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Capitolo 3. Anni Sessanta: la “rinascitaˮ raccontata dalle riviste periodiche e la

3.1 Il ruolo degli intellettuali

L’autonomia regionale e lʼattuazione del Piano di rinascita rappresentano i principali temi sviluppati dai mezzi di informazione sardi (quotidiani e periodici) negli anni Cinquanta e Sessanta. Due argomenti talmente interrelati che, come osserva Martin Clark, «gli uomini politici regionali si erano di fatto identificati con il Piano, anzi avevano identificato il Piano con tutto il concetto di autonomia»1. Il notista politico del «Giornale d’Italia» Gaspare Barbiellini Amidei vedeva nella Sardegna di quegli anni «una intera regione in fermento»2. Furono soprattutto le riviste periodiche a distinguersi su questi argomenti, analizzandoli in profondità, con numerosi e dettagliati contributi di personalità della cultura, della politica e dell’economia.

In particolare, la “Rinascita” rappresentò il vero filo conduttore delle riflessioni degli intellettuali sardi che, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, trovarono nella rivista di Antonio Pigliaru, «Ichnusa», una tribuna di dialogo e confronto. Si può affermare che la storia di questo periodico si sia mossa in parallelo con la nascita del nuovo Istituto autonomistico. Il primo numero di «Ichnusa», «rivista bimestrale di letteratura, arte, tecnica, economia ed attualità», uscì a Sassari nel novembre 1949, stampato presso la tipografia Gallizzi, mentre l’ultimo, sebbene realizzato nella seconda metà del 1964, fu pubblicato solo nei primi mesi del 1965. Un arco di tempo complessivo di quindici anni in cui il giornale visse tre fasi distinte, tre progetti editoriali differenti3 e direttamente collegati alle specifiche vicende culturali e politiche della Sardegna. «Ichnusa» si concretò nella pubblicazione di cinquantasei fascicoli in totale.

Dopo un primo periodo in cui la rivista si era occupata principalmente di turismo, tradizione, arte, bellezze dell’isola, nella seconda e terza fase essa trattò problemi più concreti, legati alla politica, allʼeconomia, e alla cultura della Sardegna. L’anima di «Ichnusa», il suo fondatore e direttore era Antonio Pigliaru, uno dei pensatori più influenti e originali del secondo dopoguerra, e un instancabile promotore di dibattiti

1

M. Clark, La storia politica e sociale (1915-1975), in M. Guidetti, (a cura di), op. cit., p. 444.

2

G. Barbiellini Amidei, Il pastore di Mamojada recita Omero mentre i nipoti guardano la televisione. Ma la Sardegna non è in queste suggestive immagini che possono sfociare in luoghi comuni: è nei progetti, nelle discussioni e nelle realizzazioni di una intera regione in fermento, in «Il Giornale d’Italia», 22-23 marzo 1960.

3

Nella prima fase (dal 1949 al 1952) furono pubblicati nove numeri, nella seconda (dal 1956 al 1959) ventiquattro, nella terza fase (dal 1960 al 1964) ventitré numeri.

culturali4. Egli fu autore di alcune opere ponderose, su tutte La vendetta barbaricina

come ordinamento giuridico5, pubblicata nel 1959. In questo libro Pigliaru sosteneva che la cultura della Barbagia fosse regolata da specifici codici di comportamento in contrasto con le norme e la legislazione dello Stato italiano.

Nella sua rivista confluiva un cenacolo di intellettuali di spicco come Salvatore Piras (condirettore), Giuseppe Melis Bassu, Toti Mannuzzu, Manlio Brigaglia, Salvatore Ruju, Pietro Leo, Filippo Figari, poi qualche anno dopo Antonio Simon Mossa, Sebastiano Dessanay, Paola Pittalis, Michelangelo Pira (redattore della sede di Cagliari), Gonario Pinna (redattore della sede di Nuoro) e Salvatore Cambosu. Dietro questa iniziativa editoriale vi era un industriale del cuoio, Aldo Melis, interessato a vivacizzare la scena culturale del principale centro del nord Sardegna, Sassari.

Dalla lettura degli articoli pubblicati su «Ichnusa» emerge, sin dall’inizio, una concezione particolare di cultura, che si richiamava all’XI tesi di Marx su Feuerbach6: «Il fatto che la cultura debba metter capo ad una operazione storica non esclude [...] che la cultura debba metter capo a tale operazione nella misura e secondo le condizioni che sono le sue naturali ed originarie condizioni perché anche quando si tratta di pensare con le mani [...] anche allora si tratta in definitiva di pensare, di porre e risolvere problemi non di deciderli»7. L’appello era rivolto agli intellettuali locali, che per troppo tempo si erano disinteressati dei problemi reali della Sardegna. Essi, invece, secondo Pigliaru, avrebbero dovuto lavorare insieme per operare quella trasformazione necessaria per il bene dell’isola. Erano chiari ed evidenti, nei passi riportati sopra, i richiami alla “politica culturale” di Gramsci e dei filosofi della prassi. La cultura non poteva più essere considerata come qualcosa di esterno o trascendente rispetto alla realtà, ma doveva dialogare con la politica e l’economia. In altre parole, per

4

Sulla vita professionale di Antonio Pigliaru si veda il documentario M. P. Mossa, J. Onnis, Visti da fuori. Antonio Pigliaru, in «Rai Tre», (programmazione regionale «Rai Sardegna»), 4 marzo 1986, http://www.sardegnadigitallibrary.it/index.php?xsl=626&s=17&v=9&c=4460&id=86077.

