ebraico-tedesca benestante ed emancipata. Il padre Emil era nato a Colonia, e dopo aver trascorso diverso tempo a Parigi, era infine giunto a Berlino dove era diventato proprietario di una redditizia casa di vendite all’asta, divenendo un solido borghese portatore di quegli ideali di

455 Addirittura Mosse parla della stessa cultura di Weimar- “alquanto maliziosamente”- come proprio di “un dialogo interno ebraico”; G. Mosse, Il dialogo ebraico tedesco, op.cit., pag. 36.

456 Lettera di Benjamin a L. Strauss del 7 gennaio 1913, in a cura di G. Schmidt, Benjaminiana, Anabas, Giessen, 1991.

457 D’altronde Benjamin si misurerà significativamente con l’opera goethiana nel suo saggio Goethes

Wahlverwandtschaften, pubblicato in due puntate, tra l’aprile 1924 e il gennaio 1925 sulla “ Neue Deutsche Beiträge”, diretta da Hugo von Hofmannsthal, tr.it Le“ Affinità elettive” di Goethe, in Angelus Novus, Einaudi,

Torino, 1962, pag. 163- 247.

458 Gli ebrei di Weimar, nei fatti, aderirono ad una ideologia ormai abbandonata dalla stragrande maggioranza dei tedeschi. “ I modelli di pensiero a cui gli ebrei si votarono, portò loro a molte illusioni sulla natura del popolo tedesco. La loro fede nella cultura subordinava la politica ai grandi principi.”, G. Mosse, Il dialogo ebraico-tedesco,

op. cit., pag. 88. Addirittura, moltissimi ebrei-tedeschi, educati alla Bildung, consideravano impossibile la presa di

Sekurität e Geborgenheit che caratterizzavano così bene quell’ottimismo accennato in precedenza. Anche la madre, Pauline Schönflies, apparteneva ad una famiglia di ricchi commercianti ebrei ed era sorella di Arthur Schönflies, matematico di grande fama e professore all’università di Francoforte sul Meno. Ma, nonostante il rigido tentativo, in particolar modo da parte paterna, di uniformare il giovane Walter ai suoi modelli esigendo quella “somiglianza” a cui invece il Nostro da subito dimostra una forte estraneità, Benjamin è in grado di orientare il suo sguardo oltre l’interieur dell’ovattato abitare guglielmino verso quel “passaggio” di secolo, così ben descritto in Berliner Kindheit459, anticipatore di tutta quella portata di decadenza ed irrazionalismo che avrebbe caratterizzato gli anni a venire. F. Masini descrive molto bene il latente irrazionalismo dell’età di Weimar nei suoi studi sulle avanguardie460 e sottolinea anzi che “non basta dire che il signum dell’età weimeriana è l’irrazionalismo, nel quale si esprimerebbe una disordinata aspirazione alla totalità”461. Questa espressione infatti rischia di connotarsi troppo genericamente in un’idea “velleitariamente omnicomprensiva, nella quale è difficile cogliere i processi di dissoluzione del quadro umanistico-liberale e la contemporanea reimpostazione di un nuovo assetto soprastrutturale”462. Tale reimpostazione, che Masini coniuga in un orizzonte nichilista che risente di una netta influenza marxista, ci permettere di comprendere in maniera significativa la categoria di “irrazionale” operante in qust’epoca: esso “esprime in questo periodo una forma elementare o, se si vuole, primordiale di autocoscienza dell’intellighenzia borghese in rapporto al problema della “civiltà”, giacchè proprio quel processo di razionalizzazione che doveva garantire il fondamento “umano” delle sue rappresentazioni normative e delle proposte di ideali, al pari delle sue stesse istituzioni, si ribalta, in realtà, nell’irrazionale”463.

459 W. Benjamin, Berliner Kindheit um neunzehnhundert. Fassung letzer Hand (1938), Suhrkamp Verlag, Frankfurt a.M., 1987, tr.it. Infanzia berlinese intorno al millenovecento. Ultima redazione (1938), Einaudi, Torino, 2001. 460 F. Masini, L’espressionismo: una rivoluzione per l’elementare, in “Metaphorein”, 1, 1977, pag. 44-54; ID. La

rivoluzione conservatrice e il problema della tecnica nella repubblica di Weimar, in “Methaforein”, 3, 1978, pag.

35-44.

461 F. Masini, La rivoluzione conservatrice e il problema della tecnica nella repubblica di Weimar, op.cit., pag. 32. 462 F. Masini, La rivoluzione conservatrice e il problema della tecnica nella repubblica di Weimar, op.cit., pag.32. 463 F. Masini, Brecht e Benjamin, De Donato, Bari, 1977, pag. 62.

