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2.3 Identità e percorsi sociali della persona affetta da HIV/AIDS

2.3.4 Stigmatizzazione e discriminazione della persona affetta da HIV/AIDS

L’infezione da HIV/AIDS, oggi manifestata anche attraverso la lipodistrofia, rimane ancora oggi una malattia fortemente stigmatizzante per le persone che ne sono affette. Lo stigma associato a

questa malattia è dunque un aspetto che non è possibile trascurare poiché può influenzare il benessere psicofisico della persona malata.

Il termine “stigma” non ha di per sé un’accezione negativa; tuttavia viene comunemente utilizzato proprio con una connotazione dispregiativa. Inteso in senso letterale, si riferisce ad un segno, un marchio visibile, anche se il marchio può anche essere una condizione o un attributo non visibile.

Lo stigma viene definito come un “segno caratteristico” e il suo significato ha due componenti: da una parte esso si riferisce a un attributo o una condizione permanente dell’individuo, dall’altra parte si riferisce alla connotazione negativa che questo “marchio” assume per la più ampia società. Lo stigma è pertanto un concetto sociale, molto vasto e multidimensionale, la cui essenza è centrata sul concetto di devianza: c’è generalmente consenso, nella letteratura, sul fatto che lo stigma sia una costruzione della devianza a partire da qualche ideale o aspettativa (Alonzo e Reynolds, 1995).

Il concetto di stigma è stato in primo luogo trattato all’interno della sociologia, in particolare da Goffman (1963). Secondo questo autore, lo stigma è un’etichetta sociale che scredita la persona e cambia radicalmente il modo in cui l’individuo vede se stesso ed è visto dagli altri come persona.

Quando l’individuo non si conforma alle aspettative normative a causa di attributi che sono differenti e/o indesiderabili, questi attributi costituiscono lo stigma, il marchio che rende la persona screditata, non accettata dalla società e quindi isolata. Lo stigma non è, secondo questo autore, solo un attributo concreto, ma è anche un linguaggio relazionale: ciò che è deviante è definito tale culturalmente. Pertanto, diverse società possono ritenere devianti cose diverse. Secondo la prospettiva dell’autore quindi si crea un sistema di ruoli, lo “stigmatizzato” e il “normale” e chiunque, in un’interazione sa già in partenza quali sono le aspettative associate a ciascun ruolo.

Secondo alcuni autori (Goffman, 1963; Katz, 1979), chi è stigmatizzato tende ad accettare le norme che lo squalificano e lo svalutano, quindi ad interiorizzare i valori negativi della società reprimendo al contempo la rabbia causata dalla discriminazione di cui è vittima; un processo, questo, che lo porta a sviluppare odio per se stesso e vergogna. Si creano pertanto dei confini, interni alla società, tra chi è stigmatizzato e chi non lo è e questo porta anche ad una notevole riduzione delle possibilità per le persone stigmatizzate. Lo stigma quindi è una condizione, uno status o un attributo duraturo e persistente che è valutato negativamente dalla società e di conseguenza discredita e svaluta l’individuo che ne è portatore.

E’ basandoci su questa definizione che possiamo distinguere lo stigma dal pregiudizio e dalla discriminazione: il pregiudizio, infatti, è un atteggiamento negativo rispetto ai membri di un certo gruppo sociale, quindi coinvolge emozioni come la paura, il disgusto e la rabbia (Herek, 2002); un pregiudizio personale è una manifestazione dello stigma solo quando riflette un giudizio negativo

della società rispetto al gruppo sociale considerato (anche un membro del gruppo stigmatizzato può nutrire dei pregiudizi negativi verso il gruppo di maggioranza, ma rimane sempre il suo il gruppo stigmatizzato). La discriminazione è invece un comportamento che si riferisce all’adozione di un comportamento diverso in funzione dell’appartenenza all’uno o all’altro gruppo (Herek, 2002);

anche in questo caso la discriminazione diviene una manifestazione dello stigma solo quando la società in generale permette o addirittura incoraggia questo comportamento. La discriminazione e il pregiudizio manifesto non sono necessari per far sentire stigmatizzato un certo gruppo: molti individui stigmatizzati preferiscono evitare l’ostilità e l’abuso da parte degli altri, a volte isolandosi, a volte cercando di “passare” come un membro di un gruppo non stigmatizzato, provando comunque un grande senso di paura e vulnerabilità.

