3. Quale scuola per il nuovo millennio?
3.2. La Riforma del sistema educativo di istruzione e formazione
Dall’11 giugno 2001 al 17 maggio 2006 il ruolo di Ministro dell’Istru- zione, dell’Università e della Ricerca è stato ricoperto da Letizia Brichetto Arnaboldi coniugata Moratti. Fin da subito venne modificato il nome del ministero stesso, utilizzato fin dall’immediato dopoguerra, con la cancella- zione della parola «pubblica».
Il nuovo Ministro Moratti seguì la via che era stata indicata dal Presi- dente del Consiglio nel primo intervento alle Camere, durante il quale «per la scuola si richiamarono i principi della sussidiarietà e del ruolo delle fa-
143 C. Acciarini, A. Sasso, Prima di tutto la scuola, cit., pp. 17-18. 144 Cfr. T. De Mauro, Verso i nuovi curricoli, MPI, Roma, 2001.
miglie»145. Infatti, i primi interventi si posero subito in antitesi con quelli
precedenti: si ricorda a tale scopo il ritiro, avvenuto il 5 luglio 2001, di al- cuni provvedimenti attuativi della Legge n. 30/2000 inviati per la registra- zione alla Corte dei Conti il 7 maggio dello stesso anno; non a caso, lo slo-
gan degli stati generali sull’istruzione che si tennero a Roma nel 2001, in-
detti dallo stesso Ministero, fu «punto e a capo»146. Di lì a poco sarà lo stes-
so Ministro Moratti a illustrare le motivazioni di un così repentino interven- to; «ho ereditato dal governo precedente due riforme, quella della scuola e quella dell’università. Ho cancellato la riforma della scuola, perché inorga- nica e recepita malissimo dalla scuola stessa. […] Si trattava di una riforma fatta in un’ottica autoreferenziale e non organica, e queste sono le ragioni per cui la riforma Berlinguer, parte scuola, è stata abrogata e rivista»147.
Immediatamente dopo venne istituito un gruppo di lavoro il cui presi- dente era Giuseppe Bertagna, che annoverava tra i componenti Giorgio Chiosso, Michele Colasanto, Silvano Tagliagambe, Norberto Bottani e Fer- dinando Montuschi. Alla commissione fu affidato il compito di condurre una riflessione complessiva sul sistema-scuola e produrre un nuovo piano di attuazione della riforma degli ordinamenti scolastici, tenendo però conto di alcune raccomandazioni come l’elevamento dell’obbligo a 12 anni, la valorizzazione della scuola dell’infanzia, l’articolazione unitaria della scuo- la dai 6 ai 14 anni (sviluppata sui 5 anni della scuola elementare e sui 3 del- la scuola media); predisporre piani di studio standard obbligatori, ecc.148.
Oltre a questo, le motivazioni per cui il mandato del Ministro Moratti verrà ricordato sarà soprattutto il varo della Legge del 28 marzo 2003, n. 53 legge «Delega al Governo per la definizione delle norme generali sull’istru- zione e dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e for- mazione professionale» e dei successivi decreti attuativi. Con questo prov- vedimento si tornava a utilizzare la legge delega quale strumento dell’Ese- cutivo per mettere a punto riforme incisive, ma non sempre condivise dal Parlamento, su temi importanti quali la scuola149. Questa modalità non è
stata certo una novità per la scuola, già abituata in passato a soluzioni del genere, ed ha fra le sue dirette conseguenze la quasi totale «assenza di un ampio consenso indispensabile per una proficua attuazione»150.
