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IL PRINCIPIO DI SOLIDARIETÀ NEL DIRITTO PENALE IL CASO DELLA RESPONSABILITÀ SOCIALE D’IMPRESA

8. Prospettive di riforma

Nel corso della trattazione si è posta la questione se i doveri inderogabili di solidarietà possano fare ingresso nel diritto penale attraverso i codici etici, precipitato della RSI, attribuendo loro diretta forza vincolante, o piuttosto se i codici necessitino, per divenire cogenti, di una trasposizione in ulteriori fattispecie tipizzate.

Orbene, alla luce delle considerazioni fino a questo momento esposte, e in applicazione dei principi rilevanti in materia penale, tra i quali quelli di cui agli artt. 25 Cost., (principio di legalità e tassatività), e 27 Cost., sembra doversi escludere, in linea di massima, una diretta forza cogente dei codici etici.

In particolare, in relazione alla soluzione che si vuole avanzare, centrale rilievo assume il principio di tassatività in forza del quale, al fine di tutelare il bene primario della libertà personale, è prescritto che la norma penale sia formulata dal legislatore in maniera chiara, precisa ed univoca, in modo da delimitare con certezza il campo del penalmente lecito dal penalmente illecito, consentire ai destinatari della disposizione di conoscere anticipatamente le conseguenze giuridico-penali della propria condotta e, inoltre, di porre dei limiti ben definiti all’attività interpretativa del giudice.

Invero, attraverso il principio di tassatività, consentendo al destinatario della disposizione normativa di apprezzare a priori le conseguenze giuridico-penali del proprio comportamento, si tutela la libera autodeterminazione individuale, garantendo altresì che sia perseguita la funzione, tipica del diritto penale, di orientamento delle condotte dei consociati.

Peraltro, laddove si consentisse di sanzionare penalmente un soggetto per la violazione di determinati obblighi giuridici alla luce di disposizioni generali o imprecise, verrebbe altresì travolta la funzione special-preventiva e rieducativa della pena di cui all’art. 27 Cost., in quanto i consociati, sanzionati senza aver avuto esatta contezza della disposizione incriminatrice, avvertirebbero la sanzione come ingiusta ed iniqua.

Per quanto premesso, non sembra possibile evincere dei doveri inderogabili direttamente dal principio di solidarietà, espresso nei codici etici, dal momento che questi ultimi, come già affermato, sono costituititi da disposizioni generali e prive di precisione. Nondimeno, aderendo all’impostazione che intravede nei codici etici norme di

condotta dal contenuto cautelare, potrebbe altresì avvalorarsi la tesi secondo cui una loro eventuale adozione, espressione del rispetto di un certo standard di diligenza nell’esercizio dell’attività d’impresa, possa determinare l’esclusione di un’eventuale responsabilità colposa dell’ente.

A tale considerazione si può obiettare che i codici etici, in quanto fonti di soft law, non possano rientrare nel concetto di disciplina di cui all’art. 43 c.p.; inoltre, a differenze delle norme cautelari, i codici non prescrivono specifici comportamenti, volti a prevenire ed evitare precisi eventi lesivi, e si presentano privi dei caratteri di specificità ed efficacia180. Pertanto, l’adozione di codici etici non sarebbe comunque idonea ad escludere ipotesi di responsabilità per colpa specifica.

Tuttavia, anche qualora dovesse accogliersi tale ultima impostazione, potrebbe prospettarsi la possibilità di attribuire rilevanza all’adozione dei codici spostando il baricentro dell’attenzione dalla dimensione della colpa specifica a quella della colpa generica. Invero, in questo modo, i codici etici potrebbero rappresentare un utile strumento ai fini dell’accertamento del livello di diligenza tenuto, all’interno dell’ente, nella gestione dell’attività d’impresa.

Ad ogni modo, l’eventuale prova che il soggetto abbia disatteso le norme del codice etico potrà condurre alla convinzione dell’illiceità del comportamento tenuto, a condizione che la condotta non solo contrasti con la regola etica interna all’ente, ma possa anche venir ricondotta, in sede interpretativa, ad una disposizione dell’ordinamento “penale”181: in materia di responsabilità d’impresa tale riflessione si potrebbe peraltro tradurre nella possibilità che i codici etici, per poter fondare doveri inderogabili e trovare ingresso nel sistema penale, siano trasposti e si integrino con i compliance programs, dal contenuto più dettagliato.

A tali argomentazioni devono infine aggiungersi ulteriori considerazioni.

