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IL TEMPO «NELLE» CLAUSOLE GENERALI

Nel documento PROPOSTE PER UN DIRITTO DEL TERZO MILLENNIO (pagine 179-187)

Mauro Grondona1

1. Il titolo di questo mio breve intervento richiama uno scritto di Stefano Rodotà che per i civilisti è certamente un passaggio obbligato di riflessione e sul quale è oggi forse opportuno ritornare: alludo a «Il tempo delle clausole generali», apparso nel 1987 nella «Rivista critica di diritto privato».

Potremmo per tanto dire: dal tempo «delle» clausole generali al tempo «nelle» clausole generali, con questa prospettiva. Se ormai è del tutto pacifica la centralità delle clausole generali come normale strumento di lavoro del legislatore e del giurista (basta del resto richiamare il diritto privato dell’Unione europea e il diritto privato europeo in via di formazione) – il nostro è appunto il tempo «delle» clausole generali –, in un momento storico come quello di oggi, in cui dominano pluralismo delle fonti e pluralismo assiologico occorre in particolare riflettere sull’incidenza del fattore tempo nell’uso delle clausole generali – donde il problema del rapporto tra tempo giuridico, tra tempo del diritto, inteso come tempo dell’azione giuridica (un’azione che, qualunque fonte abbia, si risolva poi in una social action, come tale idonea a concretamente incidere sulla dimensione collettiva dell’agire), e impiego delle clausole generali quali strumenti potenzialmente tempestivi e come tali sperabilmente funzionali alle esigenze del presente.

Si può anche dire – con altre parole – che il fattore temporale, cioè la generalizzata richiesta di «far presto», cioè l’urgenza di una trasformazione giuridica (che, proprio perché urgente, sarebbe illusorio pensare possa essere soddisfatta dal solo legislatore), aggrava ulteriormente le consuete difficoltà di impiego che sempre emergono quando si parla di clausole generali: nel senso che, almeno a me pare, la scontata centralità dell’individuo (o se si preferisce della persona, senza adesso voler distinguere i due campi semantici, con tutto ciò che ne conseguirebbe) impone una riflessione sul tempo del diritto, e sul difficile rapporto (che può essere discusso ma che io assumo come punto di partenza) tra tutela dei diritti individuali e

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Professore Associato di Diritto privato presso l’Università degli studi di Genova e docente a contratto nell'Universitad Católica di Lima.

funzione giurisdizionale; rapporto, a mio modo di vedere, se non risolvibile (sarebbe certamente ingenuo il crederlo) quantomeno meglio comprensibile proprio in virtù di una riflessione che riconduca la tutela dell’individuo, e cioè la sua libertà, a un impiego assiologicamente consapevole (e quindi ideologicamente orientato) delle clausole generali; nell’idea che spazi del diritto e spazi della libertà hanno assunto oggi una dimensione diciamo pure storico-antropologica che possono rafforzare e non indebolire l’idea di un diritto come rimedio per l’estensione della libertà.

La tesi che intendo qui sostenere è allora che il giudice, facendo uso delle clausole generali (ma lo stesso discorso potrebbe essere fatto e andrebbe fatto per i principi generali), dispone di uno strumento largamente soddisfacente (pur se rischioso) per ampliare gli spazi di libertà individuale: spazi che, sotto il profilo descrittivo, tendono empiricamente ad ampliarsi in ragione di una acquisita consapevolezza – appunto storico-antropologica – circa l’intrinseca legittimità dell’agire individuale; spazi che, sotto il profilo valutativo, riconduco all’idea – oggi, peraltro, piuttosto in declino – che la storia come esperienza collettiva è storia della libertà individuale.

2. Nella prospettiva che qui si cerca di tratteggiare è indispensabile guardare al giudice come a un fattore di trasformazione sociale. Credo che il rifiutarsi di farlo – come di solito accade – sia bensì un atteggiamento legittimo se non quasi ovvio che però rappresenta anche un forte limite alla comprensione della contemporaneità: il rifiuto del presente (o l’accettazione del presente solo in quanto degenerazione di un passato migliore) non è infatti la via più feconda verso la chiarificazione dei problemi e delle difficoltà che ci stanno di fronte; per contrastare le tendenze in atto occorre necessariamente prenderle sul serio, altrimenti si adotta appunto, e magari inconsapevolmente (il che non è meno grave), il tipico atteggiamento che considera l’oggi come una corruttela dell’ieri, donde, per contrastare l’oggi, occorre ritornare all’ieri: vaste programme).

