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I prodromi della monumentalizzazione: dai cimiteri di guerra agli ossari militar

CAPITOLO III. SALME E AMMINISTRAZIONE MORTUARIA NEL DOPOGUERRA

3.6 I prodromi della monumentalizzazione: dai cimiteri di guerra agli ossari militar

Dopo il 1918, nell’arco di un ventennio, i monumenti dedicati ai caduti del primo conflitto mondiale acquistarono configurazioni e soluzioni artistiche diverse, passando dal piccolo cippo agli ossari e dai parchi delle rimembranze ai sacrari monumentali. Accanto alle proposte architettoniche per alcuni concorsi nazionali, come quello del Monumento al Fante461, si sviluppò una memoria di pietra462 destinata a lasciare in

461 L’idea di erigere un monumento commemorativo era stata lanciata per la prima volta, dopo la disfatta

Caporetto, dal quotidiano Grigio Verde, che aveva a sua volta ripreso la proposta del duca d’Aosta al pittore Rodolfo Villani (1881-1941), per onorare i caduti della III Armata nel 1917. Nel giugno del 1919, il neo-costituito Comitato nazionale per la glorificazione del Fante invitò tutta la nazione a una sottoscrizione destinata a raccogliere i fondi per la costruzione di un monumento sul San Michele al Carso. Numerose furono le voci di protesta che si sollevarono, accusando il comitato promotore di voler profanare quel paesaggio, e molti furono pure gli articoli a mezzo stampa che proposero un dibattito circa l’opportunità o meno di erigere un monumento in quel luogo a perenne ricordo della vittoria e dei caduti. Confortato tuttavia da un’ampia adesione, il Comitato bandì il 15 gennaio del 1920 un concorso, la cui scadenza era fissata per il 26 di maggio dello stesso anno, al fine di erigere un monumento-ossario sul San Michele, chiedendo espressamente agli artisti italiani che intendevano concorrere «una grande opera

d’arte che dal luogo tragico si elevi in linea purissima». L’11 luglio del 1920, sempre per iniziativa del

Comitato, si inaugurò alla Pinacoteca di Brera la mostra degli elaborati presentati al concorso. Terminata la fase della selezione, vennero resi noti i nominativi dei 14 premiati e, nel contempo, si invitarono al concorso di secondo grado solo gli autori di cinque progetti: Guido Cirilli (1871-1954); Alessandro Limongelli (1890-1932); Giuseppe Mancini (1881-1954); Eugenio Baroni (1889-1935) e il gruppo formato da Enrico Agostino Griffini (1887-1952) e Paolo Mezzanotte (1878-1969). Il 31 maggio del 1921 venne inaugurata dall’onorevole Gasparotto, divenuto poi ministro della guerra, nelle sale di Palazzo Venezia a Roma, la mostra dei progetti presentati al concorso di secondo grado. Nove giorni dopo l’inaugurazione, la Commissione incaricata cominciò l’analisi dei lavori, che ebbe termine il 14 giugno con un verdetto unanime: nessuno dei cinque progetti risultò convincente per i giurati, nonostante l’ampio consenso popolare. Nel dicembre del 1921 il Comitato promotore nominò una nuova Commissione, decidendo di abdicare alla formula del concorso per affidare l’incarico a Baroni, molto amato dal pubblico nel corso delle esposizioni precedenti con il progetto ″Fante″, riservandosi tuttavia di confermare la definitiva deliberazione dopo un altro confronto con l’opinione pubblica. Da ogni parte d’Italia si sollevarono indignate proteste e l’opera di Baroni, sebbene il 5 dicembre del 1922 il Comitato avesse maturato la decisione di affidargli l’incarico, fu accusata di essere ″troppo madre″ e ″poco vittoria″. Gli stravolgimenti della politica italiana ritardarono ogni decisione e dall’emanazione del bando passarono tre anni. Il 6 gennaio del 1923, il neo-presidente del Consiglio dei ministri, Benito Mussolini, interpellato dal nuovo presidente del Comitato, il generale Enrico Caviglia, rifiutò l’autorizzazione per dare inizio ai lavori, decise di sciogliere il Comitato ed ebbe a dichiarare che il Monumento al Fante non sarebbe stato eretto né ora, secondo un progetto ″teatrale″ e ″disfattista″, che esprimeva «uno spirito indegno della

vittoria», né mai. (Cfr. M. SAVORRA, Da ossari a sacrari. Il Monumento al Fante e le retoriche della Grande Guerra, in Pietre ignee cadute dal cielo, cit., pp. 13-27). In realtà, il progetto di Baroni non era né