C’è da aggiungere, inoltre, che il sostegno all’avanguardia, per il novum della cultura, fu costruito “internamente” alla tradizione ebraico-tedesca, da parte di tutti coloro i quali, come Benjamin, esclusi dal mondo accademico, furono spinti dai loro stessi interessi culturali verso quelle che allora erano considerate professioni marginali: letteratura, arti figurative, teatro, giornalismo. Pian piano, quell’assimilazione ottimistica dei “padri” rivela la sua controparte nei primi segni di emarginazione proprio di quegli ideali che proprio l’assimilazione avevano garantito. Tutto ciò deve indurci a considerare che dunque l’isolamento ebraico, in fondo, era di fatto già una realtà molto prima delle dichiarazioni antisemite di Hitler: sia che fosse creatore o fruitore di “modernità”, all’ebreo cominciò lentamente ad essere assegnato il ruolo di outsider .

A prescindere dai giudizi di valore su questo status, espressi da varie direzioni464, il segnale che esso indica, direziona un collegamento fecondo con le parole di G. Scholem che descrivono la parabola esistenziale benjaminiana tutta all’interno di tali coordinate, ed era questo che ci premeva sottolineare: la sensibilità del Nostro riesce a captare, a cavallo tra XIX e XX sec., la temperie culturale che avrebbe preso piede sul finire della II guerra mondiale e che vide il venir meno di quella borghesia che gli ebrei-tedeschi rappresentavano, con tutta la sua fiducia nei classici, nella securitas equilibrata e permeata di razionalità, a vantaggio di una crisi che avrebbe messo in discussione questa “soffocante”- per usare un’immagine benjaminiana- eredità.

Benjamin infatti rappresenta, come d’altronde un altro autore da lui molto amato e studiato, F. Kafka, l’opposizione più radicale alla sua stessa estrazione sociale e culturale e, nello stesso tempo, un ripensamento radicale della stessa matrice ebraica, guscio ormai vuoto per la borghesia illuminata ebraico-tedesca. È sempre G. Scholem a fornirci ragguagli in proposito:

Negli anni più silenziosi della sua preparazione durante e subito dopo la prima guerra, il fenomeno dell’ebraismo occupò Benjamin con grande e scrupolosa intensità. Leggeva molto, sebbene in modo sporadico, su tale argomento ( l’ebraismo, n.d.A.). Quando, nel 1916, gli riferii il fatto sorprendente che la grande opera sulla Kabbalah, in quattro volumi, del discepolo di

464 Mosse, ad esempio ed emblematicamente, afferma che proprio lì, “ai margini della società riconosciuta e tradizionale, ebbe luogo un vero e proprio dialogo ebraico-tedesco” e conclude che “fu proprio il loro involontario ruolo di outsider a lasciare alle future generazioni un retaggio molto più significativo di quello lasciato dagli integrati”; G. Mosse, Il dialogo ebraico tedesco, op.cit., pag. 38-39.

Baader, Molitor, Philosophie der Geschichte, oder über die Tradition [ Filosofia della storia, ovvero intorno alla tradizione], comparsa da sessanta a ottanta anni prima, era ancora reperibile presso la casa editrice, fu questa una delle prime opere sull’ebraismo ch’egli s procurò, e tenne per molti anni il posto d’onore nella sua biblioteca.465

E conclude, aggiungendo un tassello per noi oltremodo interessante:

Benjamin, come dimostrano molti suoi scritti, era un lettore appassionato di Stern der Erlösung [ Stella della redenzione] di F. Rosenzweig, la più originale opera di teologia ebraica della nostra generazione.466

Benjamin, secondo Scholem, vi aveva appreso- come nei cabalisti- il profondo legame tra pensiero teologico ebraico e linguaggio. “ Nelle lettere e nelle conversazioni egli ritornava sempre su questioni ebraiche, sottolineando bensì fortemente la propria ignoranza per tutto quanto riguardava i particolari concreti, ma scavando spesso, con l’intensità che gli era propria, nei problemi dell’ebraismo come in una faccenda che lo toccasse nel più intimo del suo spirito […]”467.Due sono le categorie che Scholem ci indica negli scritti benjaminiani, quali quella di rivelazione- “ l’idea base della Torah, la concezione della dottrina e dei testi sacri in genere”468- e poi il messianismo e la redenzione.469

Se Rosenzweig dunque è stato indubbiamente una delle chiavi di accesso all’ebraismo per Benjamin, ciò non giustificherebbe l’elusione dell’elemento problematico e contrastante della ricezione benjaminiana dell’autore della Stella. Occorre a questo punto una precisazione: il nostro studio accomuna questi autori, con Levinas, in una prospettiva ebraica che ha conseguentemente reso più disponibile l’apertura di questi nei confronti del linguaggio e dunque della sua portata analogica, declinando un’impostazione filosofica che del linguaggio non potesse più fare a meno. Lo sforzo di questa ricerca è dunque incentrato sull’individuazione di

465G. Scholem, Walter Benjamin, op.cit., pag. 101. 466Ibidem.

