3. Sull’ utilità e il danno della storia per la vita
3.2 Teoria della coscienza del tempo
L’enigmatico esordio leopardiano, come Colli lo definisce, di questa seconda Inattuale è una citazione dal Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, e ne rievoca i toni malinconici. Il quadro di apertura schizza l’immagine di un gregge beatamente al pascolo, ignaro di se stesso, spinto in un eterno presente dal suo rinnovato bisogno di sopravvivere, che è incapace di articolare in una dimensione temporale pluriversa, perché incapace di un’attività rammemorante68. La condizione umana è invece opposta. Egli [l’uomo] si meravigliò anche di se stesso, per il fatto di non poter imparare a dimenticare e di essere continuamente legato al passato: per quanto lontano, per quanto rapidamente egli corra, corre con lui la catena69.
68 É interessante, anche da un punto di vista classico per la filosofia della storia, fermarsi alla
caratterizzazione di questa emancipazione dallo stato di minorità istintuale e naturale offerto da Kant. A tal proposito cfr. I. Kant, Inizio congetturale della storia degli uomini in F. Gonnelli (a cura di), Kant,
Scritti di storia, politica e diritto, Laterza, Roma-Bari 2007, p. 105: «Sinché l’uomo, inesperto, obbedì a
questo richiamo della natura, ci si trovò bene. Ma la ragione cominciò presto a risvegliarsi e, attraverso la comparazione di ciò che aveva assaporato con ciò che un altro senso da quello a cui era legato l’istinto, ossia il senso della vista, gli rappresentava come simile ad esso, cercò di estendere la sua conoscenza sui nutrimenti oltre i confini dell’istinto». Avendo Kant assodato nella precedente Idea per una storia
universale dal punto di vista cosmopolitico (1784), p. 31: «[che] la ragione, in una creatura, è la facoltà di
estendere le regole e gli scopi dell’uso di tutte le sue forze molto oltre l’istinto naturale, e non conosce limiti ai suoi progetti».
Come potrebbe quest’uomo imbrigliato nelle maglie della coscienza rammemorante, imparare a dimenticare in modo salutare, e affrontare qualcosa come la vita, che si alimenta del negare, consumare e contraddire se stessa?
E quando infine la morte porta il desiato oblio, essa sopprime insieme il presente e l’esistenza, imprimendo in tal modo il sigillo su quella conoscenza – che l’esistenza è solo un ininterrotto essere stato, una cosa che vive del negare e del consumare se stessa, del contraddire se stessa70.
La possibilità di destreggiarsi felicemente nella vita è legata alla capacità di sentire, come l’animale, in modo non storico, ovvero di poter dimenticare.
Chi non sa mettersi a sedere sulla soglia dell’attimo dimenticando tutte le cose passate, chi non è capace di star ritto su un punto senza vertigini e paura come una dea della vittoria, non saprà mai che cosa sia la felicità, e ancor peggio, non farà mai alcunché che renda felici gli altri. Immaginate l’esempio estremo , un uomo che non possedesse punto la forza di dimenticare, che fosse condannato a vedere dappertutto un divenire: un uomo simile non crederebbe più al suo stesso essere, non crederebbe più a sé, vedrebbe scorrere l’una dall’altra tutte le cose in punti mossi e si perderebbe in questo fiume del divenire: alla fine, da vero discepolo di Eraclito, quasi non oserebbe più alzare il dito71.