teatrale, né disfattista. A progetto compiuto, l’autore ritenne infatti opportuno di non stilare una relazione vera e propria, ma di riunire in una sorta di diario alcuni appunti presi nel corso del suo lavoro di progettazione. Dall’esame di questi appunti si evince che il principio cardine del progetto del Baroni doveva essere la visibilità dell’opera: «Il monumento si deve vedere a distanza. Ma si deve vedere e sopra

tutto godere in vicinanza. E’ in vicinanza che deve dare tutto al rendimento emotivo. Un monumento è fatto per essere veduto, e un Ossario specialmente per essere percorso. Una croce adagiata sulle pendici del monte è l’aspetto architettonico che con la sua forma assoluta «suscita il ricordo del sacrifizio»; è l’aspetto che si adatta a quell’immane cimitero di guerra che è il San Michele. La gradinata e l’Ossario sono del resto le forme appropriate a stilizzare la via che nella realtà dei luoghi ha fatto il fante: il camminamento e la trincea» (Cfr. E. BARONI, Il Monumento-Ossario al Fante sul Monte S. Michele,

Milano, maggio MCMXXII, pp. 5 ss.). Il Capo del Governo Nazionale e Primo Ministro respinse in realtà il progetto non perché esprimeva uno spirito indegno della vittoria, non perché teatrale e disfattista, ma perché la forma architettonica dell’opera avrebbe avuto la figura nitida e chiara di una croce luminosa,

destinata ad allargarsi e stagliarsi simbolicamente su tutte le pendici del monte. E la croce richiamava quel martirio che era stata la guerra, un dolore infinito del corpo e uno strazio sovrumano per lo spirito dei soldati, che non poteva essere rielaborato e interpretato artisticamente, tanto meno in una concezione cristocentrica, da chi intendeva abilmente servirsene come strumento di propaganda politica e consolidamento di un incipiente regime, ma solo da chi quel dolore e quello strazio aveva vissuto in prima persona, come lo scultore e architetto Eugenio Baroni, testimone diretto dell’orrore di una guerra che aveva condiviso giorno dopo giorno con i suoi commilitoni e che quel dolore, quello strazio, quell’afflizione lacerante dello spirito che invase l’animo dei militari sopravvissuti, sovente anche derisi e sbeffeggiati nel dopoguerra per le loro mostruose deformità, non mancò di ricordare nella bellissima, commovente e toccante lettera di addio ai suoi soldati che chiude il taccuino dei suoi appunti: « Non passò

