• Non ci sono risultati.

2.4 Una teoria sistemica delle politiche pubbliche

2.4.1 Utilità e prospettive di una nuova Teoria dei Sistem

La formulazione di ‘grandi teorie’ rivolte alla spiegazione della società e della sua evoluzione nel tempo è stata l’esercizio dominante dei primi (cento) anni della disciplina sociologica. Le cosiddette teorie macro (evoluzionismo, teorie del con- flitto, teorie multidimensionali e teorie dei sistemi) hanno cercato di individuare delle categorie di interpretazione che potessero avere validità generale nel senso di spiegare tutti gli aspetti del sociale nelle sue eterogenee manifestazioni. Si può ragionevolmente affermare che il culmine di questo discorso si ritrova negli anni ‘50 del secolo scorso con la onnicomprenisva teoria dell’azione di Parsons , dopo il quale (e forse anche come forma di reazione) le big theories hanno lasciato il passo a prospettive di indagine più concentrate su domini ristretti della realtà sociale (Collins cit.). Questa nuova attenzione alla dimensione microsociale (che proseguiva una tradizione avviata dagli interazionisti di fine ‘800) ha dominato gli anni più recenti della disciplina, con alcuni eccessi di frammentazione che hanno indotto alcuni ad ipotizzare che sia forse arrivato il momento di recuperare alla disciplina uno sguardo più onnicomprensivo per superare la limitatezza esplicati- va di esercizi eccessivamente concentrati.

In questo senso merita soffermarsi brevemente, per le implicazioni che ne pos- sono venire in termini della considerazione dei processi di policy, sul ritorno in auge della teoria dei sistemi. Ritorno probabilmente accelerato dalle esigenze di comprensione di una realtà sociale di cui la dimensione sistemica sta pro- gressivamente diventando cifra distintiva, un fenomeno su cui pesa la capillare diffusione delle nuove tecnologie che sono intrinsecamente informate a questa

prospettiva. Jonathan Turner nel suo Manuale di teorie sociologiche (Turner 2006) fa

infatti provocatoriamente notare come “ qualcosa sia successo nella sociologia della II metà del XX secolo” e in particolare una netta divisione tra gli scienziati praticanti e i teorici antiscientifici. Con ciò intende riferirsi alla frammentarietà di un universo disciplinare in cui le ‘grandi teorie’ esplicative della società erano via via state abbandonate e la disciplina sociologica aveva intrapreso una strada di iperspecializzazione. Se i risultati in questo campo sono stati notevoli in termini di comprensione di alcune dinamiche distintive dei meccanismi sociali, sembra ormai giunto il momento, sostiene Turner, di rilanciare lo sforzo intellettuale teso a fornire una visione più generale del funzionamento delle società umane all’in- terno del quale trovino posto anche prospettive di osservazione di raggio più ridotto. Il discorso si incentra allora sulla rilevanza di scegliere un livello di scala da cui osservare il mondo sociale tra micro, macro (e meso). Questi livelli non vanno considerati come semplici artifici analitici ma, nel loro intrecciarsi lungo molteplici canali di interazione, rappresentano effettivamente la realtà sociale e le sue dinamiche di funzionamento. La sfida della moderna sociologia viene posta quindi nella comprensione delle relazioni tra questi livelli.

Nell’opinione di Turner nella realtà esistono delle forze sociali il cui effetto è il condizionamento delle azioni e interazioni degli individui. L’analisi di queste forze deve declinarsi lungo tre profili problematici: la loro identificazione; le loro dinamiche di funzionamento; le relazioni tra di esse. Queste forze sociali operano ai diversi livelli di scala della società e sebbene si possano osservare ‘separatamen- te’, il compito della sociologia è quello di comprendere i meccanismi multilivello di reciproco contenimento e influenza come rappresentato in figura:

Figura 3. Il compito della sociologia secondo Turner: legare le forze sociali operanti ai diversi livelli della realtà (Turner cit.)

