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CAPITOLO 2. DIGITAL STORYTELLING E SPECIFICITÀ DELLA NARRAZIONE

2.5 Lo storytelling videol udico: modelli narrativi e dimensioni dell’esperienza

2.5.1 Strutture lineari

Le narrazioni lineari si costituiscono di due elementi principali: un intreccio predeterminato da un lato e un gameplay che non ne influenza lo sviluppo dall’altro. Le due entità sono di fatto indipendenti, se non altro per il fatto che è necessario progredire nel gioco per attivare determinate condizioni che a loro volta avviano le sequenze narrative. In alcuni casi, naturalmente, gameplay e storia possono essere legati da un filo tematico, cosicché gli eventi narrati abbiano effetto sul gameplay stabilendone specifiche meccaniche, ma il contrario non può mai avvenire nel caso in questione. Oppure, più spesso, la componente narrativa contribuisce a contestualizzare l’azione ludica e a caricarla di significati utili al fine di rinforzare il senso di progressione e l’attinenza agli obiettivi del gioco da parte del giocatore. La struttura lineare, per come è intesa in questa rassegna, pesca a piene mani dai modelli narrativi tradizionalmente sviluppati in altri media in quanto la componente della storia è interamente statica e passiva, cioè non richiede la diretta interazione del giocatore per il suo svolgersi. Le motivazioni che possono portare gli sviluppatori di un videogioco a adottare un simile modello sono molteplici, anche se perlopiù riguardano da una parte la familiarità e la facilità di lettura che tali storie possono avere agli occhi del giocatore, e dall’altra il controllo pressoché totale sulla progressione narrativa che esse garantiscono agli sviluppatori stessi. Come sottolinea di nuovo Sheldon: «Designers can track and control the player’s advancement in the game, advancing her skills at a rate balanced with the increasing difficulty of gameplay, making sure she doesn’t get too powerful too quickly. Even though the two may feel quite different when they’re implemented, they’re structurally similar. It would therefore seem to foster the illusion that the story and gameplay are parto

113 Nicholas B. Zeman, Storytelling for Interactive Digital Media and Videogames, CRC Press, Boca Raton 2017, edizione Kindle

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of a single entertainement experience»114. È certo, però, che se l’equilibrio tra i due elementi non viene attentamente calibrato, questo modello narrativo può dare luogo a circostanze in cui emerge della dissonanza ludonarrativa, ovvero la condizione per cui le azioni compiute attraverso il gameplay e gli eventi raccontati nella storia sono di fatto contraddittori. Come appena detto, la struttura lineare videoludica prende evidentemente in prestito i modelli narrativi tradizionalmente adottati nei media lineari, con particolare riferimento agli esempi della letteratura e del cinema. In questo senso, i videogiochi che strutturano la propria narrazione secondo il criterio della linearità fanno, nella maggior parte dei casi, uso del classico modello restaurativo in tre atti. Questo modello, già individuato da Aristotele nella sua opera Poetica, prescrive che la storia sia suddivisa in tre parti tra loro proporzionali, identificate come inizio, metà e fine.115 Ognuna di queste porzioni della storia prende il nome di atto, e assume una funzione specifica nell’economia del racconto, occupando uno spazio ben preciso. Per dare un quadro relativamente più preciso e comunque indicativo, la struttura restaurativa in tre atti è caratterizzata da: un primo atto, definito Setup, di carattere principalmente espositivo in cui vengono definiti i personaggi, il mondo che abitano e le relazioni che li legano; un secondo atto, detto Confrontation, che rappresenta la sezione più estesa del racconto e che vede il protagonista affrontare il problema emerso al primo turning point (i punti di raccordo tra gli atti) senza trovare soluzione; infine un terzo atto, denominato Resolution, nel quale la storia e le linee narrative secondarie si concludono grazie alla risoluzione definitiva del problema stesso. Seppure in misura diversa rispetto ad altri media e in maniera variabile da videogioco a videogioco, questo modello narrativo è uno strumento che ha trovato largo impiego nella costruzione di narrazioni digitali lineari, di fatto rappresentandone la struttura più ricorrente.116 Ma esistono altre strutture narrative che tradizionalmente sono state applicate ai racconti lineari in media diversi dal videogioco e da cui quest’ultimo ha attinto alcune componenti. Le strutture a cui si fa riferimento sono quelle che Robert McKee ha definito come minimalist structure e la anti-structure.117 Entrambe, a modo loro, presentano caratteristiche opposte rispetto a quelle tipicamente adottate dal modello restaurativo. La minimalist structure, infatti, può prevedere una molteplicità di protagonisti, ognuno dotato di un ruolo fondamentale nell’economia generale della storia, oppure un protagonista passivo, per il quale il conflitto che sta alla base dello sviluppo del racconto non è tanto un fattore esterno quanto una realtà interiore e personale. Inoltre, la struttura minimalista si affida ad un finale aperto, che volontariamente rinuncia a risolvere tutte le linee narrative e rispondere a tutte le domande che ha