Il richiamo di questa immagine del discepolo di Eraclito non è di secondaria importanza in Nietzsche. É una immagine perdurante, che viene richiamata altrove e che, in particolare per le esigenze di questa ricerca, è da considerare che sarà presente anche nella caratterizzazione che di Eraclito si fa nella Filosofia dell’epoca tragica dei Greci. L’immagine del discepolo di Eraclito è in realtà una contenitore rappresentativo, una semeiotica pertinente ad una precisa rete concettuale. Nietzsche muove spesso la sua filosofia per immagini; è quasi una strategia platonica, che è legata al tentativo di disciplinarsi dandosi una dieta espressiva, nel senso greco del termine dieta; questa filosofia dell’espressione verrà teorizzata esplicitamente in testi posteriori, in particolare nella maturità di Al di là del bene e del male ed Ecce Homo, in cui Nietzsche esprimerà l’esigenza di guadagnare un lettore alla sua filosofia, puntando sulla retorica sensuale e gestuale delle immagini, magari anche costruendo dei mitologemi, che veicolino il concetto filosofico verso un pubblico, scansando le asprezze delle forme tradizionalmente assunte. Corrispondentemente, anche il pubblico sarà selezionato quasi
70 Ivi, p. 7. 71 Ivi, p. 8.
naturalmente dal taglio stilistico della filosofia: una filosofia, dirà Nietzsche, che dovrà esasperare «ogni genere di gente frettolosa»72.
L’esempio ‘estremo’ del discepolo di Eraclito, sembra apparentemente riportare l’ordine degli interrogativi nietzscheani in una epoca prekantiana o, addirittura, presocratica: con questa articolazione del discorso filosofico sul divenire, siamo quasi precipitati in un regno eleatico di opposizione dell’essere eterno e immutabile al divenire inarrestabile e in-comprensibile: e per di più, pare secondario il ruolo di quel soggetto trascendentale ormai guadagnato alla filosofia con Kant, che informa la realtà delle sue esperienze attraverso le proprie categorie intellettuali. Cosa resta di questo ‘uomo’ gettato nel divenire e, in particolare, nel divenire del tempo, che lui concepisce come tale e reale, proprio a causa del fatto di essere un «animale storico»?
La bibliografia sul tema, la collocazione della scrittura di queste Inattuali nel periodo di Basilea e la lettura dei frammenti postumi del periodo, ci aiutano a dare un peso alle categorie chiamate in causa: se l’intento è inattuale, come il respiro di tanta filosofia di Nietzsche, lo scenario, più che leopardiano, qui, è schopenhaueriano. La concrezione di queste due facoltà73, quella cioè di dimenticare e ricordare, emerge nella dialettica
dell’affrontamento uomo-mondo74. Non solo, la facoltà di ricordare, cioè di produrre
autonomamente rappresentazioni dislocandole dal radicamento al presente, dallo stimolo im-mediato della realtà, è un vero è proprio discrimine antropologico: questo fa l’animale storico, e dunque l’uomo storico, di contro all’animale astorico. Rimettere in
72 Cfr. F. Nietzsche, Genealogia della morale. Uno scritto polemico, Adelphi, Milano 1984, p.11:
«Indubbiamente per esercitare in tal modo la lettura come arte, è necessaria soprattutto una cosa che oggidì è stata disimparata proprio nel modo più assoluto – ed è per questo che per giungere alla «leggibilità» dei miei libri occorre ancora del tempo – una cosa per cui si deve essere quasi vacche e in ogni caso non «uomini moderni»: il ruminare….».
73 Sono da evidenziare, a nostro avviso, alcuni termini tedeschi: «Poter dimenticare» è tradotto come
«das Vergessenkönnen», e continuando:«oder, gelehrter ausgedrückt das Vermögen, während seiner
Dauer unhistorisch zu empfinden». E’ necessario evidenziare l’afferenza all’idea di una vera e propria
facoltà, con la parola «Vermögen», accompagnata e quasi associata ad uno specifico e correlativo
«Empifinden», un sentire specifico.
74 La categoria è heideggeriana, ma la adottiamo in senso lato. Come anche il peso delle categorie
asse, riequilibrare queste due forze che, attraversandosi, creano dall’animale un uomo, e ne fanno la condizione esistenziale, nel senso arendtiano del termine, significa ristabilire un equilibrio salutare dell’uomo con se stesso.