145 Ivi. p. 19. 146 Cfr. Ivi. p. 19.
147 L. Moratti, La nostra scuola. Conversazione con Piero Ostellino, Rizzoli, Milano, 2006, pp. 21-22.
148 Cfr. M.I.U.R. D.M. 18 luglio 2001, n. 672. 149 Cfr. Ibidem.
La Riforma prevedeva l’istituzione del Servizio Nazionale di Valutazio- ne del sistema scolastico e lo sviluppo dell’alfabetizzazione di una lingua comunitaria e dell’informatica, secondo lo slogan delle «tre i»: informatica, inglese e impresa, quest’ultima riferita principalmente all’istruzione supe- riore. Il sistema educativo introdotto dalle norma, e in parte tuttora vigente, venne nuovamente modificato rispetto al modello proposto da Berlinguer e tornò ad articolarsi nel triennio della scuola dell’infanzia (non obbligatoria) e in un primo ciclo che comprendeva la scuola primaria quinquennale e la scuola secondaria di primo grado di tre anni. Il secondo ciclo era articolato in due percorsi separati: da un lato otto licei quinquennali divisi in due bienni, a cui si aggiunge un ultimo anno a forte carattere disciplinare, e dal- l’altro il sistema dell’istruzione e della formazione professionale regionale, all’interno del quale il Ministero riconduceva anche gli istituti tecnici e quelli professionali di competenza statale. Questa separazione amministra- tiva tra licei e istituti tecnici e professionali fu letta da molti come la riposi- zione della dicotomia tra la scuola del sapere e la scuola del fare151.
In quel periodo si assistette alla mobilitazione pressoché unanime di do- centi e studenti uniti contro la separazione dei percorsi scolastici del secon- do ciclo, soprattutto perché in essa si ravvisava un ritorno al passato, quan- do cioè erano i figli delle classi meno abbienti a essere destinati ai percorsi formativi finalizzati al fare, mentre coloro che erano destinati ad essere la classe dirigente di domani avrebbero avuto accesso alla scuola del sapere con sbocco diretto all’istruzione universitaria.
Concentrandoci in modo specifico sugli interventi destinati alla scuola primaria, possiamo notare come il testo di legge si sviluppasse in sette arti- coli all’interno dei quali, dopo un breve ma doveroso richiamo ai principi costituzionali, erano riportati (all’art. 2) i principi e i criteri fondativi del nuovo sistema d’istruzione. Tra questi «si disegnava una scuola la cui fina- lità principale era la “formazione morale e spirituale delle giovani genera- zioni”; (tornava alla mente quel “a fondamento e coronamento dell’istruzio- ne è l’insegnamento della dottrina cattolica”, previsto dai programmi del 1955 della scuola elementare)»152. Proprio all’art. 2, comma 1, lettera c)
della Legge n. 53/2003 si introduceva un primo cambiamento sostanziale, ovvero la sostituzione dell’obbligo scolastico con il concetto di diritto-do- vere all’istruzione e alla formazione che poteva essere esercitato, all’inter- no del sistema d’istruzione, della formazione professionale o dell’alternan- za scuola-lavoro, a partire dal compimento del quindicesimo anno di età.
151 Cfr. S. Santamaita, Storia della scuola, cit., p. 197. 152 C. Acciarini, A. Sasso, Prima di tutto la scuola, cit., p. 20.
Ciò prevedeva per la prima volta in modo esplicito uno stretto coordina- mento tra i suddetti canali formativi, di fatto equiparandoli, quando invece questi avevano da sempre avuto funzioni e strutture organizzative e di fun- zionamento molto diversificate, dove una, la scuola secondaria di secondo grado era collocata nel sistema d’istruzione e l’altra, la formazione profes- sionale, era competenza esclusiva dalle singole Regioni e delle Province e quindi con forti differenziazioni interne. È in risposta a questa nuova impo- stazione che, per esempio nel nostro territorio, la Regione Toscana ha appo- sitamente modificato la propria Legge Regionale del 26 luglio 2002, n. 32, «Testo unico della normativa della Regione Toscana in materia di educa- zione, istruzione, orientamento, formazione professionale e lavoro», espli- citando che il diritto dovere all’istruzione e alla formazione si sarebbe do- vuto esercitare solo all’interno delle istituzioni scolastiche.
