• Non ci sono risultati.

L’Italia durante gli anni Sessanta e Settanta

3.1. I movimenti politici, civili e religios

3.1.3. Studenti ed opera

Il decennio 1960-1970 fu scandito da fiammate di combattività operaia che riflettevano una nuova latitudine delle rivendicazioni e dei metodi di lotta. Gli scioperi del 1962 che avevano toccato le fabbriche settentrionali e che avevano dato origine ai disordini in Piazza Statuto a Torino avevano inaugurato una nuova fase di tensioni e radicalismo. La rigidità del mercato settentrionale del lavoro, l’alienazione degli operai comuni e la rabbia degli immigrati meridionali, alla base degli scioperi del 1962, non scomparvero negli anni successivi. L’emigrazione dal Sud non si era infatti arrestata con il tempo e continuava rinnovare le pressioni sulle grandi città e ad inasprire il rapporto di integrazione tra immigrati e nativi. La ripresa economica del 1966 non riuscì a sanare questo squilibrio e le nuove schiere di lavoratori provenienti dal Sud non riuscirono ad essere assorbiti dalle industrie. Ad aggravare le situazione contribuiva il peggioramento delle condizioni di lavoro in fabbrica. Dopo la crisi degli anni 1964 e 1965, infatti, i ritmi di

462D. Calanca, op. cit., pp. 173-174.

463 P. Ginsborg, op. cit., p. 332, vedi anche R. Lumley, “1968 e oltre: spazio dei movimenti e

crisi d’autorità” in L. Baldissara (a cura di), Le radici della crisi. L’Italia tra gli anni Sessanta e Settanta, Carocci, Roma, 2001, pp. 254-256.

129

lavoro erano aumentati all’interno della fabbrica e la diffusione del cottimo aveva creato differenze sempre più profonde tra lavoratori464.

La rabbia dei lavoratori derivava, in parte, dai problemi connessi all’insostenibilità delle condizioni di vita nelle metropoli e, più in generale, alla rigidità del sistema lavorativo. Contribuivano ad esacerbare le tensioni anche l’incapacità delle associazioni sindacali di tutelare gli interessi della classe operaia a causa del continuo legame con i partiti relativi. Gli operai decisero allora di prendere in mano la difesa dei propri interessi465.

Le prime battaglie operaie del 1968 avvennero nelle fabbriche periferiche, meno sindacalizzate, ma velocemente si estesero ai grandi complessi industriali del Nord e del Contro Italia. Le iniziative di lotta provenivano perlopiù da operai specializzati perché maggiormente strutturati e con una

maggiore esperienza

nell’organizzazione degli scioperi. Il modello delle agitazioni che avrebbe avuto luogo nei mesi seguenti fu quello della Pirelli di Milano. I

sindacati di fabbrica

proclamarono uno sciopero di tre giorni come forma di protesta per il rinnovo di un miglior contratto per i lavoratori della gomma. Nel febbraio del 1968 vennero

accettati aumenti salariali a scapito del miglioramento delle condizioni di lavoro. Nel giugno del 1969, un gruppo di operai e di impiegati della Pirelli organizzarono il Comitato Unico di Base (CUB) per continuare la lotta a livello di fabbrica. L’adesione superò largamente le speranze degli organizzatori e il CUB divenne un modello per la nascita di altri comitati di base466. Gli operai insistevano perché fossero ridotte le differenze salariali

tra operai e impiegati, lottavano contro il trattamento economico differenziato tra Nord e Sud del paese, e per l’affermazione di un salario fisso, non dipendente dalla variabilità della situazione economica, in modo da diminuire lo sfruttamento. Nel 1968 gli scioperi si moltiplicarono,

464 G. Crainz, Storia del miracolo italiano. Culture, identità, trasformazioni fra anni

cinquanta e sessanta., Donzelli, Roma, 1996, pp. 181-200.

465 S. Lanaro, op. cit., pp. 279-280. 466 P. Ginsborg, op. cit., p. 245.

130

turbarono sempre più il lavoro e crearono un nuovo senso di solidarietà tra operai. La pratica del picchettaggio di massa fuori dai cancelli, spesso svolta con l’aiuto degli studenti, prese piede ma fu velocemente sostituita con le manifestazioni all’interno delle stesse fabbriche467. Un gruppo di operai

incrociava le braccia, e invece di uscire dalla fabbrica, rimaneva all’interno per organizzarsi; altri gruppi si aggiungevano rapidamente e in pochi minuti tutto il lavoro era bloccato.

Il culmine di queste iniziative spontanee avvenne nell’estate del 1969 alla Fiat di Torino. Un gruppo di giovani operai guidarono una serie di scioperi tra maggio e giugno alla Fiat di Mirafiori per ottenere migliori condizioni di lavoro. L’azione era coordinata da un’assemblea di studenti e operai che si ritrovavano alla fine dei turni. Durante la giornata di sciopero indetta dai sindacati contro il caro affitto del 3 luglio 1969, prese avvio una dimostrazione autonoma dai cancelli di Mirafiori e di altre fabbriche torinesi sotto il grido «Che cosa vogliamo? Tutto!». Il corteo venne attaccato dalla polizia e piccoli scontri si protrassero fino a notte inoltrata468. I sindacati, di

fronte alla radicalizzazione delle posizioni operaie, dimostrarono di sapersi adattare velocemente. Mano a mano si allontanarono dalla politica e sposarono la causa degli operai comuni nel tentativo di realizzare, una volta per tutte, quelle riforme essenziali tanto promesse ma mai poste in atto dalle coalizioni di centro- sinistra469. Con l’avvento degli anni

Settanta e della crisi economica sia i sindacati che le proteste operaie dovettero adattarsi alla nuova realtà economica e alla politica deflazionistica del governo. Il mantenimento dei salari reali e la difesa del posto di lavoro diventarono obiettivi prioritari rispetto al tentativo di cambiare l’organizzazione del lavoro470.