114 Lee Sheldon, Character Development and Storytelling for Games, cit., p. 300

115 Cfr. Aristotele, Poetica, Bompiani, Milano 2000

116 Cfr. Bob Bates, Game Design, Second Edition, Thomson Course Technology PTR, Boston 2004.

117 Cfr. Robert McKee, Story. Substance, Structure, Style, and the Principles of Screenwriting, Harper-Collins, New York 1997, pp. 44-58

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fatto emergere attraverso il racconto con l’intento di lasciare spazio alla interpretazione del fruitore e, in qualche modo, tenere viva la possibilità di risoluzione delle emozioni associate alla fruizione stessa del prodotto. La natura open-ended di questa struttura è evidentemente l’elemento che il videogioco prende in prestito nella maggior parte dei casi, in particolare per ragioni di mercato. È frequente, infatti, che il racconto di una storia videoludica, in particolare nel caso di produzioni ad alto budget, sia preceduto dal progetto di costruzione di un universo narrativo esteso (come si vedrà, questa è una delle caratteristiche principali dell’environmental storytelling). Tale proposito porta inevitabilmente alla frammentazione e alla distribuzione, sotto forma di multiple iterazioni, delle storie videoludiche, che per questa ragione adottano nelle loro singole occorrenze lo strumento del finale aperto, in modo da garantire la continuità narrativa con i prodotti successivi e, contemporaneamente, mantenere un determinato livello di engagement118 e fidelizzazione nel videogiocatore. D’altra parte, appare più problematico, nel videogioco, l’impiego di un protagonista completamente passivo. Sebbene nella storia del medium, e in particolare nei giochi di ruolo giapponesi di stampo classico come la celebre serie di Dragon Quest (Square Enix, 1986-2019), il protagonista muto e passivo sia stato utilizzato come mezzo per favorire la totale immedesimazione del giocatore – sulla scorta del principio del blank slate, per il quale un personaggio è come una lavagna vuota all’interno della quale il giocatore può proiettare i propri valori, le proprie idee e la propria personalità –, questa condizione mal si sposa con la costante ricerca di potenziamento dell’interattività e di sperimentazione nel racconto che caratterizza l’evoluzione del videogioco. Contestualmente, rendere l’idea di un conflitto interiore senza l’utilizzo di meccaniche di interazione che hanno effetto sul mondo esterno, costituito dall’ambiente di gioco, appare controintuitivo se si prendono in considerazione i fondamenti interattivi e la necessità di feedback per l’utente sui quali tende a costruirsi la proposta videoludica. Meno criticità, al contrario, derivano dall’adozione del sistema del protagonista multiplo. Se da un punto di vista tecnico potrebbe effettivamente rappresentare una sfida quella di implementare un cast nutrito di personaggi differenziati per abilità e design, meno difficile è la definizione di molteplici ruoli da protagonista all’interno di un’unica storia o di più di un sub-plot. Ancora una volta, i giochi di ruolo giapponesi si configurano come un

118 Con il concetto di engagement si intende la condizione per cui «the player exerts effort in order to influence the outcome, and feels attached to the outcome». Stéphan Natkin, “Interactivity in Games: The Player’s Engagement”, in Ryohei Nakatsu, Naoko Tosa, Fazel Naghdy, Kok Wai Wong, Philippe Codognet (a cura di), Cultural Computing.