un giorno, ed è più d’un anno che vi ho lasciati, non passo un giorno che non vi abbia pensati. E con tanto cuore come solo si pensa alla mamma che ci ha fatti e nutriti e ci ha insegnato a soffrire. Ma lei non c’è più e sono tanti anni ormai; voi ci siete, voi che tornaste alle vostre case, sparse per le montagne piemontesi, per le pianure friulane, pei boschi calabresi. Io, tornato un poco prima di voi alla mia casa rimasta quasi deserta, ho pensato di fare in umiltà un’opera che narrasse di voi. Lavorando, ero come uno che abbia smarrito il suo figliuolo e vuole ricordarlo. Non mi vergogno di dirlo a voi che non siete riusciti a vedermi piangere mai. Lavorando per voi ho sofferto ancora tutto quello che avevate sofferto nello stesso solco, nello stesso ghiaccio, nello stesso sangue, lo stesso vostro sangue che mi sprizzò (quante volte) sul viso, sulla giubba, sull’elmetto. Sul mio viso che era come il vostro, sulla mia giubba che era come la vostra; quando il vostro viso era contro le scarpe ferrate d’un compagno; quelle scarpe che, viste da vicino, tanto scalfite e fangose e faticate e consunte e lucide nei ferri, esprimevano più di ogni cosa la vostra santità; e quando non trovammo più l’Ulivieri portato via dallo scoppio, e vi vidi correre sull’orlo del cratere fra i macigni rotolanti e con la mitragliatrice sulla spalla, e stare fermi senza uno scarto mai fra i cadenti bucati o lacerati … Lasciamo i ricordi; non si finirebbe più. Ora avete finito, e io anche ho finito, ma non sono riuscito che a comporre una pallida eco. E se poco ho saputo fare è perché non scalpello, non penna potrà narrare mai il vostro patimento che non aveva mai fine, non aveva. Ma se vi pare che qualche cosa abbia saputo fare, siete voi che mi avete fatto degno. Oggi per me nessun sogno è più invocato di questo che ora vi dico; possa raggiungervi questa voce del passato; come allora, oggi vi ripeto una preghiera: « Se al ritorno nel paese avete veduto o subito ingiustizie, provato delusione e subìto derisione più empia d’ogni bestemmia a Dio, e se doveste moltiplicare la vostra fatica per riedificare il focolare e arare e seminare, non importa: ripensate alle vostre grandi memorie, e quelli che vorranno distruggerle li confonderete con la vostra fede, la più vera e suprema, quella del dovere compiuto. Quel dovere invocato dagli stessi derisori d’oggi, quando passavano le ore ansiose della patria, quando essi supplicavano e lusingavano la vostra misera carne perché fermasse il nemico. Sono gli stessi che dalle paludi lanciavano sino a voi che eravate sull’orlo altissimo d’Italia il disperato grido: «Resistere! Resistere!» Non importa se coloro vi diranno che tutto fu inutile e ingiusti i premi. Nulla andrà disperso, perché questa è la legge di Dio che è come voi immortale. Voi vedrete: questa voce ora fioca ridiventerà la voce di tutto il popolo. Ritorneranno le vostre grandi memorie: vi ho visto strapparvi alla madre, e marciare carichi di some per intere notti sotto il diluviare, e uno per uno ammucchiarvi, addossarvi in terra nel fango giorni e notti e giorni e notti, e dormire soavemente come svaniti con quel vostro viso di fanciulli del 99; vi ho visto dormire sui ghiacci e sui pendii scoscesi abbrancati a un albero; ho visto giungere in trincea dei condannati dai tribunali, e fu quando dissi a qualcuno: «Tu entri tra i miei figli, guai se mi li guasti; io sarò il tuo capo, ma anche il tuo migliore amico», e ognuno tornò a casa libero, redento e con la croce del valore; e vidi te, Colombaro, impallidire quando, invece di denunciarti per un tuo fallo, ti dissi cose tanto dure che diventasti poi tra i miei più fidi e ti promossi vice comandante per sostituirmi se fossi mancato. Ben so che bastava talvolta – da soli a soli – guardarvi severamente negli occhi e mettervi con atto di duro affetto una mano sulla spalla per guadagnare anche un perduto. Vi ho visto umili sotto la minaccia di punirvi perché davate via il vostro solo pane quando giungeste a Feltre, mentre mi domandavo come potevano questi ragazzi marciare ancora tanto dopo otto giorni e otto notti sul Grappa; vi ho visto in ogni ora e per tutto il calvario. E persino la madre di qualcuno di voi ho visto e mi sembrò una santa, quella stessa che scoppiò in pianto, neanche quando rivide il figlio, ma quando le fu detto: «Donna, vostro figlio è un valoroso». E tu Sanna, fante cieco Sanna!... Non hai veduto quando ho chiuso con la mano la bocca di chi, a te presentandomi, tentava di enumerarti non so che titoli e imprese. A te!... E avevi un tremito per umiltà, e anche io non mi ero mai sentito tanto nulla e vergognoso come al tuo cospetto. Tu non avevi che un piccolo nome sardo e la cecità per sempre; e avrei voluto baciare le tue orbite vuote, ma mi pareva di osare troppo e c’era gente che guardava; e ti ho prese le mani fredde e ho balbettato non so che parole di scusa e di venerazione. Tua madre era con te e ti placava il cuore…

eredità al patrimonio architettonico italiano delle opere particolarmente significative non solo dal punto di vista simbolico e scultoreo, ma anche da quello artistico e paesaggistico. La quantità e la qualità delle opere costruite, infatti, sono la spia del peso che ebbe il primo conflitto mondiale non solo sui reduci e le famiglie dei caduti, ma anche sulla memoria collettiva dell’intera popolazione nazionale. A questi monumenti fu infatti attribuito un duplice significato: da un lato essi dovevano rappresentare il sacrificio dei caduti in guerra463; dall’altro simboleggiare il compiuto processo di

