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CAPITOLO 1. SPAZIALITÀ VIDEOLUDICA: ASPETTI TECNICI DELLA

1.4 Tridimensionalità

1.4.4 Spazi in real-time

A seguito dell’analisi della tridimensionalità prerendered, sarà inevitabile occuparsi di quella che è la tendenza più comune nello sviluppo contemporaneo di videogiochi in tre dimensioni, ovvero il processing degli spazi in real-time. Nel corso della storia del videogioco la produzione degli spazi in tempo reale è stata spesso fonte di ricerca e innovazione nel campo delle tecniche per una resa tridimensionale credibile e coerente. La potenza di calcolo necessaria e la velocità richiesta per la computazione in real-time di mondi poligonali che fossero una riproduzione dettagliata e immersiva di uno spazio tridimensionale e non una semplice astrazione grafica sono le ragioni per le quali si sono andate a formare progressivamente stratagemmi e artifici per ottimizzare le risorse hardware a disposizione. Perché non sempre i dispositivi videoludici permettevano di restituire la visione degli sviluppatori in una maniera che non richiedesse dei compromessi a livello tecnico. A differenza del caso precedentemente illustrato, infatti, la riproduzione degli elementi spaziali che compongono il videogioco è delegata nella sua interezza alla macchina utilizzata dal videogiocatore, il che significa che non si tratta più di un processo di pre-caricamento dei dati su macchine dedicate e dall’alta potenza di calcolo. In questo frangente, dunque, gli asset che costituiscono il mondo di gioco in tutte le sue declinazioni devono essere processati dal dispositivo in cui si sta giocando. Nel caso specifico degli ambienti 3D, la mole di dati da calcolare aumenta con l’estensione degli spazi progettati e con la complessità dei poligoni e delle texture ad essi applicate, prospettiva inevitabile in un’industria come quella videoludica che fonda le sue strategie di mercato sull’innovazione e sul progresso. Una situazione che descrive propriamente Wolf:

By the mid-1990s 3-D arcade games and home games were becoming more common, the number of polygons used was increasing, and other computer graphics techniques like texture mapping and light mapping would begin to appear in

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video games. Steady increases in all of these things over the next decade would gradually push the look and feel of these games towards the goal of photorealism. By the end of the 1990s, home games eclipsed arcade games, 3-D video games became the standard type of game produced, and sprite-based games were no longer dominant. The ability to render game spaces and locations in real-time 3-D improved through the 1990s and into the 2000s, but the demands of more detailed characters, objects, interactions, and scenery still placed limitations on the rendering of game imagery, and game designers would have to find ways to work around them.42

La crescente complessità degli spazi tridimensionali in real-time dovuta alle richieste di evoluzione, perlomeno tecnica, del medium e le conseguenti maggiori facoltà di interazione con esso, hanno in qualche modo costretto gli sviluppatori a trovare dei modi che potessero aggirare le limitazioni date dalle risorse tecnologiche disponibili durante le diverse epoche del videogioco. Tra le più banali si può ricordare la pratica, piuttosto comune negli anni ’90, di far coesistere nella messa in scena virtuale elementi puramente tridimensionali con elementi a due dimensioni, in modo tale da risparmiare sul carico computazionale pur mantenendo una parvenza di tridimensionalità. O ancora, si può accennare alla tecnica del z-buffering, una strategia utile a risolvere problemi di visibilità in profondità durante il rendering dell’immagine. Tramite questa tecnica, appartenente al più vasto campo delle computer graphics ma mutuata dal videogioco per i motivi sopra descritti, vengono gestite le coordinate spaziali corrispondenti agli oggetti in profondità, con l’obiettivo di ridurre la quantità di rendering necessario alla riproduzione delle immagini determinando quali oggetti sono posti di fronte agli altri, e di conseguenza eliminando il bisogno di renderizzare le superfici nascoste. Rimane comunque il problema per il quale gli «objects contain the same number of polygons regardless of where they are positioned onscreen, and thus require the same amount of rendering time whether they are in the foreground and occupy a large portion of the screen or are in the distance and occupy a relatively small portion of the screen. Viewpoints with a wide angle of view or great deal of z-axis depth may include so many objects that rendering a scene could take a very long time»43. Alla luce di questa condizione degli spazi tridimensionali evidentemente soluzioni di natura meramente tecnica non erano sufficienti a realizzare ambienti che al contempo siano densi di elementi 3D dettagliati e che permettano movimento e interazione in tempo reale al videogiocatore. Gli sviluppatori, allora, hanno sperimentato nel tempo modi differenti di progettare a monte gli spazi, la loro configurazione, le loro relazioni geografiche e la loro suddivisione con il fine di restituire una visione organica e verosimile di questi mondi di gioco a tre dimensioni.

