2.2 HIV/AIDS e cambiamenti identitari
2.2.3 Studi sui processi di svelamento/rivelazione della malattia
malattia e da una manifestazione di questo cambiamento di decentralizzazione della stessa;
l’integrazione della malattia permetteva alla persona di non dedicarsi solamente alla malattia ma di concentrarsi su altre cose ritenute importanti per la propria vita.
Dai tre studi analizzati in questo paragrafo (Courtenay et al., 1998; Courtenay et al., 2000;
Baumgartner, 2007) emergeva un procedere graduale di fasi nell’incorporazione della malattia, fasi che nel tempo implicavano la presenza di nuovi schemi di significato. Questi ultimi erano, ad esempio, relativi ad una maggiore progettualità nel futuro o ad una maggiore cura di sé. Grazie a questi nuovi schemi c’era una maggiore integrazione della malattia nell’identità della persona malata. Oltre a tali schemi nel terzo studio condotto da Baumgartner (2007) le persone esprimevano una maggiore accettazione di sé e degli altri; vi era inoltre un’attenzione più significativa alle proprie relazioni interpersonali. I risultati di questi studi quindi confermavano la trasformazione degli schemi di significato in relazione ad una nuova visone del mondo e all’incorporazione della malattia nella propria identità.
In tutti gli studi presentati, la rivelazione era fondamentale come supporto alle fasi per l’accettazione della malattia. La rivelazione era in effetti il cardine sul quale poggiava il processo di incorporazione della malattia nell’identità. Secondo Baumgartner (2007) ad esempio, la persona, subito dopo la diagnosi della malattia, rivelava il proprio status di malato esclusivamente alle persone più significative; successivamente, faceva rivelazioni pubbliche tipiche della fase di immersione, cioè della fase in cui l’individuo cominciava a confrontarsi con persone con la stessa patologia e la malattia diventa parte centrale della propria vita; infine, faceva rivelazioni ragionate sulla base del contesto specifico in cui si trovava (questo aspetto della rivelazione verrà più ampiamente trattato nel par. 2.2.3).
Queste modificazioni nella rivelazione della malattia sottolineano un aspetto decisamente importante che è bene non trascurare: la necessità di considerare sempre la “fase di malattia” in cui la persona si trova quando questa partecipa ad un qualsiasi studio, con particolare attenzione nel caso si tratti di studi rivolti all’identità.
La rivelazione sembra essere una decisone critica che può condurre a conseguenze positive o negative. Gli studi già riportati nel paragrafo 2.2.2 (Merriam et al.,1997; Courtenay et al., 1998;
Courtenay et al., 2000; Baumgartner, 2007) sottolineavano infatti come l’elemento della rivelazione della propria malattia a terzi fosse un aspetto importante per l’accettazione della malattia stessa e per il processo di trasformazione dell’identità della persona malata.
La decisione di rivelare la propria malattia è una decisione complessa e vi risultano implicati numerosi fattori che influenzano le modalità e la scelta finale in cui la rivelazione avviene.
Alcuni studi evidenziavano che nel mondo occidentale, nella maggior parte dei casi, gli amici erano i primi ad essere informati del proprio status di sieropositività. Questo risultato era condiviso con alcuni membri della famiglia, anche se la rivelazione all’intera famiglia avveniva più tardi (Hays et al., 1993; Simoni et al., 1995; Stempel, Moulton e Moss, 1995; Wolitsky, Reitmeijer, Goldbaum e Wilson, 1998). Studi più recenti, invece, sottolineavano come la rivelazione fosse fatta maggiormente ai membri della famiglia di origine e in misura minore ad amici (Chandra, Deephivarma, Manjula, 2003).
La rivelazione al coniuge/partners aveva un’importanza condivisa dalle persone sieropositive, in modo particolare per la prevenzione della trasmissione del virus HIV. Petrak et al. (2001), infatti, evidenziavano come il 91% della popolazione del loro studio riferisse di avere rivelato almeno al partner la propria malattia.
Per quanto riguarda l’appartenenza di genere e le caratteristiche demografiche in generale, vi sono idee discordanti rispetto all’influenza di queste sulla decisione di rivelare la propria malattia ad altri.
In alcuni studi emergeva come talvolta l’orientamento sessuale e il genere assumessero un ruolo nella costruzione della decisione a rivelare la propria sieropositività (Derlega, Winstead, Greene, Serovish e Elwood, 2002); mentre altri studi sottolineavano, al contrario, l’assenza di differenze nell’atteggiamento di rivelazione rispetto al genere (Petrak et al., 2001).