Mi spingerei fino al punto di dire che il giudice, mettendo a frutto le potenzialità delle clausole generali, svolge una funzione istituzionale che è decisiva (o che comunque lo è nella prospettiva di queste pagine) all’interno della contemporanea società liberal-democratica: e cioè potenziare la sfera dell’agire individuale in una visione appunto prasseologica (che inevitabilmente mette in connessione azione individuale e libertà), che come tale colloca al centro della società (senza più gli imbarazzi di un tempo, che forse potranno tornare ma che al momento sono quasi del tutto silenti) la sfera dell’agire individuale (sfera inevitabilmente legata alla responsabilità e

alle conseguenze della libertà) e le derivazioni empiricamente prodottesi in termini di valore aggregato, cioè socialmente rilevante. Ciò naturalmente non significa affatto che sempre e comunque il prodotto dell’azione individuale sia socialmente apprezzabile; significa però che gli esiti dell’agire individuale debbono essere valutati – tendenzialmente e specialmente quando essi siano in tutto o in parte ignoti – ex post e non ex ante (qui il tema, che mi limito a evocare, è in particolare quello della rilevanza del principio di precauzione in senso liberale e non paternalista: più avanti svolgerò qualche ulteriore considerazione).

Facevo poco sopra riferimento espresso all’opportunità di un massiccio impiego giudiziale delle clausole generali; diciamo pure: un mettere a frutto con sapienza «dogmatica» le potenzialità delle clausole generali, se vogliamo scomodare un aggettivo rischioso ma che torna automaticamente attuale perché esprime l’esigenza di indispensabile rigore concettuale proprio nel momento storico in cui il diritto – sul piano delle fonti – diventa, più che flessibile, malleabile, appunto perché plasmabile dall’azione individuale costante; un’azione che ovviamente va oltre i tradizionali formanti del diritto e richiama su di sé una specifica attenzione teorica.

Il punto richiede un chiarimento. Se oggi – cosa che mi pare innegabile – è ampiamente diffusa la percezione e addirittura la mera impressione che non è impresa così ardua quella di riuscire a far sì che una pretesa individuale si trasformi in diritto oggettivo (il che, a mio avviso, è un bene, appunto sul piano istituzionale), al contempo tale approccio al versante della giuridicità impone una saldezza categoriale e quindi concettuale che non conduca alla repressione della novità, ma che al contrario impedisca che la novità possa trasformarsi in fattore di inspiegabile instabilità sociale, con grave danno arrecato alla stessa mobilità del diritto. Si tratta insomma di non vedere più contrapposte dogmatica giuridica e dimensione politica del diritto, come se la prima rappresentasse il freno e il limite della seconda; al contrario, poiché il diritto è naturaliter politica in quanto fondamento dell’assetto istituzionale, la dogmatica svolge il ruolo di filtrare la politica intesa come ideologia, scelta, pretesa e azione di chi fa parte di una determinata collettività e di assicurare che la regola giuridica sia sostenibile in virtù di un ragionamento e di una argomentazione espresse in modo sufficientemente trasparente, onde superare quel grave limite – profondamente antidemocratico – che è lo scrivere tra le righe, che da arma di difesa può anche diventare arma di attacco.

3. Ricollegandomi a uno dei principi ispiratori delle giornate perugine (e calviniane: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità, consistency) –, il tema è quello della «rapidità» del diritto e nel diritto (va notato come il tema del tempo delle istituzioni sia studiato soprattutto dai filosofi della politica: e penso soprattutto ai contributi di Raimondo Cubeddu2): ma nella prospettiva di queste pagine si tratta di una rapidità che inevitabilmente attiene alla teorica delle fonti del diritto e in particolare – per le cose fin qui dette – al rapporto tra giudice e legislatore sotto il profilo del tempo impiegato dal giudice e dal legislatore (tempo giudiziale e tempo legislativo) per intervenire nel modo socialmente atteso, socialmente opportuno: un’attesa e una valutazione di opportunità filtrate dal progressivo ampliamento degli spazi di libertà e quindi di azione individuale.

Riflettere sul tempo di azione del giudice e sul tempo di azione del legislatore messi in connessione con il tempo dell’attesa sociale significa necessariamente affrontare delicati aspetti metodologici.

In primo luogo: ammesso che sia bene intervenire velocemente per ampliare la libertà individuale e ammesso che velocità e libertà individuale vadano di pari passo, come si può fare per conseguire tale ampliamento? e soprattutto: chi è istituzionalmente legittimato a operare tale ampliamento: il giudice o il legislatore?