42 Ivi p. 164

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One solution to this problem was to design spaces in such a way as to avoid sightlines extending deep into the distance. The first two games in the Grand Theft Auto series featured an overhead view which looked directly down onto the street where the player’s car was driving, limiting the depth and breadth that could be seen. But even games with a typical first-person ground-based perspective can limit what a player can see, by breaking up a game’s world into sectioned spaces, for example, dividing interiors into rooms and hallways like those found in the Doom series, Tomb Raider series, and

Silent Hill series. In such cases, while a game’s world may be huge, only a small portion of it is rendered at any given time. Passages between rooms can further be designed to turn corners, avoiding the need to show room interiors at a distance from inside other adjacent rooms. For larger spaces, other methods were employed. Techniques that simulate exaggerated aerial perspective kept distant scenery hidden from view and meant that nothing would need to be rendered beyond a certain z-axis depth, even in open terrain. For example, in the Tomb Raider series, receding spaces are gradually darkened, and beyond a certain distance they simply appear as black […]. As the player’s point of view moves down the z-axis into these spaces, they brighten and the detail there becomes visible. The player’s inability to see into these darkened spaces enhances the feeling of distance and depth, as well the player’s feeling of discovery while moving into them as they brighten (the effect is similar to carrying a torch through a dark interior, though in most of these games the player-character is not carrying any kind of portable lighting device). A similar technique is the use of an atmospheric effect, like the fog and snow used in Silent Hill (1999), which hides distant objects in a gray haze and has them seem to materialize as the player approaches them.44

Il design degli spazi, dunque, ha risentito fortemente degli impedimenti hardware per la resa grafica in 3D, ma non in maniera negativa: sono nate nuove forme di costruzione degli spazi e di disposizione di percorsi e di altri elementi che contribuiscono fortemente all’attribuzione di un’impronta narrativa alle ambientazioni. Questo testimonia ancora una volta lo strettissimo legame che intercorre tra tecnologia e progettazione, e in qualche modo favorisce la comprensione dell’importanza che possiede la disanima che si è operata in questo capitolo sulla dimensionalità, nell’ottica dell’analisi dell’environmental storytelling videoludico. Ma la tridimensionalità in real-time non si è fermata solo a queste strategie di messa in scena. La tecnologia alla base dell’hardware videoludico è progredita, e progredisce tutt’ora, e nuove tecniche per la costruzione spaziale in 3D sono emerse in concomitanza della definizione di nuovi generi videoludici come gli open world. Ancora Wolf sulla questione:

With the computing power that made greater z-axis depth possible came other ways to minimize render time. In computer-generated film sequences, distant objects are sometimes replaced with versions of those objects with lower geometric resolution (that is, made with fewer polygons). While this speeds up render time, such a method becomes difficult in real-time game graphics when objects are moving along the z-axis, since they need to smoothly change their geometric resolution as they move, which itself takes processing power and time to do. The solution to this problem are NURBS, Non-Uniform Rational Basis (or Bézier) Splines. Objects are represented as curved surfaces which can be rendered at