Un fattore che risultava fortemente predittore della rivelazione era l’etnia della persona coinvolta:
ad esempio, la popolazione africana rivelava in percentuali minori la propria malattia rispetto ad europei e americani. Questo risultato è da considerarsi però con cautela poiché diverse persone di origine africana hanno lasciato il proprio paese per andare a vivere altrove, lontani dalla propria comunità con la quale la comunicazione è “ovviamente” diminuita. Occorre sottolineare che le stesse persone di origine africana che avevano partecipato a questo studio riportavano che nella loro comunità l’HIV continuava ad essere un tabù (Petrak et al., 2001).
Ancora, per alcuni autori il tempo di diagnosi e lo stadio di malattia influenzavano la decisione della rivelazione ad altri (Petrak et al., 2001). In altri studi, invece, lo stadio di malattia non era un fattore determinate la rivelazione della malattia (Chandra et al., 2003).
Infine, è importante sottolineare come, indipendentemente dalla cultura, dal tempo di diagnosi o dallo stadio di malattia, ci fosse da parte delle persone sieropositive che rivelavano la propria malattia un maggior senso di libertà, di indipendenza nella propria vita, quasi a riflettere una ripresa del controllo sulla vita stessa (Paxton, 2002).
Dal punto di vista più strettamente psicologico, la rivelazione della sieropositività mette la persona affetta da HIV di fronte ad una situazione in cui si trova ad esaminare e valutare una serie di
“fattori” che contribuiscono alla scelta finale. In diversi studi emerge come le motivazioni che conducono le persone a rivelare la propria sieropositività ad altri siano legate alla valutazione dei rischi e dei benefici sia personali che sociali.
Le ragioni della rivelazione risultavano spesso legate al senso del dovere/obbligo di informare l’altro e di educarlo. La persona malata sentiva spesso il dovere, la responsabilità di rivelare la malattia soprattutto al proprio partner che “aveva il diritto” di sapere la sua condizione di salute (Chandra et al., 2003). Allo stesso tempo però la rivelazione della malattia determinava un senso di colpa per le preoccupazioni che si potevano dare alle persone a cui veniva rivelata (Derlega et al., 2002).
In misura maggiore gli uomini, rispetto alle donne, sentivano il dovere di rivelare e educare soprattutto partners e familiari e in misura minore gli amici; le donne tendevano invece alla rivelazione in modo indifferente ad amici intimi, partner, e familiari (Derlega, Winstead e Folk-Barron, 2000; Derlega et al, 2002). Gli uomini, diversamente dalle donne, inoltre rivelavano in percentuali maggiori a persone simili rispetto all’orientamento sessuale. In particolare modo per le donne, la rivelazione diventava, più spesso che per gli uomini, un modo per verificare le reazioni degli altri e soprattutto del proprio partners di fronte alla malattia (Derlega et al., 2000; Derlega et al., 2002).
La rivelazione ad altri, inoltre, poteva condurre ad un supporto sociale che poteva attenuare l’effetto negativo di stress della malattia (Hays et al., 1993). Al contrario, nascondere il proprio status di malato poteva non solo precludere il supporto sociale e i suoi benefici, ma anche avere un effetto negativo sulla progressione della sieropositività dell’individuo (Cole, Kemeny, Taylors e Visscher, 1996). È importante sottolineare che la rivelazione della malattia risultava talvolta anche portatrice di vantaggi in termini di maggiore benessere non solo fisico, ma anche e soprattutto psicologico (Paxton, 2002): aumentava l’autostima e permetteva di ritrovare dignità e orgoglio. Metteva per certi versi la persona in grado di riprendere il controllo della propria vita (Derlega et al., 2000, Derlega et al., 2002) permettendole di riacquistare un’immagine e una valutazione positiva di sé.
Per alcune persone, inoltre, la rivelazione dell’ HIV agli altri portava benefici in termini di supporto non solo emotivo ma anche finanziario, in quanto l’essere affetti da malattia cronica comportava, ad esempio, vantaggi sulle pese mediche (Chandra et al., 2003).