Invero i codici etici, collocati tra diritto positivo e naturale, conferiscono una “vincolatività soffusa” a valori e norme di condotta, non come conseguenza della fonte da cui promanano, che non è considerata giuridicamente vincolante, ma in ragione del loro contenuto.

Inoltre, la mancanza di cogenza, la loro discrezionale applicazione, la debolezza strutturale, la genericità dei contenuti, la carenza di controllo sulla loro osservanza e l’assenza di un apparato sanzionatorio adeguato, non ne consentono una puntuale applicazione, divenendo spesso un portato delle iniziative promozionali e delle strategie aziendali più che un deterrente efficace rispetto alle attività illecite delle imprese.

Pertanto, al fine di garantire l’individuazione di un adeguato sistema preventivo, di controllo e gestione dei rischi, che sappia accogliere nell’esercizio dell’attività aziendale il rispetto dei principi etici, si è ritenuto necessario interrogarsi in merito all’opportunità di introdurre un vero e proprio obbligo di integrazione dei principi di solidarietà sociale, espressi attraverso i codici etici, nei modelli di organizzazione e controllo.

In questo modo, l’etica e la cultura d’impresa potrebbero procedere insieme alla legge nella realizzazione della RSI e la rilevanza penale di esclusione della responsabilità ex artt. 6 e 7 del d. lgs. n. 231/2001 rappresenterebbe l’effetto mediato di un modo di «fare

180 Si v., in tal senso, anche G.VARRASO, Il procedimento per gli illeciti amministrativi dipendenti da

reato, Giuffrè, 2012, 54.

impresa in senso etico»182.

Inoltre, come già anticipato, nel sistema vigente, il modello di organizzazione e gestione e i codici di comportamento, laddove eventualmente integrati, «possono» avere rilevanza penale, ai sensi dell’art. 6 del d. lgs. n. 231/2001, in senso esimente, qualora il modello sia stato adottato ed efficacemente attuato dall’impresa.

Tuttavia, la mancanza di obbligatorietà che caratterizza attualmente lo stesso sistema dei modelli organizzativi rende inadeguato il regime della responsabilità degli enti.

Invero, l’assenza di un obbligo di previsione di tali modelli nell’ambito della gestione aziendale potrebbe rendere, in sostanza, più agevolmente eludibili le finalità sottese all’adozione stessa dei modelli, le quali si compendiano negli obiettivi di corretta gestione dell’attività di azienda, efficace prevenzione dei rischi e, in caso di integrazione con i codici etici, garanzia di rispetto dei doveri di solidarietà.

Nel dettaglio, la necessità di tenere in considerazione tale ultimo principio nella predisposizione dei modelli di organizzazione, induce a chiedersi se non sia prospettabile altresì la possibilità di rendere obbligatoria l’adozione stessa di tali modelli, con gli opportuni correttivi in materia di responsabilità degli enti, quantomeno laddove a venire in gioco siano beni di rilievo fondamentale, in grado di incidere sulla vita di ogni individuo, quali l’ambiente183.

D’altronde, nel corso degli ultimi anni si è assistito ad un maggiore ricorso a tali modelli organizzativi da parte delle aziende, talvolta legato al fatto che le Pubbliche Amministrazioni spesso richiedono l’obbligatoria adozione dei modelli da parte dei soggetti con cui si trovano ad operare, in quanto espressione di una maggiore garanzia di rispetto dei principi di legalità, eticità, trasparenza e correttezza nell’affidamento184.

A tali considerazioni si aggiunga inoltre che attraverso la previsione di un sistema obbligatorio si attenuerebbe il rischio di un’adozione post delictum dei modelli - di natura meramente riparatoria piuttosto che preventiva – la cui adozione risulterebbe peraltro successiva alla verificazione di eventi dannosi spesso irreversibili.

Invero, i numerosi benefici che derivano all’ente anche dall’adozione post factum di modelli di gestione idonei potrebbero disincentivare l’ente dal dotarsi, ex ante, dei modelli185.

Tale obbligatorietà nell’adozione dei modelli rappresenterebbe peraltro, per tutte le aziende, un’occasione per realizzare un’analisi interna, attraverso una ridefinizione della

182 M. A. PASCULLI, Responsabilità sociale versus responsabilità penale dell’impresa: studio sui

modelli di organizzazione, gestione e controllo quali strumenti d legalità preventiva e/o di strategia etico- integrata in ordine alle fattispecie negate e realizzate dal d.lgs. 231/2001 e successive modificazioni, cit.

42.

