Come si è visto, «il gioco è qualcosa che tutti conosciamo» (Bertolo, I. Mariani, 2014, pag. 4), ma soltanto verso la fine del ventesimo secolo è nata ufficialmente la disciplina che si occupa di studiare le relazioni tra gli esseri umani e il gioco: i Game Studies.2
Precedentemente esistevano due filoni di analisi delle attività ludiche, uno riguardante il gioco infantile e l’altro lo studio dei singoli giochi, quali, ad esempio, gli Scacchi (VI sec. D. C.), il Go (VI sec. A. C.) e così via. La situazione è cambiata a partire dal 1800, quando alcuni filosofi si sono dedicati alla riflessione sul gioco. Oggi i Game Studies sono riconosciuti come una disciplina scientifica indipendente e sono in continua evoluzione.
2. «2001 can be seen as the Year One of Computer Game Studies as an emerging, viable, international, academic field. […] And it might be the first time scholars and academics take computer games seriously, as a cultural field whose value is hard to overestimate» (Aarseth, Computer Game Studies, Year One, 2001).
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2.1 GAME E PLAY
In inglese vi è una fondamentale differenza tra le due parole game e play, le quali entrambe in italiano, come in molte altre lingue, si tradu- cono con gioco. Tuttavia un gioco può essere sia un artefatto, come una bambola o un mazzo di carte (in inglese game), sia l’attività del giocare legata a tale oggetto (in inglese play). Per questo fin dalla nascita dei Game Studies, per gli studiosi è stato difficile dare una definizione esauriente del termine. Cercando nei dizionari e nelle enciclopedie, la descrizione che possiamo trovare non è soddisfacente e spesso assume una vena negativa, così ci affidiamo a coloro che hanno analizzato il gioco in tutte le sue sfaccettature, fino a giungere ad una conclusione convincente.
Il filosofo americano Bernard Suits ([1978] 2005) è riuscito a fornire una definizione valida per qualsiasi tipo di attività ludica; di seguito è riportata dunque la definizione di gioco inteso come play:
Giocare a un gioco è lo sforzo volontario di superare ostacoli non necessari (Suits, [1978] 2005, pag. 38).
Stando a quanto afferma lo studioso nel suo The Grasshopper, ogni gioco si regge su tre concetti fondamentali: obiettivo, regole costitutive e lusory attitude, ossia l’atteggiamento ludico. Inizialmente ci deve essere uno scopo da raggiungere, il quale può essere fissato anche fuori dai termini del gioco; vi sono poi una serie di vincoli e indicazioni che limitano le azioni dei giocatori, affinché non giungano troppo facilmente e/o velocemente alla vittoria: sono le regole costitutive. Gli ostacoli della definizione sono non necessari, perché le regole impediscono di usare il sistema più efficace per giungere allo scopo (cfr. Suits, [1978] 2005; Bertolo, I. Mariani, 2014). Infine, è necessario che ogni partecipante dimostri la propria volontà di giocare, cercando di arrivare all’obiettivo nel rispetto delle regole per propria libera scelta (lusory attitude, in italiano atteggiamento ludico).
Per giocare però non è sufficiente la lusory attitude, anzi, l’impianto di regole, che dev’essere ben progettato, spesso prevede una serie di materiali indispensabili ad iniziare una partita. Tutti questi elementi, insieme, costituiscono il gioco come artefatto: il game.
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Per completare la definizione di Suits ([1978] 2005) dunque, è utile citare anche quella degli americani Salen e Zimmerman (2004), i quali si riferiscono al gioco inteso in questo senso:
Un gioco è un sistema al cui interno i giocatori si impegnano in un conflitto artificiale, ben definito da regole, che porta ad un risultato quantificabile (Salen e Zimmerman, 2004, pag. 81).
È interessante notare che, sia nella definizione dell’enciclopedia Trec- cani precedentemente citata, sia in quella dei due studiosi, si parli di un obiettivo finale quantificabile; la differenza, tuttavia, sta nelle parole “vincita in denaro” (Treccani), le quali sottintendono uno scopo di gioco che va oltre il giocare stesso. Secondo numerosi studi, tra cui quelli dello psicologo ungherese Csikszentmihalyi (1990) e di McGonigal (2011), un’attività che genera un’esperienza significativa e da cui gli esseri umani possano trarre genuino piacere dev’essere priva di ricadute esterne. Questo vale anche per il gioco, perché quando siamo impegnati in esso siamo dimentichi del tempo e di quanto ci circonda. Il termine scientifico per questo tipo di attività è autotelico: lo è il gioco come artefatto, poiché contiene al suo interno le proprie ricompense e tutto quanto serve per giocare, ma lo è anche il giocare come attività, dato che trova in sé motivazione e gratificazione (cfr. Bertolo, I. Mariani, 2014).
2.2 MEANINGFUL PLAY
Un gioco, sia come game che come play, può essere progettato da coloro i quali prendono il nome di game designer, cioè le figure professionali e accademiche che agiscono all’interno di una disciplina la quale presenta molti punti di vicinanza con i Game Studies, da cui attinge teorie e me- todologie, e con il design, a cui si affida per le tecniche di progettazione. Da qui essa prende il nome di Game Design. L’ambito di lavoro e analisi è naturalmente lo stesso dei Game Studies, infatti il Game Design attinge a tutte le basi teoriche, le riflessioni e gli studi già fatti sul gioco, con- tribuendo all’espansione della disciplina (cfr. Bertolo, I. Mariani, 2014). A questo punto, secondo quanto affermano Salen e Zimmerman (2004, pag. 33), possiamo evidenziare qual è il principale scopo del Game Design: «the goal of successful game design is the creation of meaningful play». Imparare a creare ottime esperienze di gioco, che siano meaningful, significative, è forse il più importante obiettivo del Game Design.
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Come si è già potuto vedere nel paragrafo precedente, l’attività ludica si innesca nel momento in cui i giocatori interagiscono con il sistema di gioco e tutti i suoi elementi (in altre parole il pianale, le pedine, il regolamento, o la console, il computer se si tratta di videogame, e così via), ma anche con il contesto in cui si è immersi.
Dalla relazione tra le azioni di un individuo e le reazioni del sistema, scaturisce di volta in volta un significato diverso ed è per questo che torniamo ad utilizzare di nuovo uno stesso gioco, poiché vi è sempre una nuova fonte di divertimento: una meaningful play experience (Bertolo, I. Mariani, 2014, pag. 85), in italiano un’esperienza di gioco significativa. Ogni gioco, quindi, genera divertimento e significato quando giocato. L’obiettivo del game designer è spesso quello di progettare in modo consapevole e coscienzioso (cfr. Flanagan e Nissenbaum, 2014), affinché il gioco includa valori e significati specifici. Nei paragrafi successivi (v. paragrafo 4.3) si vedrà come, invitando alla riflessione e al cambiamento, il gioco possa influenzare i giocatori anche al di fuori di esso.