467Ibi, pag. 102.

468G. Scholem, Walter Benjamin, op.cit., pag. 103.

469 “ L’importanza ch’esse avevano come idee regolatrici del suo pensiero, e che le renderebbe meritevoli di un’approfondita analisi particolare, è davvero incalcolabile”, ibidem.

questa componente di riconoscimentodell’impossibilità di un filosofare significativo senza linguaggio, laddove le istanze del sistema hanno dichiarato le proprie debolezze. Contro un “certo tipo” di filosofia, Rosenzweig, Benjamin e Levinas mutuano una comune attitudine alla sua trasgressione, attraverso l’appello ad una differenza che trovi appunto in una diversamente modulata matrice ebraica gli orientamenti interni al linguaggio, finalmente temporalizzato. Ma tutto questo non vuole e non deve condurci ad una “acritica” accettazione della violenza dell’accomunazione.

Nel caso specifico Rosenzweig-Benjamin, tale rapporto, tra l’altro variamente riflettuto470, si configura come complesso e di non immediata evidenza filologica- inoltre gli scarni espliciti riferimenti testuali benjaminiani a Rosenzweig sono per lo più di carattere critico471- ed il comune spazio concettuale di partenza, che si disegna intorno alle coordinate della radice ebraica e della presa di coscienza del declino della filosofia tradizionale, conduce a risultati finali sostanzialmente divergenti. La diversa concezione e valore conferiti alla “tradizione”, l’uso “strumentale” che quasi ovunque Benjamin fa di Rosenzweig, gli esiti comunque divergenti dei comuni concetti di “rivelazione” e “redenzione”, il differente utilizzo dell’elemento messianico, nonché gli espliciti richiami a concetti e riflessioni rosenzweighiane, specialmente nel suo libro sul Trauerspiel, concorrono tuttavia ad un approfondimento dell’originale affinità.

Tale affinità infatti, che trova nel linguaggio una significativa risorsa, ci permette inoltre, in questo contesto- ed è questo che qui ci interessa-, di meglio delineare l’ebraismo di Benjamin, anche e soprattutto grazie al gioco di luci ed ombre del suo rapporto col teologo ebreo. L’esplicitazione della Deutch-judentum, che permise a Rosenzweig di vedersi garantite tanto una patria che una soddisfacente base materiale, in un contesto in cui non vi fu motivo di “problematizzare” la propria ebraicità, fu invece da Benjamin riflettuta talmente in profondità al

470 Citiamo alcuni dei lavori a riguardo: E. Greblo, Eternità e storia. Tragedia, lingua e redenzione in Franz

Rosenzweig e Walter Benjamin, in “ Filosofia politica”, anno III, 1, giugno 1989, pag. 117-137; F.Friedmann, Von Cohen zu Benjamin. Zum Problem deutch-jüdischen Existenz, Johannes Verlag, Einsiedeln, 1981, tr. it Da Cohen a Benjamin. Essere ebrei tedeschi, Giuntina, Firenze, 1995.

471 Si veda a tal proposito W. Benjamin, Briefe, a cura di T.W. Adorno e G. Scholem, Suhrkamp, Frankfurt a. M., 1966, tr.it. Lettere 1913-40, Einaudi, Torino, 1978.

punto tale di poter affermare: [..] I rapporti segreti fra tedeschi ed ebrei possono affermarsi legittimamente in un modo completamente diverso[…] Del resto vale, credo, la mia tesi […] che una salutare complicità obbliga, oggi, le nature nobili dei due popoli al silenzio della loro alleanza”472.

Il suo stato esistenziale di outsider modulerà le sue domande sull’ebraismo in un contesto in cui l’idea di redenzione è indissolubilmente legata ad un nucleo di “rovine” in cui solo il messianesimo attiva la possibilità del risanamento della scissione originaria tra i Nomi e le cose. La redenzione, a differenza di Rosenzweig, diviene per Benjamin la realizzazione, nello Jetzteit, di un’esperienza sensibile che coinvolge l’essere comunicabile e l’essere comunicato, senza alcun appello alla tradizione. Per Benjamin infatti l’ebraismo non si configura più come un solido sistema di coordinate entro cui inserire il proprio pensiero, ma diviene un elemento interiore di orientamento della ricerca filosofica473 che difficilmente appare univoco al lettore delle sue opere. Tutto ciò ha spesso rinchiuso il pensiero di Benjamin nelle strettoie della nota dicotomia materialismo storico/teologia che, al di là della sua effettiva presenza nella riflessione del Nostro, rischia di semplificare quel poliedrico fascino di cui trasudano le pagine delle sue opere.