É potente, inoltre, nel passo prima citato il richiamo alla capacità dell’uomo di credere al suo stesso essere. Non è qui in gioco una mera questione psicologica. É qui in gioco una questione filosofica, teoretica: quella del mobile dominio di fede e sapere, da un lato, e quella della portata ontologica delle categorie inerenti al sapere, dall’altro. D’altronde se il quadro è schopenhaueriano, resta una divaricazione tra il divenire irreale ed il nocciolo duro di verità irrazionale sempre reale, fatto dal Wille. Ma quel diaframma tra l’animale e la realtà, che è la coscienza umana e che è il vero arbitro di questo affrontamento, fino a che punto è umano? E fino a che punto è reale?
Con Colli, veniamo confortati nell’ipotesi che l’identificazione nietzscheana tra agire e vita ha una matrice schopenhaueriana; per cui quella forza umana rammemorante in cui, essenzialmente, la coscienza umana si attualizza, nella immediatezza dell’azione è solo apparentemente attiva: l’azione è cieca, come la vita, è irrazionale e, soprattutto, incosciente.
Per ogni agire ci vuole oblio: come per la vita di ogni essere organico ci vuole non soltanto luce, ma anche oscurità. Un uomo che volesse sentire (empfinden) sempre e solo storicamente, sarebbe simile a colui che venisse costretto ad astenersi dal sonno, o all’animale che dovesse vivere solo ruminando e sempre per ripetuta ruminazione. Dunque, è possibile vivere quasi senza ricordo, anzi vivere felicemente, come mostra l’animale; ma è assolutamente impossibile vivere in generale senza oblio. Ovvero, per spiegarmi su questo tema ancor più semplicemente: c’è un grado di insonnia, di ruminazione di senso
storico, in cui l’essere vivente riceve danno e alla fine perisce, si tratti poi di un uomo, di un popolo o di una civiltà75.
Bisogna evidenziare di questo passo innanzitutto la similitudine biologistica, che per Nietzsche è più di uno strumento letterario; il linguaggio afferente al dominio semantico della biologia ottocentesca diventerà imprescindibile nei testi successivi, in particolare a partire dall’incontro con le scienze naturali contemporanee. Attraverso questo richiamo al piano strettamente organico, l’intenzione è prevalentemente quella di decantare il
concetto di vita delle sue sovrastrutturazioni antropologiche, morali in particolare, per ridurlo all’osso: riportarlo al concetto lineare, minimale, biologico, parlando di vita come di ciò che si alimenta del suo stesso negarsi e contraddirsi.
Ancora una volta è interessante segnalare, da un punto di vista classico per la filosofia della storia, lo slittamento indifferente dal piano individuale a quello del genere e da questo a quello della civiltà. É un punto molto importante, specie per il modo in cui va ad impattare sulla questione del rapporto tra individuo e società, che in questo stesso testo ancora assume coloriture schopenhaueriane. Ciò che per tanta parte di filosofia della storia è per esempio ‘storia del genere’ (umano), qui diventa storia di singoli individui eroicamente opposti ad una massa amorfa: una idea schopenhaueriana, evidentemente. La storia universale, classicamente intesa, inizia proprio a partire da questa Inattuale ad essere svuotata delle sue classiche determinazioni, perché alla base di questa nozione c’è una teoria della coscienza storica completamente riveduta rispetto, almeno, a quella kantiana.
Ascoltiamo ancora Nietzsche, mentre gradualmente definisce l’umanità in base alla sua collocazione esistenziale nella dimensione temporale:
Per determinare questo grado e poi per mezzo suo il limite in cui il passato deve essere dimenticato, se non vuole diventare l’affossatore del presente, si dovrebbe sapere con esattezza quanto sia grande la forza
plastica di un uomo di un popolo o di una civiltà, voglio dire quella forza di crescere a modo proprio su
se stessi, di trasformare e incorporare cose passate e estranee, di sanare ferite, di sostituire parti perdute, di riplasmare in sé forme spezzate76.