5

Come osserva G. Pirodda, Antonio Pigliaru in La vendetta barbaricina «ha ricostruito il codice non scritto della vendetta barbaricina, dall’interno, attraverso la rilevazione e il confronto di un vasto materiale: fatti di cronaca giudiziaria, proverbi, modi di dire e poesie dialettali, interviste dirette. È seguita l’operazione che ha consentito di tradurre le norme di un ordinamento giuridico consuetudinario in un vero e proprio codice, concepito e formulato in termini rigorosamente giuridici. Dall’opera è derivato un modo del tutto nuovo di accostarsi allo studio e alla riflessione intorno ai problemi del banditismo. Per quanto concerne la vendetta, alla luce del codice barbaricino essa non può essere più vista come una pratica individuale bensì sociale, come un fatto che coinvolge immediatamente tutta la comunità». Questo brano è estratto da G. Pirodda, Sardegna. Letteratura delle regioni d’Italia. Storia e testi, Brescia, Editrice La Scuola, 1992, p. 354.

6

Secondo Marx, «i filosofi hanno soltanto diversamente intepretato il mondo, ma si tratta di trasformarlo». Per maggiori approfondimenti si veda F. Jakubowski, Le sovrastrutture ideologiche nella concezione materialista della storia (trad. di Marco Merella), Milano, Jaca Book, 1975, p. 69.

7

A. Pigliaru, Il problema della cultura in Sardegna, in «Ichnusa», n. 10, a. IV, 1956. Riedito in M. Brigaglia, S. Mannuzzu, G. Melis Bassu, (a cura di), Antonio Pigliaru: politica e cultura, Sassari, Gallizzi, 1971.

l’intellettuale sardo era giunto il momento di giocare il suo ruolo di modificatore della realtà8. Bersagli dell’articolo erano il “regionalismo chiuso” e il “cosmopolitismo di maniera”: due tendenze presenti negli atteggiamenti di tanti intellettuali isolani, che nascondevano, a detta di Pigliaru, «un sostanziale disinteresse, un sostanziale scetticismo di comodo»9.

Era necessario creare un movimento culturale sardo che, organizzandosi in maniera unitaria, fosse in grado di porre un ordine di problemi concreti da affrontare. Questo perché la politica, secondo la visione di Pigliaru e dei suoi collaboratori, era un momento della cultura stessa. Sul tipo di politica o di cultura da realizzare potevano essere responsabili solo le persone, senza dover passivamente accettare alcuna forma di imposizione di determinismo. Le vicende stesse legate alle difficoltà dell’Istituto autonomistico rientravano all’interno di questa dinamica:

Quel che si vuol sottolineare […] è l’assenza della classe intellettuale in quanto tale dal dibattito [sull’autonomia N.d.A.], assenza riscontrabile dal fatto che un dibattito “intellettuale” è fondamentalmente mancato al nascere dell’autonomia sarda, come si può rilevare dalla inesistenza di una letteratura sarda sulla autonomia pensata e realizzata a sua volta in termini di “cultura”. Onde la mancanza di quel rapporto organico tra intellettuali e vita regionale che ancor oggi caratterizza la situazione della cultura sarda nei confronti dell’istituto autonomistico, ed alla quale, dobbiamo lealmente ammetterlo, sono forse da imputare alcuni deficit fondamentali propri del modo in cui l’autonomia regionale è amministrata; anzi per uscir d’equivoco, vissuta10

.

In altri termini, la nuova «Ichnusa», oltre ad essere una rivista di cultura, si proponeva come:

un polo di riunione degli intellettuali sardi, centro per la loro riorganizzazione, mezzo per la loro riaffermazione. Il programma prevedeva il capovolgimento del rapporto della cultura con la politica così come si era consolidato nella tradizione: se sino ad allora erano stati gli uomini politici e quelli di cultura inseriti nei partiti a teorizzare e poi a prendere le decisioni, da quel momento in avanti avrebbero dovuto essere gli intellettuali autonomi e indipendenti a determinare il cambiamento del corso delle cose, controllando e indirizzando la vita dei partiti […]11

.

Secondo «Ichnusa» era inoltre necessario intraprendere un serio viaggio finalizzato alla conoscenza della Sardegna, o meglio, della “questione sarda”. Si trattava, quindi, di inserire il dibattito sulla regione e i suoi annosi problemi all’interno della più ampia

8

Questi aspetto è stato approfondito nel libro di S. Tola, op. cit. Si veda, in particolare, il cap. IV, La seconda fase (1956-1960). La nuova impostazione di ʻIchnusaʼ, pp. 61-98, nel caso specifico il paragrafo 7, L’egemonia agli intellettuali, pp. 73-75. Si segnala, inoltre, il capitolo VII (I grandi temi. Gli intellettuali e la cultura in Sardegna), pp. 123-136

9

A. Pigliaru, Il problema della cultura in Sardegna, in «Ichnusa», n. 10, a. IV, 1956.

10

Ibidem.

11

questione meridionale. «Il meridionalismo diveniva, dopo la mobilitazione e l’egemonia degli intellettuali, il secondo grande caposaldo teorico»12 della rivista.