467 P. Ginsborg, op. cit., p. 427.

468 V. Vidotto, “Violenza politica e rituali della violenza” in A. Ventrone (a cura di), I

dannati della rivoluzione. Violenza politica e storia d’Italia negli anni Sessanta e Settanta, Eum, Macerata, 2010, pp. 48-51.

469 D. Saresella, “L’Italia tra ottimismo e delusione (1963-1978)”, op. cit., p. 393. 470 P. Ginsborg, op. cit., p.430.

Fig. 30 Sciopero alla fabbrica di Mirafiori, 1969.

131

Contemporaneamente, la nascita di un sistema di istruzione di massa aveva portato all’ampliamento del numero degli studenti italiani. Nonostante le aperture del sistema d’insegnamento italiano, esso soffriva di gravi carenze sia da un punto di vista organizzativo che strutturale. Mancavano sussidi e l’università, adesso aperta a tutti, rispecchiava di fatto le struttura classista della società. Si vennero così a formare correnti di pensiero in contrasto con le due ortodossie dominanti in Italia: il

cattolicesimo e il comunismo471. Inoltre, si

andò sempre più manifestando una ripresa del pensiero marxista. Sotto la guida di Raniero Panzieri e della rivista «Quaderni Rossi», da lui fondata, furono fatti nuovi tentativi per analizzare in termini marxisti il rapido sviluppo materiale dell’Italia. Il 1968, da questo punto di vista, fu dunque molto più di una protesta contro la miseria studentesca; esso fu una rivolta etica, un rilevante tentativo di rovesciare i valori dominanti dell’epoca. L’obiettivo era di impedire, prima agli studenti e poi all’intera popolazione, l’ “interiorizzazione” dei valori della società capitalistica472. La

Guerra in Vietnam, la Rivoluzione culturale cinese e la morte di Che Guevara

contribuirono a rafforzare e radicalizzare il movimento. Alla fine di febbraio del 1968 la cittadella universitaria di Roma fu occupata dagli studenti. Il rettore, in accordo con il corpo accademico, decise di chiamare la polizia e di intimare lo sgombero. A marzo, nel giorno di Pasqua, uno studente di sociologia di Trento, Paolo Sorbi, si contrappose al parroco e venne cacciato e malmenato dai fedeli473. Il 21 dicembre, un gruppo di giovani a Milano

organizzò, davanti alla Rinascente, una protesta contro la mercificazione del Natale. Episodi come questi racchiudevano in sé quasi tutti i caratteri salienti della rivolta studentesca in Italia: il rifiuto di un sapere avulso dai bisogni di chi ne apprendeva i contenuti, il cattolicesimo dissidente e rivoluzionario, l’antiautoritarismo, il desiderio di riappropriarsi della propria soggettività, il forte spirito di amicizia e la spontaneità del

471 P. Ginsborg, op. cit., pp. 406-407. 472 Ivi, p.408.

473 M. Revelli, “ Movimenti sociali e spazio politico” in F. Barbagallo (a cura di), Storia

dell’Italia Repubblicana, Vol. II, Einaudi, Torino, 1995, p. 407.

Fig. 31 Copertina del volume secondo della rivista «Quaderni Rossi»

132

collegamento tra gruppo e gruppo, la denuncia globale e senza appello del “sistema” di produzione, distribuzione e consumo di beni474.

In Italia il ciclo di proteste del movimento studentesco ebbe una durata più breve rispetto a paesi come gli Stati Uniti e la Francia: iniziò con l’occupazione della Sapienza a Pisa nel febbraio del 1967, passò attraverso l’impossessamento da parte degli studenti di altre sedi universitarie nell’autunno e nell’inverno successivo (Università Cattolica e Statale a Milano, Trento, Torino, Roma, Napoli) e si esaurì nella tarda primavera del 1968, per spegnersi definitivamente il 31 dicembre dello stesso anno con la manifestazione davanti al locale “La Bussola” di Marina di Pietrasanta, quando la polizia aprì il fuoco per la prima volta e ferì un dimostrante. Successivamente il movimento si sarebbe contraddistinto dal rifluire di gruppi già politicizzati in formazioni di estrema sinistra, contrarie al “revisionismo” del PCI e che cercarono di dar vita a gruppi rivoluzionari475.

L’atteggiamento studentesco durante queste manifestazioni inizialmente era stato abbastanza pacifico anche se la violenza fu accettata come inevitabile e giustificata, ed entrò quasi incontestata tra i valori e le azioni del movimento.

Nel 1968 il movimento studentesco si spostò rapidamente dalle università verso le fabbriche, dove incontrò il malumore e le proteste degli operai.