Pur tornando ad una scuola primaria di durata quinquennale, si introdu- ceva una diversa ingegneria educativa delineando una nuova suddivisione interna al quinquennio, ovvero 1+2+2, in cui il primo segmento doveva es- sere di forte raccordo con la scuola dell’infanzia e finalizzato all’acquisi- zione delle strumentalità di base, e l’ultimo biennio di raccordo con la scuo- la secondaria di primo grado. È ancora con l’art. 2, comma 1, lettera f) del- la Legge n. 53/2003 a definire le finalità della scuola primaria, sostituendo il concetto dell’alfabetizzazione culturale con altri di natura più strumenta- le, quali «far acquisire e sviluppare le conoscenze e le abilità di base fino alle prime sistemazioni logico-critiche»153. Veniva introdotta la possibilità
di ampliare il lasso temporale di iscrizione alla scuola primaria, con l’even- tualità che in un’ipotetica classe prima avrebbero potuto essere presenti bambini con una differenza di età fino anche a 20 mesi. Infatti, mentre pri- ma le iscrizioni avevano come parametro un determinato anno solare, con questa modifica si sarebbero potuti iscrivere anche bambini nati dal 31 ago- sto dell’anno precedente al 30 aprile dell’anno successivo.
Maggiori approfondimenti organizzativi e didattici sono stati poi riportati nel D. Lgs. 19 febbraio 2004, n. 59 «Definizione delle norme generali relati- ve alla scuola dell’infanzia e al primo ciclo d’istruzione, a norma del- l’articolo 1 della legge 28 marzo 2003, n. 53». In questa sede, così come fatto in precedenza, presteremo attenzione solo al segmento della scuola primaria, considerando soprattutto il Capo II del citato Decreto, dedicato al «Primo ci- clo di istruzione», e il Capo III che regolamenta la «Scuola primaria».
Dopo un primo richiamo a quanto già contenuto nella Legge n. 53/2003, all’art. 4, comma 4 del Decreto, si metteva in evidenza che al secondo seg-
mento del primo ciclo d’istruzione, la scuola media, non si accedeva più con un esame ma tramite una valutazione positiva al termine del quinquen- nio primario, evidenziando per un verso una separazione tra i due segmenti scolastici consecutivi e per un altro la ricerca di unitarietà nel percorso in- terno al primo ciclo. Nel Capo III venivano poi ricordate le finalità della scuola primaria e le modalità di iscrizione, non apponendo sostanziali mo- difiche a quanto contenuto nella Legge n. 53/2003. Gli elementi più rile- vanti sono contenuti nell’art. 7 del D. Lgs. n. 59 del 2004, che in 9 commi, introduceva le novità più sostanziali della riforma andando a modificare l’organizzazione della scuola primaria. Il modello orario veniva definito per la durata dell’intero anno pari a 891 ore, corrispondenti a 27 ore settimana- li, e su questa base si sarebbe determinato il calcolo dell’organico che di per sé prevedeva già l’assegnazione di più insegnanti alla stessa classe, in quanto l’orario d’insegnamento di ogni docente corrisponde a 22 ore setti- manali. Alle 27 ore settimanali le scuole, in piena autonomia e se richiesto dalle famiglie, avrebbero potuto aggiungere altre 99 ore annue, pari a 3 ore di attività settimanali, anche gestite da personale esterno alla scuola, e il pe- riodo dedicato alla mensa per un massimo di 330 ore annue pari a 10 ore settimanali, ma queste non sarebbero state più connotate come attività edu- cativa ma solo come semplice assistenza alla mensa, inoltre l’assegnazione del personale necessario sarebbe stata subordinata ad un limite numerico stabilito per legge. Tra le norme transitorie contenute nell’art. 15 per il pri- mo anno di applicazione della Riforma, veniva di fatto confermato l’orga- nico destinato al tempo pieno dell’anno precedente a quello di riferimento, e si demandava a successivi tetti d’organico per gli anni successivi.
La nuova architettura andava a modificare i modelli scolastici preceden- ti, come i moduli istituiti a seguito dell’emanazione della Legge n. 148 del 1990, ma anche il modello del tempo pieno. Ciò è confermato anche dalle parole stesse del Ministro: «tempo pieno non significa avere due insegnan- ti. Gli insegnanti erano abituati alle copresenze, che erano uno stratagemma sindacale per tenere in classe due insegnanti, uno a fare lezione e l’altro a osservare a braccia conserte cosa facesse il primo. Ed è solo in un’ottica di razionalizzazione organizzativa della scuola che abbiamo evitato che que- sto continuasse ad accadere»154; e all’immediata osservazione del suo inter-
locutore che in questo modo si sarebbe reintrodotto l’insegnante prevalente, ella replicava: «per fortuna! Si reintroduce un insegnante responsabile anzi- ché due insegnanti che si palleggiano la responsabilità»155.