La mia risposta – lo si è già visto –, è che è preferibile lo faccia il giudice, per ragioni che attengono alla dimensione istituzionale del diritto, e perché esistono strumenti concettuali e argomentativi perfettamente idonei a evitare che la fisiologica discrezionalità giudiziale (senza la quale il ruolo del giudice sarebbe del tutto privo di contenuto e quindi di senso appunto istituzionale) si trasformi in patologico arbitrio (che non è soltanto – e forse non è nemmeno soprattutto – la decisione capricciosa, perché la decisione capricciosa spicca come tale ed è facilmente individuabile e neutralizzabile; l’arbitrio maggiormente insidioso è quello occultato in motivazioni, argomentazioni, tesi rispetto alle quali una presunta santità – invero piuttosto diabolica – della dogmatica – intesa quale soluzione imposta dall’interno dell’ordinamento – rappresenta in sostanza una violenza argomentativa, la cifra della moderna anti- e a-democrazia).

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In particolare v. CUBEDDU, Raimondo. Le istituzioni e la libertà. Macerata: Liberilibri, 2006, spec. la Parte II «Le istituzioni e la libertà», p. 139 ss. V. anche BARROTTA, Pierluigi (a cura di). Soggettivismo, tempo ed istituzioni. A partire dalla Scuola Austriaca. Soveria Mannelli: Rubbettino, 2005, nonché VANNUCCI, Alberto. Governare l’incertezza. Scelte pubbliche e cambiamento istituzionale. Soveria Mannelli: Rubbettino, 2004.

Quanto appena osservato andrebbe connesso (ma non posso farlo in questa sede) con il tema della storicità e quindi della storicizzazione della dogmatica giuridica. Dogmatica storica e dogmatica storicizzata esprimono la necessità pratica (e la necessità di una continua riflessione teorica su essa) che la dottrina elabori e rielabori costantemente quelle categorie concettuali che il giurista deve utilizzare soprattutto per rendere controllabile, e quindi il più possibile trasparente, il suo ragionamento (il controllo e la trasparenza del ragionamento giuridico è uno degli aspetti del principio di legalità: non si insisterà mai abbastanza su ciò). Ma si tratta appunto di categorie e di concetti storicamente mutevoli, come tali costruiti e impiegati quali strumenti tecnici adeguati in ragione dell’assetto politico-istituzionale della società.

C’è quindi una inevitabile politica del diritto della dogmatica giuridica che tendenzialmente ancora oggi si preferisce lasciare un po’ in ombra (quando non occultare), appunto perché l’utilizzo della dogmatica giuridica è fare politica del diritto.

4. Vediamo in sintesi alcuni rapporti istituzionalmente rilevanti (perché da essi dipende la conformazione dell’assetto sociale) che ruotano attorno al fattore temporale: il tempo del giudice e il tempo del legislatore; il tempo della collettività e il tempo degli individui; il tempo dell’attesa e il tempo dell’azione; il tempo della giurisdizione e il tempo della politica; il tempo delle scelte individuali e il tempo delle scelte collettive; il tempo della pretesa pre- o anti-giuridica e il tempo del giuridicamente rilevante.

Tutti rapporti altamente problematici.

La mia tesi per cui, in una società liberal-democratica (sinonimo di società pluralista e quindi di società aperta), la rapidità del cambiamento è indispensabile proprio in vista di una più compiuta attuazione dei diritti dell’individuo si può giustificare richiamando il fenomeno della globalizzazione quale tertium comparationis.

In tema di globalizzazione forse è utile separare e tener distinti i due classici piani, quello della descrizione e quello della valutazione (anche se in parte è una distinzione illusoria).

Ora dal punto di vista descrittivo la globalizzazione è anche un confronto, una comparazione a largo raggio che implica un cambiamento dei comportamenti individuali sulla base di modelli individuali e collettivi dominanti e recessivi.

Quindi la globalizzazione è prima di tutto un fenomeno sociale a base materiale, e la base materiale è appunto costituita da quei comportamenti individuali che non rimangono fatto privato ma che assumono rilevanza sociale e producono effetti in termini di aggregato sociale; da cui una incidenza sul politico e sul giuridico: su quella che Friedrich Hayek con formula felice ha chiamato la «filosofia generale della società».