Proceedings of the Second IFIP TC 14 Entertainment Computing Symposium, ECS 2010, Held as Part of WCC 2010,

Brisbane, 20-23 Settembre 2010, Springer, Berlino 2010, p. 161. Le dinamiche che sottendono i processi di engagement videoludico possono essere associate al principio di deep play e, più specificatamente, al sostanziale investimento emotivo su cui si fonda quest’ultimo. A proposito si veda Alison McMahan, “Immersion, Engagement and Presence. A Method for Analyzing 3-D Video Games”, in Mark J. P. Wolf, Bernard Perron (a cura di), The Video Game Theory Reader, Routledge, New York 2003

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bacino denso di esempi: a partire dalla storia corale di Final Fantasy VI (Squaresoft, 1994)fino ad arrivare ai 108 protagonisti di ogni capitolo della serie Suikoden (Konami, 1995-2006), i casi da elencare singolarmente sarebbero innumerevoli, in quanto una delle specificità del genere risiede proprio nella sua natura party-based, una caratteristica per la quale il gameplay e di riflesso la narrazione ruotano intorno a un gruppo, tendenzialmente variegato, di protagonisti. Un esempio più recente e tecnicamente innovativo si può riscontrare nell’ultima iterazione della serie Grand Theft

Auto, cioè GTA V (Rockstar Games, 2013). Nel videogioco in questione, infatti, i protagonisti sono

tre, e il videogiocatore può passare dall’uno all’altro in tempo reale attraverso un’interfaccia dedicata. La possibilità di operare questa transizione liberamente, cioè senza vincoli restrittivi da parte del sistema di gioco, fa sì che si vengano a creare situazioni in cui il giocatore entra in controllo di uno dei personaggi mentre questo è intento a vivere la propria quotidianità a seconda della sua personalità, delle sue competenze e della sua estrazione sociale, in una sorta di ambiente simulativo che permette il rinforzo narrativo della caratterizzazione dei personaggi e facilita la costituzione di narrazioni emergenti.

L’anti-structure presenta caratteristiche che la collocano in una posizione più estrema rispetto al modello restaurativo in tre atti, allontanandosi in parte anche dall’esempio della struttura minimalista. Le anti-strutture, infatti, si caratterizzano per il rifiuto totale dei nessi di causalità che connettono gli eventi della storia, basandosi di fatto sul predominio del concetto di coincidenza ed enfatizzando in tal modo i rapporti casuali tra gli elementi del racconto, dando vita così a storie contraddistinte soprattutto dalla frammentazione, dall’insensatezza e dall’assurdità. Lo stesso concetto di temporalità viene messo in discussione, ribaltando le regole di causa-effetto secondo meccanismi di disgiunzione e stravolgimento del tempo, sfumando nel processo i contorni della continuità temporale. Infine, le

anti-structures si dotano di realtà inconsistenti, in cui il principio di coerenza interna è del tutto

rigettato in favore della creazione di un senso di assurdità. Tali realtà, infatti, operano secondo una sola regola: quella di spezzare ogni regola. Ma queste distorsioni non sono semplicemente il risultato di operazioni dettate da un principio regolatore caotico e inconcludente, ma piuttosto possono in qualche modo essere ricondotte in senso unitario all’espressione o alla percezione di una particolare condizione psicologica o di un determinato stato d’animo. Il rapporto che intercorre tra queste strutture e le narrazioni videoludiche è certamente meno solido e più sottile di quelli precedentemente descritti. Innanzitutto, la questione delle realtà inconsistenti genera più di un problema nella relazione che si instaura tra gameplay e narrazioni: la coerenza di un mondo di gioco è uno dei fattori fondamentali nella costruzione di interazioni che non frustrino il giocatore e nella realizzazione di una storia che non ceda al pericolo della dissonanza ludonarrativa precedentemente citata. D’altra