Ancora i ricordi… Si, ricordatevi di tutto, ricordatevi. Ebbene, ditemi, come poteste tutto sopportare? Non fu il regolamento di disciplina, no; in certi momenti, in quei momenti non c’era che il regolamento della fatalità e della coscienza. E cosa è questo soffrire d’oggi se non un nulla? … No, un nulla, miei alpini mutilati! Se voi continuate a salire sul San Michele ancor ora che la guerra pare un sogno lontano, ora che la vostra carne è rinata sui moncherini, se taluno di voi ha subìto dileggi e percosse dalle folle sulle piazze, verrà anche il giorno in cui torneranno le vostre grandi memorie, e voi vedrete anche il giorno che quello stesso popolo venererà il vostro martirio. Intanto ricordatevi di tutto, ricordatevi, e non per maledire, ma per conforto dell’onore. Fanti, ricordatevi anche quanto vedeste e udiste a Feltre nel giorno della liberazione: le case saccheggiate, le donne e i bimbi consunti che gridavano: «Benedetti! Dio santo che patimento!», e vi baciavano la giubba e le impugnature delle mitragliatrici; ricordatevi il cimitero con tutti quei bambini insepolti e disfatti, e quella morta giovinetta bellissima con le gonne rialzate, le cosce aperte e il moncone di scopa confitto nella vagina. Ricordatevi! E non per la vendetta, ma per la eredità delle memorie. Vi abbraccio uno per uno, come vi dissi e non potei, quel giorno che ci siamo lasciati. Vostro ex comandante di compagnia E.B.». Cfr. Lettera ai miei soldati, giugno 1920 (« Invece d’una astratta conclusione l’autore ha creduto riassumesse meglio lo spirito dell’opera questa lettera che aveva scritto per i suoi soldati »), ivi, pp. 52-56».

462 Sul punto, v. amplius M. CARRARO, M. SAVORRA (a cura di), Pietre ignee cadute dal cielo. I

monumenti della Grande Guerra, Ateneo Veneto, Venezia 2014

463 Già nell’inverno del 1917-1918, S.E. Pecori Giraldi, comandante della 1a Armata, aveva emanato

disposizioni per l’istituzione in ogni reparto di uffici di assistenza morale e materiale, affidandoli ad ufficiali di particolare attitudine e competenza. Questi uffici provvedevano alla raccolta di denaro, per distribuirlo in sussidi alle famiglie dei soldati più poveri e per favorire l’ospitalità dei soldati dei paesi invasi. In accordo con altri enti, essi raccoglievano inoltre notizie dalle famiglie rimaste di là del Piave, istituivano Case del soldato e fondavano giornali e bollettini di propaganda. La Prima Armata aveva anche istituito gli spacci cooperativi, che, ben amministrati, permisero l’accantonamento di somme considerevoli, con le quali, in seguito, alla fine della guerra, potette essere istituita la « Fondazione 3

novembre 1918 pro ex combattenti della Prima Armata». Liquidati gli spacci cooperativi nell’inverno del

1918, il capitale risultatone, di oltre 2 milioni di lire, fu destinato alla costituzione della fondazione, con lo scopo di mantenere vivi i legami tra i combattenti dell’Armata e la grande unità, anzitutto mediante la erezione di opere monumentali ai caduti nei luoghi stessi della loro morte e della loro gloria. Un comitato provvisorio, nominato da S.E. Pecori e presieduto dal generale Ferreri, capo di Stato maggiore dell’Armata, attese a tutte le pratiche necessarie per erigere la fondazione in ente morale (cfr. Regio decreto 23 gennaio 1921, n. 95, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia del 23 febbraio 1921, n. 45). L’opera architettonica più imponente realizzata dalla fondazione fu appunto il Sacello-

Ossario del Pasubio, deputato a raccogliere i resti mortali dei caduti della Prima Armata. La prima idea, in

realtà, la ebbe un comitato nazionale sorto a Vicenza, ma, poco più che iniziata la costruzione del sacello, si dovette sospenderla per mancanza di fondi. Fu proprio allora che intervenne la Fondazione 3 novembre

1918, che si assunse tutte le spese per la continuazione dell’opera. Il monumento sorse sul colle di

Bellavista, a 1250 m. sul mare, in un piazzale tagliato nella roccia a picco sulla valle del Leogra, in modo tale che vi si potesse accedere, in qualsiasi stagione dell’anno, dal valico veneto-trentino del Piano delle Fugazze, attraverso la strada nazionale Schio-Rovereto. Alto circa 35 metri, esso fu destinato a raccogliere al proprio interno tutte le salme che si trovavano sparse per i vari cimiteri di guerra del Pasubio, e, tra esse, quelle dei colonnelli Gioppi e Suarez, ambedue insigniti della medaglia d’oro al valor militare, che avevano fermamente espresso la volontà di rimanere sepolti sul Pasubio. Il progettista del monumento fu l’architetto Ferruccio Chemello, mentre il costruttore incaricato di dare esecuzione all’opera fu Giorgio Pravato, di Thiene. Decoratore dell’interno del sacello-ossario fu invece l’artista fiorentino Tito Chini, ex combattente della Prima Armata. Nell’ottobre del 1925 risultava già attestata una spesa per la realizzazione dell’opera di oltre 900 mila lire, ma le offerte, sia da parte degli ex combattenti della Prima