183 Appare opportuno segnalare, a questo proposito, che sussistono oggi ipotesi che rivelano una sorta di obbligatorietà “di fatto” dei Modelli di organizzazione e gestione. Si pensi all’adozione del Modello, da parte di alcune regioni italiane, come condizione, sancita normativamente, per l’affidamento di appalti e concessioni in regime di convenzione.

184 A questo proposito, si richiama l’analisi di alcuni provvedimenti regionali i quali prescrivono l’obbligo, per alcune tipologie di enti, di adozione dei modelli di organizzazione di cui al d. lgs. 231/2001; v., a titolo esemplificativo, la Legge Regione Abruzzo, 27.5.2011, n. 15, art. 3. In via generale, per un approfondimento in merito all’opportunità/obbligatorietà di adozione dei modelli di organizzazione v. anche P.MAGRI -M.DE PAOLIS, Modelli di organizzazione ed esenzione di responsabilità: aspetti pratici

ed operativi, in Diritto penale delle società. Profili Sostanziali, cit., 932 ss.

185 S.RENZETTI, La responsabilità degli enti per corruzione e infiltrazioni criminali negli appalti in

Italia, in Corruzione e infiltrazioni criminali negli appalti pubblici. Strumenti di prevenzione e contrasto,

struttura e una ricognizione della ripartizione dei ruoli all’interno dell’ente, una corretta mappatura dei rischi, l’elaborazione di correttivi, come presidi cautelari e di controllo186. Le considerazioni esposte si rendono particolarmente opportune in materia ambientale, anche alla luce, tra gli altri, dell’art. 3 bis del d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152, (T.U. Ambientale) che richiama espressamente il principio di solidarietà nella disciplina della materia ambientale, e dell’art. 3 quater, a mente del quale «ogni attività umana giuridicamente rilevante deve conformarsi al principio dello sviluppo sostenibile, al fine di garantire che il soddisfacimento dei bisogni delle generazioni attuali non possa compromettere la qualità della vita e le possibilità delle generazioni future». Lo stesso art. 3 quater, al comma terzo, prevede inoltre che «nell'ambito delle dinamiche della produzione e del consumo […] si inserisca altresì il principio di solidarietà per salvaguardare e per migliorare la qualità dell'ambiente anche futuro».

La lettura del presente articolo, peraltro, rinnova un interrogativo. Infatti, in questa specifica materia, che assume specifico rilievo costituzionale (artt. 9 e 32 Cost.), il rispetto del principio di solidarietà intergenerazionale, sembrerebbe richiamare l’adempimento di doveri inderogabili che potrebbero affondare le proprie radici nell’art. 2 Cost., anche in ragione della difficoltà di immaginare precisi e specifici obblighi a carico dei consociati, con riferimento a situazioni e contesti in continua evoluzione.

Proprio la necessità di dare attuazione a tali principi costituzionalmente garantiti dovrebbe condurre il legislatore a rivedere il sistema della responsabilità degli enti, anche attraverso l’introduzione di un obbligo di integrazione dei principi etici nei modelli di organizzazione, i quali potrebbero essere resi a loro volta obbligatori nelle ipotesi in cui vengano in considerazione beni di primaria importanza come l’ambiente.

Al riguardo, sembrerebbe auspicabile altresì rivedere il sistema di controllo e, in particolare, l’apparato sanzionatorio - anche in un’ottica ripristinatoria – che oggi si limita alla previsione di sanzioni di natura disciplinare in caso di violazione delle prescrizioni contenute nei modelli, nulla dicendo, peraltro, in relazione ai criteri cui far ricorso al fine dell’identificazione delle condotte che possono integrare un’infrazione del modello187.

Le soluzioni prospettate potrebbero infine consentire di individuare nel rispetto del principio di solidarietà il limite, tradizionalmente di difficile determinazione, tra giustificazione della massimizzazione del profitto e illiceità, in un’ottica di equo contemperamento tra il principio di libera iniziativa economica e il principio di utilità sociale di cui all’art. 41 Cost.

186 S.RENZETTI, La responsabilità degli enti per corruzione e infiltrazioni criminali negli appalti in

Italia, cit., 153.

187 Il legislatore infatti nulla dice in ordine ai criteri da utilizzare per individuare le condotte che integrano un’infrazione del modello; la problematica tipizzazione delle esatte condotte censurabili diviene così spesso fonte di difficoltà applicative.

LA PROBLEMATICA INCRIMINAZIONE DELL’ISTIGAZIONE E AIUTO AL

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