Lo stato del corpo, la condizione fisica, lo stato di salute dell’individuo sono fattori determinanti sull’identità della persona affetta da HIV/AIDS poiché in grado di alterare, nel breve o nel lungo periodo, le sue condizioni di vita e la percezione che l’individuo stesso ha della propria vita e del proprio essere. Spesso, e quasi inevitabilmente, la capacità dell’individuo di condurre una vita attiva è infatti strettamente legata all’oggettivo stato del proprio corpo, cioè la presenza o assenza di malattia. In molti casi, accade che gli stessi medici, o comunque le persone a stretto contatto con l’individuo in oggetto, confermando lo status di malato, abbiano la possibilità di limitare l’interazione sociale della persona stessa. Etichette di “malato”, affibbiate o percepite in modo più o meno diretto, possono effettivamente attivare comportamenti di stigmatizzazione e emarginazione nocivi al ruolo sociale della persona in oggetto (Tewksbury e McGaughery, 1998). La persona malata ha spesso piuttosto la necessità di essere rafforzata positivamente nel proprio status di malato, senza che la sua condizione venga ripetutamente oggettivata o verbalizzata.

La condizione di malattia, o l’essere malato, non è più quindi uno stato determinato unicamente da obiettivi medici standard; talvolta rischia piuttosto di divenire un’interpretazione complessa e alterata, che va a riflettersi su credenze, aspettative e valutazione sociali circa il ruolo della persona stessa nella società. Quando si pone l’etichetta di malato, gli individui sono soggetti a “controlli sociali” rispetto a come il loro status di salute/malattia progredisce: l’etichetta di malato diviene così una sorta di variabile in costante mutamento e osservazione, che agisce direttamente sul ruolo della persona stessa nel contesto sociale (Doise, 1976; Tajfel e Turner, 1979). Riprendendo anche la definizione che Tajfel (1981) dà dell’identità sociale, l’identità di malato può essere considerata come una componente o parte dell’immagine di sé che deriva dalla consapevolezza di essere membro di un gruppo (malati), unita al valore e al significato emotivo attribuito a tale appartenenza.

L’identità della persona malata può quindi essere una di quelle identità sulla base delle quali le

persone definiscono la propria posizione all’interno del contesto sociale attivando processi di confronto con gli altri gruppi.

Consideriamo inoltre come e in che contesto la parola “malato” è stata talvolta utilizzata impropriamente. Sono stati identificati come “malati” i criminali, le persone facenti uso di droghe, le persone con disabilità fisiche e mentali. La parola malato viene perfino talvolta utilizzata grossonalmente come offesa. L’uso improprio di questo termine ha il potere di emarginare, stigmatizzare, talvolta ghettizzare gli individui. Oltre all’implicita conseguenza di dare luogo a aberranti e nocive credenze sociali. Da ciò, ovviamente, le prime e peggiori ripercussioni coinvolgono direttamente le persone realmente malate, coinvolte loro malgrado e soggette ancora una volta ad una dolorosa stigmatizzazione sociale, il cui più immediato riflesso è una più o meno violenta frantumazione del proprio essere, del proprio sé. Vediamo come questa situazione si rispecchia nel caso della malattia HIV/AIDS.

Sulla base delle considerazioni fatte sopra proviamo ad osservare la persona affetta da HIV/AIDS da un'altra angolazione, diversa da quella finora considerata: osservandola da un punto di vita esterno, se vogliamo così definirlo, ci appariranno nuovi aspetti della persona malata.

Nonostante siano passati ormai venti anni dalla scoperta del virus dell’HIV e si sia diffusa l’informazione circa le diverse modalità della sua trasmissione, ancora oggi sono presenti idee preconcette e atteggiamenti categorizzanti nei confronti di questa malattia e delle persone che ne sono affette. Lo stigmariferito all’infezione da HIV/AIDS è stato oggetto di particolare interesse nell’ambito della ricerca, poiché l’HIV/AIDS ha sempre avuto e continua ad avere ancora oggi caratteristiche stigmatizzanti (King, 1989; Bennet, 1990; Chung e Magraw, 1992; Weitz, 1993;

Varas-Diaz et al., 2005; Cao et al., 2006).