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parte, diversi studi119 hanno dimostrato come il videogioco sia costitutivamente composto da mondi finzionali incoerenti, all’interno dei quali il giocatore si immerge e interagisce nonostante l’intrinseca incompletezza dell’universo virtuale e le limitazioni a cui è sottoposta la sua azione, sulla base di un’esperienza di gioco sorretta principalmente da un tacito patto per il quale il giocatore stesso accetta di rinunciare a determinate interpretazioni critiche e, di conseguenza, si adatta alle regole (incoerenti) del sistema videoludico. È certo che, nel momento in cui viene a mancare questo compromesso, qualsiasi incongruenza, sia di carattere interattivo che più strettamente narrativo, tende a minare l’immersione nel mondo di gioco e, di rimando, l’efficienza delle meccaniche di gameplay, preso atto che il videogioco è prima di tutto un medium che fa dell’ottimizzazione della user experience e della funzionalità due dei suoi principi cardine. Nonostante questo, non mancano esempi di videogiochi che fanno volontariamente uso dell’inconsistenza delle realtà e dell’assurdità di determinate situazioni con lo scopo di esprimere narrativamente determinati concetti. Basti pensare alla riflessione sul libero arbitrio realizzata attraverso la messa a nudo (praticamente letterale) delle imposizioni ludiche a cui è assoggettato il giocatore effettuata in Metal Gear Solid 2: Sons of the Patriots (Konami, 2001). Nelle fasi finali del videogioco, infatti, il protagonista, dopo aver portato a termine con esito negativo una missione di infiltrazione guidata da remoto da un ufficiale dell’esercito americano, viene rapito, spogliato di tutto il suo equipaggiamento e imprigionato in una base segreta. In questa sezione del gioco, il protagonista scopre che la sua guida non è altro che un’intelligenza artificiale, che, fino a quel momento, lo stava costringendo a riprodurre le gesta di un soldato leggendario attraverso una simulazione nel mondo reale di determinati eventi del passato. Tale scoperta avviene però attraverso una serie di dialoghi ben oltre il limite dell’assurdo con l’intelligenza artificiale, corredati da video e immagini decontestualizzate, e per mezzo di falsi “errori” del sistema di gioco, come ad esempio schermate di game over forzate e interfacce alterate. Il significato di questo momento inconsistente è da ricercarsi nel tentativo del director Hideo Kojima di comunicare un messaggio sul libero arbitrio (che è il tema di fondo dell’intero gioco) attraverso la metafora del videogioco e del videogiocatore. Come il protagonista Raiden obbedisce a tutti i comandi ricevuti dalla IA, diventando di fatto solo una marionetta acritica all’interno di una simulazione, così il giocatore può fare solo quello che gli permette il videogioco, secondo un processo nel quale è più il videogioco a giocare con il giocatore che il contrario. Sebbene questo rappresenti un caso limite, non mancano esempi in cui gli sviluppatori, sfruttando il linguaggio videoludico e il riconoscimento da parte del giocatore delle

119 Cfr. Jesper Juul, Half-Real: Video Games Between Real Rules and Fictional Worlds, The MIT Press, Cambridge 2005; Edward Wesp, “A Too-Coherent World, Game Studies and the Myth of “Narrative” Media”, Game Studies. The

International Journal of Game Research, Vol. 14, N. 2, Dicembre 2014, http://gamestudies.org/1402/articles/wesp (ultima consultazione: 15 Ottobre 2019)