unificazione nazionale, al punto che in ogni angolo della penisola non vi è ormai un luogo dove non si ricordi o non si commemori una parte degli oltre 500 mila caduti italiani nella Grande Guerra. Il fenomeno, tuttavia, non fu solo italiano, ma ebbe diffusione in tutta Europa, dove a partire dalla fine del conflitto si originò una concezione affatto nuova, in base alla quale la rappresentazione e la commemorazione dei caduti non doveva essere né selettiva, né legata ai soli teatri dove ebbero luogo le battaglie, bensì corale, estesa e generalizzata, tale da testimoniare il sacrificio sopportato dall’intera comunità nazionale e in forza della quale ogni singola provincia, ogni comune o frazione era dunque chiamato a rendere onore ai caduti e realizzare una perenne testimonianza del loro stesso sacrificio464. Il ritorno alla pace, dunque, dovette fare subito i conti con il drammatico lascito delle migliaia di caduti e con il dolore dei loro familiari, tanto che alle celebrazioni solenni si accompagnarono commemorazioni toccanti da parte delle singole comunità locali, espressione di una eterna riconoscenza da tributare ai caduti465. Un diffuso sentimento nazionale avvertì la necessità di commemorare i soldati che avevano perso la vita in guerra, attraverso una fitta rete di associazioni di ex combattenti e di comitati di parenti dei caduti costituitisi al fine di elaborare il lutto della morte di massa e di promuovere la costruzione di edifici monumentali nelle principali piazze cittadine e nei luoghi più simbolici dei teatri di guerra466. E’ in questa fase infatti che si avvia e si costruisce ciò che è stato definito il mito dell’esperienza della guerra467, che indusse a festeggiare la vittoria e nel contempo onorare la morte, riproponendo la questione già postasi in occasione delle commemorazioni funebri dei caduti nelle battaglie per l’indipendenza nazionale, circa la sepoltura collettiva delle spoglie mortali negli ossari o, piuttosto, nei sacrari468, e quale linguaggio architettonico adottare per esprimere il dolore e la riconoscenza legati all’universalità della perdita. Diversamente dalla ritualità liturgica di carattere post- unitario, che mancava, come ha puntualmente osservato Emilio Gentile di «spirito vitalistico ed esaltante del mito comunitario della rigenerazione e della rinascita

Armata, che da enti pubblici e soggetti privati, continuarono ad affluire alla fondazione, presso il Comando d’armata designato di Firenze, sino a tutto il 1926, quando il sacello-ossario fu completato. Sul punto, v. amplius FONDAZIONE 3 NOVEMBRE 1918 PRO COMBATTENTI DELLA 1a ARMATA, La

Prima Armata e il suo monumento sul Pasubio, Estratto della Rivista: PROBLEMI D’ITALIA,

MCMXXV, Ediz. ROMA – I problemi d’Italia, 1925, pp. 1-23.

464 Cfr. B. TOBIA, Una patria per gli italiani: spazi, itinerari, monumenti nell’Italia unita, 1870-1900,

Roma-Bari, Laterza 1991.

465 Sul punto, v. in particolare gli studi più recenti di S. AUDOIN-ROUZEAU, J.J. BECKER (a cura di),

Enciclopédie de la Grande Guerre 1914-1918: histoire et culture, Paris, Bayard 2004 (trad. it. La prima guerra mondiale, edizione a cura di A. GIBELLI, 2 voll. Torino, Einaudi 2007); M. THOMPSON, The White War. Life and Death on the Italian Front 1915-1919, London, Faber and Faber, 2009 ( trad. It. La Guerra Bianca. Vita e morte sul fronte italiano 1915-1919, Milano, Il Saggiatore 2009).

466 Cfr. A. BAVARELLI, La vittoria smarrita. Legittimità e rappresentazioni della Grande Guerra nella

crisi del sistema liberale (1919-1924), Roma, Carocci 2006. Sul fenomeno delle costruzioni monumentali

nei primi anni Venti, v. i volumi Monumenti della riconoscenza eretti dagli italiani ai caduti per la patria

nella grande guerra 1914-1918, Bologna, Malferrari 1923-1925.

467 Cfr. G.L. MOSSE, Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, Roma-Bari, Laterza 1990, p.