In coerenza con questa impostazione, Bailey (Bailey 2006) apre decisamente alla necessità di una ‘grande teoria’ per cercare di intercettare la complessità della società contemporanea. Questa, come in Turner, si presenta come un sistema multilivello, con dimensioni di separazione e interazione tra sottosistemi sia verti- cali (tra livelli) che orizzontali (su uno stesso livello). Bailey tiene a sottolineare la sostanziale inadeguatezza delle derive specialistiche della disciplina nel compren- dere questioni attuali e urgenti dallo spiccato carattere sistemico quali i processi di differenziazione e integrazione sociale, la divisione del lavoro, la diffusione di tecnologia e di informazione. Con ciò non intende mettere in discussione la validità degli esiti della ricerca che si è sviluppata ispirandosi a impostazioni epistemologiche, quali la teoria del middle-range (Merton 1949), ma propone di compiere alcuni passi in avanti.

Il ritorno alla ‘grande teoria’, nell’idea di Bailey, non lascia spazio al ritorno alle teorizzazioni sistemiche cui riconosce, al Funzionalismo e a Parsons per primo, di aver reso alla sociologia l’importante servizio di proporre una visione ‘olistica’ dei sistemi sociali.

I difetti sopravanzano però i pregi, a partire dall’eccessiva dipendenza della Te- oria dei Sistemi da concetti ereditati dalla metafora termodinamica dello studio di sistemi isolati e in equilibrio, evidentemente inapplicabile a qualsiasi ipotesi di osservazione, prima che di spiegazione, dei sistemi sociali. Oltre a questo peccato originale, le teorie dei sistemi mostrano altri punti deboli. Innanzi tutto la prete- sa dell’esistenza di una condizione di equilibrio e dei meccanismi automatici di aggiustamento (omeostasi), concetti osservabili nei sistemi sociali, un forte con- notato ideologico, che si risolve nella vocazione alla stabilità e all’integrazione più che al cambiamento, un livello di astrazione troppo elevato per una disciplina che deve tornare a occuparsi di fenomeni legati all’esperienza umana (Bringing Men Back In6) e la conseguente difficoltà nella verifica degli assunti teorici.

A fronte di questi limiti (difficilmente confutabili) della Teoria dei Sistemi, Bai- ley propone di orientarsi verso ‘modelli di non-equilibrio’, che sostituiscano il paradigma dell’equilibrio e degli improbabili processi sociali di riallineamento omeostatici, di insistere sulla funzione del ‘controllo’ nella direzione di compren- dere le dinamiche di decision making come il più importante dei sottosistemi e di esplorare le ‘relazioni interno-esterno’, rispetto alle quali bisogna ipotizzare persuasive rappresentazioni e spiegazioni della complessa rete di interazione e scambio tra i sottosistemi e l’ambiente esterno superando la semplicistica dicoto- mia dei sistemi aperti/chiusi.

Questi orizzonti di sviluppo hanno trovato realizzazione nell’applicazione alla 6 Questo il titolo di un articolo di G. C. Homans (American Sociological Review, vol. 29, 5, 1964) in cui viene con forza sostenuta l’esigenza di rimettere gli uomini e non le strutture o gli aggregati anonimi e impersonali al centro della ricerca sociologica.

ricerca sociale di alcuni dei concetti sviluppati all’interno della Teoria Generale dei Sistemi (GST). Il movimento nato nel decennio ‘50/’60 del ‘900 segna un profondo rinnovamento della precedente tradizione sistemica riconoscendo al non-equilibrio dei sistemi la loro caratteristica fondamentale. La GST ha rappre- sentato una ‘casa comune’, un punto di integrazione per i ricercatori che rico- noscevano centralità al concetto di sistema come entità collettiva caratterizzata dall’interazione dei suoi componenti e dalla non-linearità di questa interazione che evolve su traiettorie lontane dalla condizione di equilibrio. I risultati della ricerca rivolta a comprendere le proprietà di siffatti sistemi hanno rappresentato stimoli fecondi per le scienze sociali, in genere, e per la sociologia in particolare. Il paradigma della complessità di cui abbiamo in precedenza delineato i tratti prin- cipali si inquadra negli sviluppi della teoria dei sistemi che fanno capo alla GST.