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norme che rendono coerente un sistema, hanno saputo dare vita a momenti di evidente incongruenza e assurdità narrativa con l’obiettivo di rinforzare o rendere più evidente un preciso messaggio o una determinata riflessione. L’unico elemento dell’anti-struttura che viene impiegato con maggiore regolarità nel design del videogioco è quello della casualità. Anche se un videogioco adotta una struttura narrativa rigida composta da solide relazioni di causa-effetto, non significa che debba rinunciare completamente all’introduzione di variabili che alimentano la casualità del sistema. Ad esempio, il concetto di narrazioni emergenti si basa fondamentalmente sulla possibilità di vivere storie uniche e personali proprio grazie agli elementi di novità e imprevedibilità che un certo livello di casualità può generare. Una casualità che si può configurare come l’insieme dei sistemi e dei processi non direttamente sotto il controllo del giocatore, ma che quest’ultimo può in qualche modo orientare grazie agli strumenti di interazione a sua disposizione. Basti pensare al caso dei procedural

generated worlds, ovvero quei mondi virtuali che non sono uguali in ogni iterazione del gioco ma

che sono unici e irripetibili ad ogni esperienza ludica, poiché si costruiscono sulla base di complessi sistemi procedurali. Grazie ad essi, la casualità diventa un agente narrativo di primaria importanza, poiché rappresenta il criterio secondo cui si regolano le infinite possibilità di dare luogo alle emergent

narratives precedentemente affrontate. Le narrazioni videoludiche lineari classiche, adottando

diversamente regole ed elementi tipici delle strutture appena descritte, si possono riassumere in quello che Carolyn Handler Miller definisce il critical story path, ovvero un racconto che «contains all the scenes a user must experience, and all the information that must be acquired, in order for the user to achieve the full story experience and reach a meaningful ending point»120. Ma la linearità narrativa nel videogioco non è limitata solo a queste forme mutuate da altri media, ma si può dare anche secondo strutture tipiche delle storie digitali interattive. La più implementata tra queste è certamente la string of pearls structure. Prendendone in considerazione una definizione ampia e generica, la struttura string of pearls prevede che «each of the “pearls” is a world, and players are able to move freely inside each of them. But in order to progress in the story, the player must first successfully perform certain tasks. Sometimes they cannot enter a new pearl until every task in the prior one is completed; sometimes they can enter other pearls, but access to certain areas within them will be blocked»121. Si tratta di una struttura per la quale gameplay e narrazione si alternano l’uno in funzione dell’altro. Detto in altro modo, le porzioni di gioco puramente interattive hanno come obiettivo il raggiungimento dei segmenti narrativi costituiti dalle “perle”, che a loro volta motivano il giocatore a proseguire nel gioco per sbloccare altre sezioni del racconto, il tutto secondo un processo

120 Carolyn Handler Miller, Digital Storytelling. A Creator’s Guide to Interactive Entertainment, Focal Press, Waltham

2004, pp.125-126

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unidirezionale e lineare. Come osserva Schell, infatti, «the idea is that a completely non-interactive story (the string) is presented in the form of text, a slideshow, or an animated sequence and then the player is given a period of free movement and control (the pearl) with a fixed goal in mind. When the goal is achieved, the player travels down the string via another non-interactive sequence, to the next pearl, etc. In other words, cut scene, game level, cut scene, game level»122. In ognuna di queste “perle” il giocatore può impegnarsi fondamentalmente in tre attività: può svolgere dei compiti necessari alla prosecuzione nella storia di gioco; può dedicarsi a interazioni che arricchiscono l’esperienza di gioco nel suo complesso, senza però procedere verso la tappa successiva del racconto; può, infine, dare vita a dinamiche di gioco che cambiano l’esperienza ludica per come è stata progettata inizialmente. Il modello string of pearls, in ultima analisi, rappresenta la forma di narrazione lineare più semplice da implementare e al contempo più accessibile per il giocatore, a cui vengono promessi momenti di libera interazione finalizzati al progresso nella storia videoludica, quasi come essa si sostituisse al concetto di punteggio in veste di sanzione positiva per i compiti portati a termine nelle fasi interattive dell’esperienza.