154 L. Moratti, La nostra scuola. Conversazione con Piero Ostellino, cit., pp. 54-55. 155 Ivi. p. 55.
Il nuovo disegno non metteva in dubbio la sicura assegnazione di più inse- gnanti per la stessa classe, ma questi avrebbero dovuto essere coordinati dalla figura dell’insegnante tutor, un docente fornito di specifica formazione, però non ulteriormente esplicitata, con la conseguenza di determinare, come evi- denziato nel comma 5 del citato articolo, la scomparsa della corresponsabilità e il mantenimento della sola contitolarità didattica, mettendo così in discus- sione il modello del team docente sia per il tempo pieno che per i moduli. Ap- pare opportuno riportare i contenuti del comma 5, art. 7, D. Lgs. n. 59/2004, che definiva i compiti assegnati alla figura dell’insegnante tutor, il quale avrebbe dovuto «in costante rapporto con le famiglie e con il territorio, svol- gere funzioni di orientamento in ordine alla scelta delle attività di cui al com- ma 2, di tutorato degli allievi, di coordinamento delle attività educative e di- dattiche, di cura delle relazioni con le famiglie e di cura della documentazione del percorso formativo compiuto dall’allievo, con l’apporto degli altri docen- ti». Inoltre il docente tutor avrebbe dovuto garantire per i primi tre anni nella classe di assegnazione, almeno 18 ore di insegnamento settimanali, introdu- cendo così il modello dell’insegnante prevalente. La responsabilità di indivi- duare per ogni gruppo docente l’insegnante tutor e l’assegnazione degli altri docenti era attribuita al Dirigente Scolastico sulla base dei criteri generali sta- biliti dal Collegio Docenti e dal Consiglio di Circolo o d’Istituto. Fu questa formulazione, insieme all’autonomia scolastica, che consentì a tutti quei Col- legi Docenti che credevano ancora nel valore della corresponsabilità e non so- lo della contitolarità, di deliberare un unico criterio per l’individuazione dei docenti tutor, criterio che stabiliva che tutti i docenti, ognuno per le proprie specifiche caratteristiche professionali, sarebbero dovuti essere nominati tutor delle classi dove operavano, compreso l’insegnante di sostegno e quello spe- cialista di lingua inglese (questo escamotage divenne noto come «tutti tutor»). In coerenza con l’attenzione che la stessa legge di riforma aveva dato al tema della valutazione, questo viene ripreso e dettagliato anche nel Decreto attuativo attraverso l’art. 8, inerente appunto «La valutazione nella scuola primaria». Questa doveva essere finalizzata all’accertamento annuale, sia degli apprendimenti che del comportamento, oltre a dover essere rivolta al pronunciamento sull’esito del periodo didattico per l’eventuale passaggio a quello successivo, inoltre, doveva occuparsi della certificazione delle com- petenze acquisite, in linea con le indicazioni in materia fornite dall’Unione Europea. I docenti assegnati ad un determinato gruppo classe avrebbero dovuto garantire la continuità almeno per il periodo didattico corrisponden- te, ovvero in relazione al modello 1+2+2.
Il Decreto termina con una serie di abrogazioni e modifiche tra le quali la sostituzione, in tutte le norme vigenti, delle espressioni «scuola materna» con «scuola dell’infanzia», «scuola elementare» con «scuola primaria» e «scuola
media» con «scuola secondaria di primo grado», apportando ulteriori modifi- che al Testo Unico approvato con D. Lgs. del 16 aprile 1994, n. 297.
