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Possono davvero esistere artefatti astratti?

Questioni ontologiche

2.3 Argomenti contra ficta.

2.3.1 Possono davvero esistere artefatti astratti?

In questo paragrafo vorrei proporre infine un argomento originale, diretto nello specifico contro gli oggetti finzionali intesi come artefatti astratti. Si può convenire che una metafisica creazionista

minimale consisterebbe semplicemente nella tesi che i ficta sono entità astratte generate dalle

nostre attività intenzionali. Ciò comporta che l'esistenza di individui come Sherlock Holmes e Anna Karenina abbia un inizio, e verosimilmente anche una fine, nel tempo. Come abbiamo visto nel primo capitolo, alcuni artefattualisti si spingono a sostenere che gli oggetti finzionali hanno non soltanto una collocazione temporale, ma anche una collocazione spaziale. Date queste premesse, proverò a mostrare che la versione artefattualista del realismo non è davvero sostenibile, per il semplice fatto che la nozione stessa di un abstractum creato è o contraddittoria, o incomprensibile, o incompatibile con la teoria fisica dominante.

In primo luogo, l'artefattualista e l'uomo della strada concordano sul fatto che creare qualcosa significa dare inizio alla sua esistenza. Un artefatto è, per definizione, un oggetto che non esiste in natura ma che, a un certo punto, viene creato ad arte: qualcuno fa sì che qualcosa di nuovo, in qualche modo, cominci a esistere. In secondo luogo, conveniamo di adottare la seguente definizione (standard) di concretezza: un'entità è concreta se e solo se è collocata nello spazio- tempo; inoltre, un'entità è astratta se e solo se non è concreta.78 Ora, per amor di discussione, assumiamo le due tesi di Goodman (2003): gli artefatti astratti, come Sherlock Holmes e Anna Karenina (ma anche le Variazioni Goldberg e la Costituzione), hanno una collocazione temporale e una collocazione spaziale, per quanto non determinata (v. § 1.1.1). Un artefatto è dunque, in quanto artefatto, collocato nello spazio-tempo e, in quanto astratto, non concreto, ovvero non collocato nello spazio-tempo. Primo corno del dilemma: la nozione di artefatto astratto è contraddittoria. Naturalmente, l'artefattualista può rigettare le definizioni standard di concretezza e astrattezza, sostenendo che l'essere astratto non implica l'essere al di fuori dello spazio-tempo. Ma allora non si capisce cosa voglia dire, per un'entità astratta, l'essere astratta. Secondo corno: la nozione di (artefatto) astratto è incomprensibile.

Il nostro dilemma, però, è in verità un trilemma. La tesi che gli artefatti hanno una collocazione spaziale, infatti, può essere abbandonata senza grosse difficoltà, dal momento che non è implicata dalla definizione di artefatto. Al contrario, ne è implicata la tesi che gli artefatti hanno una collocazione temporale: qualunque cosa sia stata creata, ha un inizio e una fine nel tempo; avere

combattono gli uni contro gli altri ne Il signore degli anelli.

un inizio e una fine nel tempo significa avere una collocazione temporale; dunque, qualunque cosa sia stata creata, ha una collocazione temporale. In effetti, assumendo soltanto quest'ultima tesi, la contraddizione è evitata: essere nello spazio-tempo significa essere nello spazio e nel tempo; Sherlock Holmes è nel tempo ma non nello spazio; dunque, Sherlock Holmes non è nello spazio- tempo. Il problema è che, così precisata, la nozione di artefatto astratto è incompatibile con la teoria fisica dominante. Secondo la relatività generale, infatti, vale il seguente principio:79 per ogni oggetto x, se x esiste allora x è esteso nello spazio se e solo se x è esteso nel tempo. Sherlock Holmes e le Variazioni Goldberg sarebbero, in questa versione (che è poi anche la più diffusa) dell'artefattualismo, entità estese nel tempo ma non nello spazio, cioè precisamente il tipo di entità la cui esistenza è esclusa dalla fisica.

Quest'ultimo argomento, ammesso che sia fondato, mostrerebbe che le entità astratte non platoniche, nel senso consueto di non atemporali, devono essere escluse dall'inventario ontologico. Pertanto, colpisce l'artefattualismo ma non il meinonghianismo (neppure nella sua versione astrattista), e lascia dunque aperte molte strade al realista sugli oggetti finzionali. In ultima analisi, al termine di questa lunga rassegna, sembra ragionevole concludere che nessuno degli argomenti proposti è veramente definitivo, e che dunque decidere tra realismo e anti-realismo (nel caso dei

ficta come in altri casi) non è più semplice sul terreno ontologico che su quello semantico.

Proviamo però a considerare uno scenario in cui la migliore teoria inflazionista e la migliore teoria deflazionista hanno il medesimo potere esplicativo: seppure in maniera differente, spiegano esattamente lo stesso numero di dati. Una teoria sarà più elegante (probabilmente quella inflazionista), l'altra più conforme al senso comune (probabilmente quella deflazionista), ma in ogni caso le virtù epistemiche dell'una bilanciano quelle dell'altra.

Ora, una volta proposta una teoria che renda conto di tutti i dati disponibili senza postulare oggetti finzionali, il filosofo D (così l'abbiamo chiamato nel § 0.1) può appellarsi senz'altro al rasoio di Ockham. L'accusa di finta parsimonia, sollevata da Thomasson (1999), sarebbe valida soltanto se fosse davvero possibile costruire una tavola esaustiva delle categorie, e se la nozione di parsimonia invocata si dimostrasse effettivamente accettabile: entrambe condizioni della cui soddisfazione, come abbiamo visto, si ha ragione di dubitare. Il filosofo D, rivolgendosi all'inflazionista, dirà pertanto qualcosa del genere: come sappiamo entrambi, non bisogna moltiplicare le (categorie di) entità se non è necessario farlo; ti ho mostrato che non è necessario moltiplicare le (categorie di) entità per rendere conto delle nostre pratiche finzionali; dunque, non

bisogna farlo. Ma come se la cavano davvero, nel confronto coi dati, le teorie deflazioniste attualmente sul mercato? È arrivato il momento di scoprirlo.

PARTE SECONDA