Il marchio attribuito alle persone affette da HIV deriva soprattutto dall'incomprensione su cosa siano l'HIV e l'AIDS e su come venga trasmesso il virus. Questa sorta di ostracismo deriva dai pregiudizi che la gente nutre sull'HIV/AIDS e su tutto ciò che ad esso tradizionalmente si associa ancora oggi, ovvero il sesso, la droga e le pratiche considerate tabù (omosessualità, prostituzione, uso di droghe); idee, quindi, legate soprattutto alla trasmissione del virus attraverso comportamenti ritenuti immorali (Collins, 1998; Varga, 1999; Cao et al., 2006). É inoltre una malattia di cui spesso si è ritenuti direttamente responsabili perché il modo principale di trasmissione dell’infezione riconduce spesso a comportamenti considerati volontari ed evitabili (Herek et al., 1998); le conseguenti idee preconcette su coloro che vivono con l’infezione da HIV/malattia AIDS sono associate all’idea che chi contrae il virus non ha valori morali (Obbo, 1995; Foreman, 1999; Kang, Rapkin, Remien e Mellins, 2005).

Le reazioni di stigmatizzazione della gente comune nei confronti delle persone affette da HIV sembravano soprattutto dovute alla possibilità che interagendo con esse vi potesse essere un qualche modo di contrarre il virus. Nell’ambito di questa malattia, infatti, erano e sono ancora oggi presenti giudizi erronei circa la trasmissione del virus dell’HIV, quali ad esempio idee di contagio legate a possibili contatti casuali (Cao et al., 2006).

Per le persone che dovevano affrontare questo tipo di malattia, essere stato scartato/rifiutato (King, 1989; Bennet, 1990; Donohue, 1991; Chung e Magraw, 1992; Laryea e Gien, 1993; Weitz, 1993) e osservare reazioni di paura negli altri (Demas, Schoenbaum, Wills, Doll e Klein, 1995; Moneyham et al., 1996; Siegal, Karus e Raveis, 1997; Sowell, Seals, Moneyham, Guillory e Mizuno, 1999; Fife e Wright, 2000) poteva costituire un fattore di notevole stress che si aggiungeva alla sofferenza e alla gestione della malattia.

La percezione e l’effetto dello stigma sulla persona malata può essere diverso a seconda della patologia presente. In uno studio, ad esempio, emergeva come le persone sieropositive percepissero una maggiore stigmatizzazione rispetto alle persone che non presentavano infezione da HIV (Abel, 2007); inoltre, l’HIV determinava nelle persone che ne erano affette una percezione maggiore di stigma anche rispetto alla presenza di altre malattie croniche quali ad esempio il cancro (Fife e Wright, 2000).

E’ importante comunque sottolineare che spesse volte la percentuale delle persone che fa esperienza di stigmatizzazione è di molto inferiore alla percentuale di persone che ha paura di essere stigmatizzate o che percepiscono stigmatizzazione dagli altri; questo si verifica soprattutto quando la persona affetta da HIV interiorizza la stigmatizzazione della sua malattia (Thomas et al., 2005);

tale interiorizzazione influenza negativamente anche i diversi contesti della vita quotidiana.

Rispetto al genere, lo stigma è sperimentato in misura maggiore dalle donne rispetto agli uomini, ma sembra essere percepito in eguale misura in entrambi i sessi (Thomas et al., 2005).

Lo stigma associato all’HIV/AIDS, inoltre, ha un impatto negativo sulle persone che, avendo avuto ad esempio comportamenti a rischio, dovrebbero effettuare il test di rilevazione del virus. Purtroppo la percezione negativa della malattia fa talvolta evitare di proposito tale necessità divenendo un potenziale rischio per se stessi e per gli altri (Chesney e Smith, 1999; Weiss e Ramakrishnan, 2001).

La stigmatizzazione dell'HIV/AIDS porta spesse volte alla discriminazione. La discriminazione è un modo di trattare persone associate all'HIV/AIDS: i sieropositivi, i loro parenti e amici. Anche le persone che non hanno reali connessioni con la malattia, infatti, sono spesso additate perché parte di un gruppo generalmente collegato all'HIV/AIDS. Ad esempio i membri della famiglia non affetti da questa malattia erano soggetti talvolta ad isolamento, perdita del lavoro e difficoltà nell’accesso ad

alcuni servizi. Questa situazione portava spesse volte le persone malate a non rivelare la propria condizione di sieropositività per proteggere i propri famigliari dalla discriminazione e dalle conseguenze che questa poteva portare nelle loro vite (Cao et al., 2006; Mills, 2006).

Le modalità di stigmatizzazione e discriminazione delle persone affette da HIV emerse nei diversi studi sono molteplici. Un tipo di stigma riportato da alcune persone malate includeva azioni verbali, con pettegolezzi legati alla persona e alla malattia di cui era affetta (Cao et al., 2006); ancora, azioni di isolamento sociale e fisico: uno degli eventi più comuni descritti dalle persone malate era l’essere deliberatamente ignorato o evitato dalle altre persone della comunità in generale, ma anche dai propri familiari (Varas-Diaz et al., 2005; Cao et al., 2006).