Parlando di «un passato che deve essere dimenticato, per evitare che diventi l’affossatore del presente», si apre un orizzonte temporale che non è semplicemente psicologico e individuale, assimilabile a quello dell’homunculus interiore di agostiniana memoria, che porta in sé una rappresentazione intellettuale del tempo passato, presente e futuro. Si prospetta, piuttosto, un orizzonte storico epocale, su ogni piano di quelli prima citati: individuale, generale e di un’intera civiltà, che nella fattispecie è quella
Occidentale per Nietzsche. Il dato peculiare della teoria nietzscheana è nel diaframma, come prima lo chiamavamo, che si interpone fra il divenire e l’animalità dell’essere vivente: la coscienza del tempo, come concrezione delle forze attive di oblio e rammemorazione; come concrezione di quella «forza plastica» che, ancora una volta, può darsi a livello individuale, generale e di una intera civiltà (Kultur).
Nel definire il concetto di forza plastica (die plastiche Kraft), Nietzsche stabilisce un legame tra l’economia delle energie vitali di un individuo e la sua capacità di riportare in equilibrio le forze di oblio e rammemorazione, ovvero la sua capacità di tenere consapevolezza misurata di ciò che è passato: sembra quasi ne faccia un canone greco.
Quanto più la natura intima di un uomo ha radici forti, tanto più egli si approprierà o impadronirà del passato; e se si immaginasse la natura più potente e immane, essa si potrebbe riconoscere dal fatto che per lei non ci sarebbe nessun limite del senso storico, ove questo agisse in modo soffocante e dannoso; ogni cosa passata, propria ed estraneissima, essa l’attirerebbe a sé, l’introdurrebbe in sé, trasformandola per così dire in sangue. Una tale natura ciò che non vince lo sa dimenticare (…)77.
Ora, l’idea della plasticità afferente al capitale psichico di un individuo o un popolo è il risultato della trasposizione di un concetto che pertiene più al dominio semantico del mondo artistico. Come non lo era per l’assimilazione del processo rammemorativo e vitale alla biologia di un organismo elementare, neanche qui è casuale la scelta del lessico. Parlando della capacità di assimilare il passato al presente, attraverso una coscienza equilibrata tra le forze rammemoranti e quelle oblianti, Nietzsche ha in mente una facoltà mnemonica artistica: creativa nella selezione dei ricordi e nella loro rievocazione in una rappresentazione attuale, consapevole.
La serenità, la buona coscienza, la lieta azione, la fiducia nel futuro – tutto ciò dipende, nell’individuo come nel popolo, dal fatto che ci sia una linea che divida ciò che si può abbracciare con lo sguardo, ciò che è chiaro, da ciò che è non rischiarabile e oscuro; dal fatto che si discerna immediatamente con forte istinto quando è necessario sentire in modo storico e quando in modo non storico. É proprio questa la proposizione alla cui considerazione il lettore è invitato: ciò che è non storico e ciò che è storico sono
ugualmente necessari per la salute di un individuo, di un popolo e di una civiltà 78.
77 Ibidem. 78 Ivi, p. 10.
É in questione a questo punto una tematica identificativa: Nietzsche parla di un «orizzonte», circoscritto proprio da questa forza plastica, da questa capacità di assimilazione di quanto è passato, fondata da una radicale componente rappresentativa. Così, se la condizione necessaria e sufficiente per vivere felicemente è un sentire non storico, come quello dell’animale, condizione necessaria per la condizione umana, ma non sufficiente per la felicità, è il sentire storico. É caratteristico l’utilizzo del termini: «das historische Wissen und Empfinden eines Menschen», che afferiscono ad un dominio semantico non solo inerente al wissen, dunque alla sfera più propria del sapere, ma anche a quello dell’empfinden, ovvero del sentire: si parla di sentire storico e non storico, descrivendo un movimento che è affine a questa etica degli istinti, e alla relativa patologia, che rende filosoficamente commensurabile la sfera antropologica a quella animale e, addirittura, a quella semplicemente organica.