Dal punto di vista valutativo ritengo che la globalizzazione possa essere un opportuno strumento di velocizzazione e di trasformazione del diritto e quindi uno strumento di potenziamento dei diritti individuali, che sono il fulcro della società aperta. Quindi uno strumento a cui guardare più con fiducia che non con timore. Naturalmente ogni cambiamento produce conseguenze o non previste o neppure prevedibili o addirittura contro le intenzioni di chi ha compiuto determinate scelte, ma proprio l’incertezza circa il futuro è un elemento vantaggioso almeno dal punto di vista dell’ordine generale delle azioni; e comunque aggiungerei che la società liberale è sufficientemente forte al suo interno (e si tratta di una forza culturale e quindi istituzionale) per adottare, dal punto di vista teorico e metodologico, una versione liberale e non paternalistica del principio di precauzione.

In questa prospettiva il cambiamento e la velocità del cambiamento dovrebbero piuttosto essere incoraggiati proprio di fronte alle incertezze future e all’ineliminabile ignoranza cognitiva che riguarda tutti e che in quanto tale è l’elemento su cui si fonda il mercato inteso come processo di scoperta.

Il principio di precauzione in veste liberale è quindi conforme all’idea della rapidità della trasformazione sociale e conseguentemente giuridica.

5. Ritornando all’aspetto temporale, si può dire che il tempo individuale e quindi il tempo sociale (o si preferisce il tempo istituzionale) non dovrebbero essere imposti dal legislatore ma lasciati al libero gioco processuale, perché il legislatore è per forza di cose più lontano dai fatti che non il giudice.

Allora – e rimanendo sempre sul piano valutativo –, un diritto più mobile e rapido può ottenersi guardando al giudice quale ottimale fattore di trasformazione sociale, mettendo appunto a frutto le potenzialità delle clausole generali.

Quando si parla di clausole generali non si può non far riferimento al problema della concretizzazione. Operazione, questa, non solo tecnica, anzi soprattutto assiologica, la cui complessità aumenta con l’aumentare del pluralismo assiologico che necessariamente caratterizza le società aperte e che è la forma democratica più matura.

Se allora assumiamo il giudice (e il potere giurisdizionale) quale istituzione della società aperta si possono sottolineare alcuni aspetti.

In primo luogo c’è un aspetto metodologico, che riguarda anche la teoria costituzionale: il giudice è l’istituzione a metà strada tra istanze individuali e dimensione sociale del diritto; questa posizione (e al contempo questo ruolo) del giudice possono essere molto ben valorizzati proprio all’interno della prospettiva che guarda alla dimensione sociale del diritto come al prodotto dell’azione individuale – azione nel senso di un agire individuale che è sempre socialmente rilevante.

Qui ritorna il tema della velocità, della rapidità, della dinamicità, nel senso che tanto meno le posizioni soggettive sono ostacolate nel cambiamento, tanto più è possibile un ampliamento della sfera dei diritti individuali.

Il ruolo del giudice può allora essere studiato non tanto nel senso tradizionale di decisore del caso concreto, ma soprattutto in un senso almeno in parte nuovo in quanto costruttore dell’ordine giuridico-sociale: ruolo che presuppone un altrettanto rinnovato rapporto tra il potere legislativo e il potere giudiziario.

Direi molto in sintesi, e in via conclusiva: da un lato c’è il giudice quale costruttore dell’ordine giuridico-sociale (Diritto), dall’altro lato c’è il legislatore quale costruttore dell’ordinamento giuridico (Legge).

Ovviamente sono posizioni e ruoli che non possono non essere correlati, e altrettanto ovviamente sono posizioni reciprocamente problematiche.

Una siffatta relazione tra legislatore e giudice comporta anche una rimeditazione della gerarchia tra le fonti del diritto (nella prospettiva del diritto privato globale e dei sistemi sociali complessi), del rapporto tra disposizione normativa e regola del caso concreto, e quindi anche del rapporto astratto/concreto, generale/speciale.

delle clausole generali, stile giudiziario o in senso ancora più esteso comportamento del giudice, conflitto tra formanti del diritto, formazione spontanea e indotta di un ordine sociale che sia promozionale della libertà individuale.

Ciò nell’idea che il rapporto individuale/collettivo può essere ripensato a partire dalla prospettiva per cui un potenziamento, e quindi un allargamento, della libertà individuale costituisce un beneficio sociale, e che la funzione dello Stato sociale, oggi, può essere intesa non tanto come protezione dell’individuo ma come ampliamento della sfera della libertà individuale.

Nel documento PROPOSTE PER UN DIRITTO DEL TERZO MILLENNIO (pagine 179-187)