Anche la decisione di non rivelare la malattia sembra basarsi, per certi versi, su una valutazione dei rischi e dei benefici, sia a livello personale che sociale, legati a questa scelta. In alcuni studi si evidenziava come la persona sieropositiva non rivelasse soprattutto per la paura della reazione degli altri (Derlega et al., 2002). In questo caso, se da una parte non rivelare la malattia permetteva alle persone di proteggere se stesse (Petrak, 2001), dall’altra parte, in particolare gli uomini, sottolineavano che non rivelare ai propri familiari risultava un modo per proteggerli (Derlega et al., 2002) soprattutto dallo stress che avrebbe comportato il venire a conoscenza della loro malattia (Petrak et al., 2001).
Va inoltre precisato che in molti casi la rivelazione di questa specifica malattia veniva considerata come fonte di disonore per sé e per la propria famiglia a causa delle caratteristiche attribuite alla malattia stessa e alle sue modalità di trasmissione (Chandra et al., 2003). Queste stesse caratteristiche determinavano spesso nelle persone direttamente coinvolte la paura della stigmatizzazione e discriminazione. Un tema quest’ultimo che, a conferma dell’importanza che riveste, è stato affrontato da diversi autori (Petrak et al., 2001; Paxton, 2002; Derlega et al., 2002;
Chandra et al., 2003).
Dai vari studi condotti in proposito è in particolare emerso come tra le persone affette da HIV il principale ostacolo alla rivelazione risulti costituito dalla paura dello stigma e delle reazioni degli altri (Serovich, 2001; Derlega et al., 2002; Serovich e Mosack, 2003). Non rivelando la propria condizione la persona malata cercava di proteggere se stesso e gli altri (soprattutto i familiari) da eventuali discriminazioni, da possibili maltrattamenti verbali e fisici nelle diverse circostanze della vita quotidiana (Hays et al., 1993; Mason, Marks, Simoni, Ruiz e Richardson, 1995; Simoni et al., 1995; Semple, Patterson, Shaw, Pedow e Grant, 1999).
La rivelazione della malattia diventava dunque un paradosso: da una parte metteva la persona di fronte alla possibilità di essere stigmatizzata e discriminata dagli altri e dalla società più in generale, dall’altra parte era una fase liberatoria costituendo un aiuto per la salute e il benessere della persona sieropositiva (Paxton, 2002).
Oggi vi è un ulteriore aspetto, fino a qualche anno fa non presente, che contribuisce ad ostacolare la decisione di rivelare la propria malattia: la manifestazione della lipodistrofia. I cambiamenti morfologici del corpo connessi alla sindrome lipodistrofica legata all’infezione da HIV possono infatti mettere la persona di fronte alla condizione di non potere scegliere se rivelare o meno la
sieropositività di cui è affetta. I cambiamenti dell’aspetto corporeo possono infatti ricondurre, talvolta con estrema facilità, al riconoscimento della malattia HIV/AIDS.
La lipodistrofia potrebbe diventare un marcatore visibile della malattia e, conseguentemente, potrebbe minacciare il senso di sé in generale e nello specifico la dimensione dell’identità corporea.
Infine, un aspetto importante, talvolta trascurato, prende in considerazione gli aspetti giuridici che possono fare seguito alla rivelazione della propria sieropositività ad altri. In generale, sembra essere presente una giurisprudenza orientata a colpevolizzare la persona già infetta (se questa sa di esserlo) che si pone in relazione con altri. Pur essendo tutti consapevoli dell’esistenza di malattie a trasmissione sessuale e dei rischi che ne derivano la responsabilità di ciò che succede rimane pertanto della persona già sieropositiva (Magliona, 2000). La persona affetta da HIV può quindi andare in contro ad implicazioni legislative per la rivelazione (o la non rivelazione) della malattia ad altri (in generale soprattutto ai partners) a seconda della “gravità dell’atto”.
L’intera situazione dunque può comportare un incentivo a non fare il test per sapere del proprio status di malattia e, soprattutto, può essere un ulteriore fattore tenuto in considerazione dalle persone per non rivelare al partner o ad altri la propria sieropositività (Magliona, 2000).
Come è stato evidenziato, molteplici sono dunque i fattori che contribuiscono alla decisione di rivelare o meno la malattia HIV/AIDS. Altrettanto complesse sono le implicazioni che la rivelazione comporta nelle diverse aree della vita quotidiana delle persone malate e nei processi di ridefinizione della loro identità. Temi, questi, che verranno affrontati ed approfonditi nei successivi paragrafi.