Conseguentemente a questo, possiamo dire che la malattia HIV/AIDS e lo stigma ad essa associato influenza negativamente molte delle relazioni sociali con la famiglia, gli amici e il partner sessuale, i colleghi e le figure sanitarie. In questo contesto si possono verificare situazioni che si ripercuotono negativamente nei diversi contesti della vita quotidiana della persona malata, quale ad esempio la perdita di un supporto sociale, sia da parte della famiglia che del contesto sociale in cui vive (Varas-Diaz et al., 2005; Cao et al., 2006). Questa malattia, infatti, non è una semplice malattia del corpo:

si estende oltre il corpo all’interno della mente delle persone con HIV, dei loro familiari, amici e della comunità sociale allargata (Mills, 2006).

Oltre a ciò, spesso accade che dopo essere venute a conoscenza del proprio status di malattia, diverse persone riducono i contatti con gli altri; gli individui con infezione da HIV non sempre amano interagire ancora con gli altri perché loro stessi pensano che avere la malattia HIV/AIDS sia una cosa orribile, indicibile. Le persone affette da HIV possono quindi mettere in atto comportamenti di autodiscriminazione che determinano una riduzione della loro vita sociale, delle loro relazioni interpersonali (Derlega e Barbee, 1998; Harvey e Wenzel, 2002; Cao et al., 2006).

Molte volte la stigmatizzazione, la discriminazione e la paura nei confronti dell’HIV/AIDS sono parte integrante di una certa cultura, che non fa nulla per delegittimare tali credenze.

Fortunatamente non in tutte le culture è presente la medesima situazione. Nello specifico, l’HIV sembra essere considerato in modo differente nelle diverse culture, e in modo differente sono stigmatizzate, discriminate, isolate, evitate le persone a seconda del loro genere. Ad esempio, nel contesto cinese l’uomo avendo un certo potere sugli altri membri della famiglia sembra avere meno difficoltà nella rivelazione della sua malattia rispetto alla donna; quest’ultima, nella posizione in cui si trova, ha una maggiore paura di essere discriminata e isolata per l’HIV e per i comportamenti che si associano di solito a questa malattia (Yang et al., 2006).

Lo stigma sembra quindi avere un effetto diretto attraverso meccanismi di discriminazione, conferma di aspettative e attivazione di automatici stereotipi, e indirettamente attraverso minacce

all’identità sociale e personale. L’identità risulta quindi minacciata dallo stigma relativo all’HIV: in particolare, l’identità risulta minacciata quando lo stress dello stigma attinente è valutato dalla persona come potenzialmente dannoso per la propria identità personale e sociale (Major e O’Brien, 2005). In questo contesto lo stigma legato alla malattia può essere considerato una delle dimensioni di contenuto che secondo Breakwell (1986) formano l’identità della persona: a seconda del valore che la persona attribuisce a queste dimensioni, l’identità sarà più o meno minacciata e subirà una conseguente trasformazione.

Lo stigma dunque per influenzare negativamente il benessere psicologico di una persona, non necessita di essere esplicitato attraverso azioni concrete, ma è sufficiente che la persona, appartenente ad uno specifico gruppo, percepisca che la società in generale svaluta quello stesso gruppo a cui appartiene. Questa situazione è in grado di innescare diversi meccanismi, come l’isolamento “volontario” per evitare il contatto con persone che potrebbero scoprire la presenza della caratteristica stigmatizzante, o l’odio per sé stessi, in quanto vengono interiorizzate le norme e i giudizi propri della società da parte dell’individuo stesso.

In relazione a queste considerazioni appare chiaro il motivo per cui molte persone sieropositive cercano di mantenere segreto il proprio stato sierologico e si sentono intrappolate e tradite dal proprio corpo quando compare la lipodistrofia: essi affermano che è come avere un tatuaggio con scritto “AIDS”, un marchio che rivela a chiunque li guardi la loro sieropositività. La lipodistrofia viene spesso percepita dai soggetti sieropositivi come una carta d’identità che svela al mondo la malattia da cui sono affetti, esponendoli al riconoscimento e quindi alla stigmatizzazione.

E’ anche l’insieme di questi aspetti relativi alla stigmatizzazione che ci ha portati ad ipotizzare che i cambiamenti del corpo legati alla lipodistrofia possano costituire una consistente minaccia all’identità delle persone che sono affette da HIV/AIDS.