Subito dopo l’emanazione della Legge e del Decreto si registrarono rea- zioni molto diversificate. Seguirono due anni di proteste accompagnate da mobilitazioni di piazza e scioperi, che videro la partecipazione di parlamen- tari dell’opposizione, cittadini, partiti politici, organizzazioni sindacali, as- sociazioni professionali, insegnanti, genitori, studenti uniti contro alcuni a- spetti considerati più restauratori della riforma, come il tutor, l’insegnante prevalente, l’anticipo, il tempo prolungato, la riduzione del tempo scuola. Tra le conseguenze positive vi fu quella che, almeno a seguito della pubbli- cazione del Decreto, si arrivò a compattare le pronunce contrarie della Con- ferenza Stato Regioni, dell’Associazione Nazionale dei Comuni e dell’U- nione delle Province156.
Definita la nuova struttura della scuola di base, si passò a definire gli aspetti didattici connessi all’insegnamento. Il Decreto, infatti, era accompa- gnato da 4 allegati che contenevano le Indicazioni Nazionali per la scuola dell’infanzia, primaria e secondaria di primo grado e il «Profilo educativo, culturale e professionale dello studente alla fine del Primo Ciclo di istru- zione (6-14 anni)». Dette Indicazioni per i piani personalizzati nella scuola primaria, indicando gli obiettivi generali del processo formativo, gli obiet- tivi specifici di apprendimento, gli obiettivi formativi, i Piani di Studio Per- sonalizzati, il portfolio delle competenze individuali, i vincoli, le risorse e gli obiettivi specifici di apprendimento per ciascun periodo scolastico, so- stituirono definitivamente i Programmi del 1985.
Il Profilo educativo, culturale e professionale dello studente alla fine del Primo Ciclo di istruzione (6-14 anni) (PECUP), fu qualcosa a cui le scuole non erano ancora abituate. Esso di fatto conteneva l’esplicitazione degli esi- ti in uscita dalla scuola dell’obbligo attraverso la declinazione di specifiche competenze attese. Come riportato nel Decreto, esso indicava ciò che «un ragazzo di 14 anni dovrebbe sapere e fare per essere l’uomo e il cittadino che è giusto attendersi da lui al termine del Primo Ciclo di istruzione», met- tendo così in evidenza che la scuola avrebbe dovuto promuovere l’acqui- sizione di competenze e non solo di conoscenze disciplinari157.
Un altro punto che non possiamo tralasciare è la questione legata al
portfolio delle competenze individuali, il cui aggiornamento sarebbe dovuto
156 C. Acciarini, A. Sasso, Prima di tutto la scuola, cit., pp. 21-22.
157 Cfr. D. Capperucci, Dalla programmazione educativa e didattica alla progettazione
curricolare. Modelli teorici e proposte operative per la scuola delle competenze, cit., pp.
122-123. Si veda anche: Id., Scuola primaria e società della conoscenza, in «Studi sulla formazione», 2, 2003.
essere di competenza del docente tutor con la collaborazione dei colleghi e della famiglia. Esso sarebbe dovuto diventare una carta d’identità capace di accompagnare l’allievo nel suo percorso formativo, raccogliendo i suoi la- vori in base a criteri stabiliti in precedenza, al fine di documentare le com- petenze acquisite158. Dopo la pubblicazione della C.M. 10 novembre 2005,
n. 84, «Linee guida per la definizione e l’impiego del Portfolio delle com- petenze nella scuola dell’infanzia e nel primo ciclo di istruzione», il TAR del Lazio ne dispose la sospensiva con ben due sentenze, una del 1 febbraio 2006 e l’altra del 15 marzo 2006. La sospensione dell’uso del modello na- zionale di portfolio elaborato dal Ministero era legata all’emanazione di un successivo Regolamento, in cui il MIUR avrebbe dovuto ulteriormente pre- cisare le modalità di utilizzo dello strumento e verificare che nessuna delle sue parti violasse il diritto alla privacy dell’alunno e della sua famiglia. Il Ministero non produsse mai tale Regolamento e di lì a poco il portfolio per- se di rilievo e di importanza, diventando uno dei possibili strumenti didatti- ci demandati all’autonomia delle scuole, ma svuotato dell’ufficialità che uno strumento così importante avrebbe invece meritato159.