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various geometric resolutions depending on their position along the z-axis. As games grow more photorealistic, other optical effects involving the z-axis, such as the rack focus, will come into greater use, making games even more cinematic and increasing players’ visual involvement in the games’ worlds. Just as in other visual media, the z-axis is of central importance in the production of an image depicting three-dimensional space which the viewer can enter vicariously. In games like Riven (1997) and Rhem (2003), tiny depictions of distant objects provide clues for the observant player, orienting the player in space and enhancing the interconnectedness of a game’s geography, resulting in a strengthened illusion of a real threedimensional space. While greater z-axis depth places demands on hardware, software, and game design, it fills the player’s viewpoint with a larger and more detailed world of interconnected locations, encouraging involvement and giving players a virtual space to enter into where their attention is held and contained.45

Il progresso nelle tecnologie per la costruzione di ambienti 3D e nella determinazione di soluzioni per la messa in scena ha, in definitiva, un impatto non trascurabile sull’esperienza ludica del giocatore, che guadagna da queste innovazioni la possibilità di abitare e interpretare un mondo virtuale organico e coerente, all’interno del quale gli sviluppatori possono inserire narrazioni secondo strategie possibili solo grazie alle specificità e alle potenzialità del medium videoludico, considerata la sua doppia natura di oggetto tecnologico e prodotto mediale.

Prima di avviare le conclusioni al capitolo, sarà utile proporre una tabella schematica che sia capace di riassumere le dimensionalità trattate e le singole occorrenze di cui si possono comporre, come illustrato fin qui.

2D 2.5D 3D • Visuale o Orizzontale o Verticale o Quadro fisso ▪ Non Autonomo ▪ Autonomo • Concentrazione • Sovrapposizione • Citazione • Visuale o Isometria • Tecniche o Parallax Scrolling o Ray Casting o Z-Axis Scaling o Skybox o Billboarding • Visuale o Prima Persona o Terza Persona • Rendering o Prerendered o Real-Time 45 Ivi p.165-167

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In questo capitolo si è dedicato ampio spazio all’analisi delle differenti dimensionalità che storicamente si sono avvicendate nella produzione videoludica. Con questa panoramica di carattere tecnico si è voluto offrire gli strumenti per comprendere le modalità di configurazioni delle ambientazioni videoludiche, le potenziali strategie di visualizzazione e, dunque, il contesto all’interno del quale si possono inserire gli elementi spaziali digitali e i percorsi che attraversano le ambientazioni stesse. L’obiettivo di questa ricognizione si realizza nella creazione di un quadro di riferimento che, per quanto non sia parte di una sistematizzazione onnicomprensiva, sia comunque capace di costituire una guida pratica nel successivo approfondimento sulle strategie di narrazione spaziale che guidano l’environmental storytelling, a partire dai suoi elementi minimi fino ad arrivare alle tipologie di racconto che possono essere messe in atto nella varietà degli spazi videoludici. Concomitantemente si è mirato a proporre un’indagine esplorativa che fosse adatta a far maturare la consapevolezza delle complessità intrinseche ai processi di costruzione della spazialità videoludica e alle prassi di visualizzazione degli stessi; una complessità, questa, che si riflette sulle potenzialità narrative che ogni spazio contiene e che possono essere sfruttate ai fini di mettere in atto l’environmental storytelling. Questo capitolo, pertanto, è inteso come strumento a complemento delle tassonomie

prodotte in seguito nei capitoli dedicati e dell’applicazione dei framework teorici alle occorrenze delle narrazioni ambientali, delineandosi in tal modo come un elemento propedeutico allo studio dell’oggetto di questa ricerca. Ma, se si prende in considerazione che in preparazione all’analisi dell’environmental storytelling finora ci si è occupati solo della questione spaziale, sarà utile nel prossimo capitolo introdurre il discorso sulla componente dello storytelling, inteso più nello specifico nella sua accezione digitale.

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CAPITOLO 2. DIGITAL STORYTELLING E SPECIFICITÀ DELLA NARRAZIONE