Dovremo dunque ritenere più importante e originaria la capacità di sentire in un certo grado non storicamente, in quanto in essa si trova il fondamento su cui soltanto può in genere crescere qualcosa di giusto, di sano e di grande, qualcosa di veracemente umano. Ciò che non è storico assomiglia a un’atmosfera avvolgente, la sola dove la vita può generarsi, per sparire di nuovo con la distruzione di quest’atmosfera79.
Questa atmosfera vaga, dal sapore wagneriano, ha qui ancora molto della metafisica artistica teorizzata nella Nascita della tragedia: il velame dell’incoscienza che non solo consente all’azione individuale di concretizzarsi, ma, addirittura, ad «ogni grande evento storico di sorgere», scopre l’umanità nietzscheana intenta a raccogliersi integralmente nella rappresentazione dell’azione, come se si trattasse di una improrogabile istintualità da esprimere, come se si trattasse, usando una formulazione più tarda, di scaricare un’energia accumulata entro un canale rappresentativo recuperato a posteriori e che prenda la forma di un fine, un obiettivo.
Poco dopo si osserva:
É vero, solo per il fatto che l’uomo pensando, ripensando, paragonando, separando, unendo, limita
quell’elemento non storico, (…) – cioè solo per la forza di usare il passato per la vita e di trasformare la storia passata in storia presente, l’uomo diventa uomo: ma in un eccesso di storia l’uomo viene
nuovamente meno e senza quell’involucro del non storico non avrebbe mai incominciato e non oserebbe mai incominciare80.
Mentre si approssima a definire il tipo dell’uomo non storico, Nietzsche tratteggia, per quanto ancora approssimativamente, un insieme di operazioni intellettuali, quasi l’attività di un soggetto trascendentale, che, come evidenziato, «pensando, ripensando, paragonando, unendo», costruisce un proprio orizzonte identitario, tenuto insieme esattamente da quella forza plastica ormai definitivamente configurata come capacità di disciplinare con forze attive e reattive, di ricordo e oblio, la coscienza della temporalità. Questa attività di catalogazione, delimitazione, separazione, così strutturata, nella sua essenza mnemonica, tanto che pensare coscientemente diventa in toni quasi platonici, saper sentire in modo storico, ovvero sapere ricordare, ha un retaggio schopenhaueriano, dunque kantiano. Non è un caso che il discorso sulla «malattia storica» si delinei, per quanto in maniera ancora molto vaga, partendo da un soggetto, ingaggiato nell’ affrontamento della realtà di cui sperimenta la liquidità, e che attraversato da essa, cerca di opporre degli argini di contenimento; questa opera di arginamento e di op-posizione al divenire (anche se ‘divenire’ è già una rappresentazione che fa da argine), segnano lo spazio, l’orizzonte, per usare lo stesso termine nietzscheano, dell’identità umana: è così, si dice, che l’uomo diventa uomo; l’insieme di questi argini congela la liquidità di un tale divenire e, semplificandola, la rende apprensibile, comprensibile coscientemente. Bisogna necessariamente limitare l’istinto astorico, per poter conoscere umanamente la realtà. Ma per non cadere in un degenerata ipertrofia storicizzante, bisogna tenere in equilibrio l’attività rammemorante. É essenziale, a che ciò avvenga, che il modo di sentire storico e non storico, questi due istinti opposti, di cui (e Nietzsche è chiaro su questo) quello non-storico è più originario
e permette l’azione, vadano a concrescere e alimentarsi entro la complessa forza plastica individuale, che è il capitale della attività ‘trascendentale’ di ogni individuo.
La forza plastica di riappropriazione del passato, dopo la teorizzazione di questi due istinti è dunque al centro della riflessione e prelude alla trattazione dei tre tipi di rapporto tra storia e vita.