Un ebraismo implicito dunque, che ha creato le condizioni per un’impostazione esistenziale che ha sempre negato validità non ad un atteggiamento radicale, bensì ad una formale accettazione esclusiva di questo o quell’orientamento, conferendogli lo status di outsider, o nomade esistenziale.

Proprio in questa direzione si declina per Benjamin un’altra profonda affinità intellettuale, che approfondisce tale costellazione e permette un’ulteriore “messa a fuoco” dell’ebraismo del Nostro: tale il suo interesse per F. Kafka. L’interpretazione che Benjamin fa dell’opera kafkiana, apertamente in contrasto con quella fornita da Max Brod e con il tentativo scholemiano di

472 W. Benjamin, Briefe, op. cit., pag. 63.

473 Si veda a tal proposito P. Consigli, Ricomporre l’infranto. W. Benjamin e il messianismo ebraico, in “aut-aut”, 211-212, 1986, pag. 151-174; I. Wohlfahrt, Sur quelques motifs juifs chez Benjamin, in “ Revue d’ Esthétique”, 1, 1981, pag. 141-162; C. Schmidt, Zum Fall Benjamin: Benjamin als Judischer Theologe? In “ Revue de

scorgerv il’idea cabalistica della rivelazione ricondotta “al proprio nulla”, che permetterebbe almeno una permanenza- senza significato- della tradizione, si muove decisamente in direzione dell’idea di un’eclisse, di una perdita della tradizione che pur tuttavia significa ancora nell’elemento haggadico, del commento, e dunque del lato trasmissibile della verità. “ Kafka ascoltava la tradizione e chi ascolta con sforzo e fatica non vede. Questo ascoltare è faticoso soprattutto perché ciò che percepisce chi ascolta è assolutamente vago e confuso”474.

Frammenti, macerie, eclissi dei significati: questo è il nomadismo benjaminiano, questa è la radicalità del suo ebraismo, che tuttora trasuda una fortissima istanza messianica. “ V’è una speranza infinita ma non per noi” pare abbia detto Kafka a Max Brod in una conversazione e Benjamin dice a Scholem: “ Questa frase racchiude veramente la speranza di Kafka. Essa è la fonte della sua radiosa serenità”475.

Al di là di ogni certa ed ufficiale adesione all’ebraismo tout court476, Benjamin approfondirà e riconoscerà all’ebraismo un’importanza sempre più determinante di pari passo con l’irrimediabile accettazione dell’esilio.

Una breve incursione nella sua biografia ci permetterà infine una più centrata delineazione delle tematiche affrontate sinora.

Dopo un’infanzia che potrebbe essere descritta brevemente da una graffiante descrizione che Benjamin stesso ci offre di una sua fotografia da bambino-“ Ovunque guardassi, mi vedevo assediato da quinte, cuscini, piedistalli, che appetivano la mia immagine come le ombre dell’Ade il sangue delle vittime sacrificali”477-, egli inaugura il suo altrettanto infelice accesso ufficiale478

474 Benjamin- Scholem, Teologia ed utopia, Einaudi, Torino, 1987, pag. 255. 475 Benjamin, Briefe, op. cit., pag. 348.

476 Molti sono i suoi rifiuti in tale direzione: nel carteggio con L. Strass del 1912-1(pubblicato da G. Schmidt,

Benjaminiana, op. cit.), egli declina l’invito di Strass a partecipare ad una rivista dedicata alle problematiche relative

alla Deutsch-judentum, ribadendo la propria distanza dal sionismo politico: “ Ho vissuto le mie decisive esperienze spirituali rima che l’ebraismo diventasse per me problematico. […] Come religione mi era lontana, cme nazionalità sconosciuto.”(lettera a L. Strass dell’ottobre 1912); anche a Buber rifiuta un’eventuale collaborazione alla sua rivista “ Der Jude”, adducendo come motivazione una diversa concezione del linguaggio, che in realtà si aggiungeva ad una sentita riserva sulle componenti vitalistiche dell’ Erlebnis ebraica e dello Urjudentum buberiano; inoltre è noto come, nonostante l’intenzione di imparare l’ebraico e trasferirsi in Palestina da un insistente Scholem, mai attuerà questo proposito, preferendo un’esistenza all’insegna dell’insicurezza e della precarietà.

477 W. Benjamin, Berliner Kindheit, op. cit., pag. 55.

nel 1901, presso la “Kaiser- Friedrich-Schule” di Berlino. Il liceo guglielmino è traumatizzante per il giovane Benjamin, tanto che per motivi di salute lo abbandona. È lui stesso a parlarne in un curriculum vitae: “ […] Ma poco dopo la Pasqua del 1904 ho dovuto lasciare la scuola, e dopo che per migliorare le mie condizioni di salute sono rimasto per diversi mesi senza lezione, sono entrato nella Untertertia del “ Landerziehungsheim” di Haubinda presso Bildunghausen diretto